lunedì 5 settembre 2011

Sull'Orlo dell'Ignoto - Parte IV

Parcheggiò la macchina in un posteggio accanto al ponte che attraversava il fiume sul quartiere più ad est della città e, dopo essere sceso, si incamminò a passo spedito, stringendosi nel cappotto che aveva indossato prima di uscire e ripetendosi ancora una volta che sarebbe andato tutto bene, che ciò che era in procinto di fare non rappresentava altro che la decisione migliore da prendere per il bene di Valentina e della dolce creatura che portava in grembo.
Raggiunse il ponte dopo qualche minuto di tragitto. Lì era tutto scuro e offuscato da una quiete idilliaca, e nella pace innaturale partorita dalle tenebre l’unico sussurro che si poteva indovinare era quello del corso d’acqua che fluiva svogliato e sinuoso sotto l’asfalto al quale erano appoggiate le suole delle sue scarpe. Lo scorrere del fiume era quasi ipnotico, enigmatico, per certi versi, e quando il rimbombo dei passi pesanti di Stefano finì di echeggiare nel silenzio parve addirittura farsi più forte – ma era forse lo sciabordio prodotto dalle sue memorie impolverate che riemergevano, quello che udiva colare sotto di sé?
Si sedette sul bordo del ponte, lasciando ciondolare le gambe a penzoloni, sotto la diafana luce di un lampione che con il suo candore illuminava a malapena un insignificante lembo di asfalto. Era lì per uno scopo, ed era giunto il momento di rivelarlo anche a se stesso. Non poteva tirare avanti ancora quella drammatica storia, non più.
Stava perdendo ciò che non meritava, non c’era altro da dire. Era questa la verità, che gli piacesse o no. Roberto, il padre di Valentina, gli aveva sempre fatto presente a denti stretti che non meritava assolutamente di sposare sua figlia e di avere un figlio con lei. Adesso si rendeva conto che suo suocero aveva avuto ragione: non gli rimaneva che rinunciare a lei e al loro bambino per sempre, cosicché Roberto li riaccogliesse in casa propria e mettesse a loro disposizione un domani di gran lunga più promettente.
La sua mano destra scivolò zitta zitta all’interno della tasca del cappotto e le sue dita carezzarono la rassicurante presenza di un metallo freddo, liscio e risolutore. Estrasse la pistola tenendola per l’impugnatura, abbarbicandosi quasi ad essa mentre la osservava sotto i raggi di luce obliqui del lampione che si innalzava al suo fianco. Il ferro era davvero gelido, tetro e impersonale. L’arma era nera, ma l’oscurità più completa che avesse mai avuto modo di vedere era rappresentata dalla sua bocca da fuoco, che Stefano tentò di sondare attentamente prima di posarla sull’asfalto umido accanto a sé. Era già pronta, con la sicura inserita. Aveva caricato un solo colpo. Non gliene occorrevano altri, dopotutto.
Sì, a conti fatti non c’era altra soluzione: se lui si fosse tolto la vita, lì, in quel momento, lontano da tutto e da tutti, Valentina avrebbe potuto fare ritorno da suo padre e Roberto sarebbe stato benissimo in grado di provvedere a lei e al piccolo che portava in grembo – e lo avrebbe fatto davvero volentieri, beandosi, di quando in quando, del fallimento dell’uomo che sua figlia aveva sposato malgrado lui le avesse fin da sempre sconsigliato di farlo.
Una soluzione non tanto felice, ma perlomeno efficace. Finché ci fosse stato lui di mezzo, Valentina non sarebbe mai ritornata a casa dal padre, lasciandolo solo a sbrigare le proprie faccende. Lui aveva commesso un errore e lui adesso aveva trovato l’unico rimedio possibile a quella colpa. Tutto sommato, gli sembrava una cosa equa.
Così, la sua vita doveva finire su quel ponte. Quando avrebbe premuto il grilletto, immaginò, il suo corpo sarebbe precipitato nel corso del fiume e sarebbe stato trascinato via dall’impetuosa corrente di acqua torbida per qualche chilometro al massimo, dove lo avrebbero ripescato e identificato. Dopodiché, a Valentina sarebbe arrivato l’annuncio della morte del marito. Lei avrebbe sofferto, probabilmente. Questo era l’unico punto debole del suo progetto, irrisolvibile. Dopo un po’, però, avrebbe cominciato ad accettarlo e avrebbe ripreso a vivere, dando alla luce il loro splendido bambino e riversando su di lui tutto l’amore che avevano condiviso nei loro otto anni di matrimonio – un amore intenso e sincero, alimentato dai palpiti dei loro cuori che respiravano all’unisono dal primo istante in cui si erano visti.
Per tutti quanti, in questa maniera, sarebbe andata a finire relativamente bene. Valentina non avrebbe dovuto preoccuparsi di problemi finanziari e quant’altro, mentre il loro piccolo sarebbe stato cresciuto con tutti i lussi e tutte le coccole che un bambino potesse ricevere. E Roberto, poi, avrebbe ottenuto ciò che desiderava da quando lo aveva conosciuto: riavere indietro la sua Valentina e non lasciarsela scappare mai più.
Mancava soltanto lui: beh, per lui non sarebbe finita altrettanto bene, gli venne da riflettere, ma se non altro avrebbe fatto in modo che la sua famiglia non dovesse soffrire troppo a causa sua – la sofferenza di una perdita era temporanea, quella dell’indigenza infinita, mormorò tra sé e sé. In fondo, il fatto che lui non avrebbe ricavato alcuna felicità da quella risoluzione definitiva non lo spaventava più di tanto. Di fronte al futuro di Valentina si trattava di una trascurabile piccolezza.
Aveva comperato quella pistola, che riprese in mano con fare tremante, all’incirca un mese prima, senza dire nulla a Valentina. Da allora la teneva nascosta sotto il sedile dell’auto, cercando nel frattempo un nascondiglio sicuro in camera da letto dove sua moglie non potesse scovarla. L’aveva pagata poco; anche volendo rivenderla, non sarebbe riuscito con essa a pagarsi nemmeno la metà della rata del mutuo – e in ogni caso vendere una pistola non era cosa da niente, bisognava innanzitutto trovare qualcuno che fosse interessato a prendersela e le trattative potevano trascinarsi per giorni e forse addirittura per settimane. L’aveva acquistata per poter proteggere la sua famiglia. In tempi come quelli che correvano, la sicurezza non era mai troppa. Il mondo era piombato in uno stato di degrado sempre più rapido e sdrucciolevole, irreversibile. Ad un primo acchito, qualcosa si poteva ancora salvare, ma se si scendeva nel profondo si scopriva con orrore che tutta la mela della realtà era marcia. Quella pistola gli sarebbe dovuta servire a difendere la propria famiglia dai mali del mondo.
Buffo, notò, sghignazzando per la prima volta da quando era stato licenziato. In un certo senso, quella notte la pistola che teneva tra le mani avrebbe realizzato il fine in vista del quale l’aveva acquistata. Tutto sommato, a pensarci bene era proprio così.
Percorse ogni millimetro del ferro dell’arma con i polpastrelli, saggiandone la concretezza gelida e imperscrutabile assieme all’inaccessibile, indecifrabile solidità. Rimosse la sicura, con cautela, e sfilò il caricatore per verificare che il proiettile ci fosse. Tirò indietro il carrello di armamento, delicatamente, e un improvviso scatto metallico gli segnalò che ora il colpo era in canna. Controllò ancora una volta che la sicura fosse disinserita – non voleva sorprese, non intendeva affrontare tutto il viaggio che separava la realtà dalla morte due volte di fila, una sola era più che sufficiente.
Rovistò nel taschino anteriore del cappotto, spulciando ogni singolo pilucco di stoffa, e ne estrasse una sigaretta malamente conciata assieme ad un fiammifero dalla capocchia ancora intatta. Strofinò quest’ultimo sullo scabroso cemento di uno dei pilastri che sorreggevano la struttura di copertura del ponte e la testa color cremisi, dopo aver emanato un paio di scintille incerte, sprigionò una fiammella tremula e sussultante che gli bagnò il viso con i propri guizzi di luce giallastra. La accostò alla sigaretta e attese che si accendesse, tirando la prima, inebriante boccata, infine lasciò cadere il fiammifero ancora ardente oltre l’orlo del ponte e lo osservò precipitare finché non scomparve nei flutti del fiume sottostante.
Fumò la sua ultima sigaretta nel silenzio più assoluto, la brace che ammiccava come un minuscolo occhio incandescente da film dell’orrore nel buio della notte. Erano otto anni che non fumava una sigaretta – da quando si era sposato con Valentina e le aveva promesso di smettere. Il forte aroma di tabacco gli impregnò la gola, che immediatamente lo riconobbe come un amico di vecchia data e gli consentì di scendere tranquillamente verso i polmoni senza fare tante storie. Stefano meditò sul fatto che anche in quel momento, sebbene fosse ormai giunta la fine, l’atto del portarsi una sigaretta alla bocca gli dava quasi una parvenza di normalità, come se non fossero gli ultimi istanti che avrebbe trascorso immerso in quella patetica sorsata d’acqua salata che prendeva posto nell’immenso oceano dell’universo.
Quand’ebbe lasciato trapelare l’ultima spirale di fumo dalle labbra secche e screpolate scagliò lontano da sé il mozzicone, permettendogli di graffiare con un’artigliata di luce evanescente l’omogenea oscurità del precipizio, e di colpo si sentì maledettamente vuoto, come se il penoso desiderio di farsi un’ultima sigaretta avesse in qualche modo cancellato la solennità del rito che stava per compiere.
Si preparò come poteva, andando con la mente a rasentare i contorni sfumati dei ricordi che conservava più gelosamente, custoditi negli spazi maggiormente sicuri del suo cervello. In ognuno di essi era presente Valentina, realizzò, e questo non poteva che fargli ancora più male. Doveva farla finita alla svelta, o quell’inenarrabile senso di agonia avrebbe strascicato i piedi verso i mari della follia e vi si sarebbe tuffato, portandolo con sé dentro l’oblio.
Che altro dire? Non aveva più nulla da aggiungere. Era finita, semplicemente, banalmente, così come un giorno di tanti anni prima era cominciata. Era giunto al capolinea. Di lì, proseguire oltre sarebbe stato del tutto inutile. Meglio lasciare alle persone che amava la possibilità di redimersi dagli sbagli che lui aveva commesso.
Sollevò la pistola e si appoggiò la fredda bocca da fuoco alla tempia destra, adagiando la punta tremante dell’indice sulla superficie un po’ ruvida del grilletto. Ti amo Valentina, sussurrò la sua mente un istante prima del buio eterno. E amo anche te, bambino mio.
Deglutì a vuoto, quindi pian piano, implacabilmente, fece pressione con il polpastrello sul grilletto e lo premette fino in fondo.

Valentina si svegliò di soprassalto, spalancando gli occhi e rendendosi conto che qualcosa non andava. Un lieve velo di sudore le si era posato sul viso e la vista era leggermente annebbiata a causa dell’incubo che aveva appena vissuto – ma aveva davvero sognato, oppure si trattava di una sensazione, più che di un vero e proprio incubo?
Si raggomitolò su se stessa, abbracciando completamente il pancione nel quale stava crescendo il frutto dell’amore suo e di Stefano. Quella sensazione che aveva avuto pochi istanti prima non era sfumata come solitamente facevano i sogni, lasciandole in bocca un gusto che sapeva di rancidi e irrecuperabili pensieri scomparsi, perciò non poteva essersi trattato di un vero sogno. La stava tuttora sperimentando, energica e ossessivamente presente, e dentro di sé cercava di capire che cosa significasse e quale oscuro segreto stesse tentando di rivelarle.
Si volse adagio, spostando fiaccamente la testa sul cuscino, e una disorientata espressione aggrottata le dipinse il volto di sorpresa. Il lato del letto di Stefano era completamente, irrefutabilmente vuoto, le coperte allontanate verso di lei e il calore del suo corpo ormai dissolto, segno che se ne doveva essere andato da parecchio tempo, ormai.
Si guardò attorno curiosamente perplessa, singolarmente smarrita, stranamente inconsapevole di cosa stesse succedendo. Il suo sguardo stranito provò ad orientarsi gettando per la stanza fugaci occhiate alla ricerca di qualche punto di riferimento in grado di spiegarle l’assenza di suo marito, ma quando ebbe finito di dipanare l’oscurità si rese conto che lì dentro non c’era niente in grado di dirle dove fosse andato Stefano – il suo Stefano che quando si era addormentata la cingeva con le proprie tiepide braccia, infondendole un ineffabile senso di sicurezza.
Cercò di alzarsi, ma le forze l’avevano abbandonata. Dov’era suo marito? Non lo aveva sentito andare via, ma aveva registrato senza accorgersene la scomparsa del suo calore e ora valutò che non era più accanto a lei da almeno un paio d’ore. Che fine avesse fatto non poteva saperlo, tuttavia quella densa, dilatata sensazione che l’aveva riscossa dal suo sonno profondo sembrava suggerirle che era successo qualcosa.
Ascoltò per qualche minuto il battito del proprio cuore mescolarsi con i palpiti soffusi di quello del suo bambino, fasciata nel gioco del chiaroscuro che alcuni raggi lunari riuscivano a creare trafiggendo le tende attorno alle finestre e penetrando nella camera da letto con gentilezza. Possibile che fosse successo qualcosa di brutto al suo Stefano?
Per un barlume di secondo intravide sovrapporsi all’oscurità della stanza il riverbero dell’immagine di un ponte debolmente illuminato da una fila di lampioni dalla luce soffocata, ma subito la visione sparì, evaporando speditamente nell’aria.
Che cosa significava quel ponte? Era forse lì che Stefano si trovava in quel momento? Una valanga di interrogativi insoluti e insolubili la investì, nel tentativo di sradicarla dalle certezze che avevano contrassegnato la sua esistenza fin da quando era venuta al mondo. Che cosa le stava capitando? Non si era mai sentita così, eppure captava una specie di segnale silenzioso, un soffuso fruscio, che le risuonava nelle orecchie e le suggeriva di pazientare ancora un po’ per capire che cosa fosse esattamente accaduto.
Uno spontaneo timore si insediò nella sua mente e nel suo cuore, tramutando ogni suo pensiero in un ricettacolo di ansie e preoccupazioni. Che cos’era quella sensazione che la opprimeva, bisbigliandole incessantemente all’orecchio che qualcosa non andava?
Dove sei, Stefano? Ho tanto bisogno di te…

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