giovedì 1 settembre 2011

Sull'Orlo dell'Ignoto - Parte III

Uscì dal bar ancora più scoraggiato di quando aveva messo piede fuori dalla banca. Aveva spulciato tutte le pagine degli annunci di lavoro, sfogliando spasmodicamente un giornale dopo l’altro, ma non aveva trovato nulla che potesse fare al caso suo – di quei tempi esigevano una montagna di requisiti, e lui non era mai stato un tipo al quale piacesse studiare. Tutte le inserzioni puntavano su gente giovanissima, diplomata e con esperienza, e lui ormai non possedeva più nessuna di queste tre qualità, purtroppo.
Aveva fatto un rapido giro di telefonate, così, per sentire se qualcuno dei suoi conoscenti avesse per caso un posto di lavoro da offrirgli o avesse udito o letto da qualche parte delle offerte interessanti. Aveva scrupolosamente evitato tutti quegli amici e quei parenti che avrebbero potuto informare Valentina del fatto che suo marito adesso era disoccupato, ma non era riuscito ad ottenere granché. Un suo cugino aveva parlato con un tizio che gestiva una ditta di trasporti, e lo stipendio era più o meno quello che Stefano prendeva all’ufficio della sua vecchia azienda, solo che non aveva la patente per guidare i camion e non poteva sperare di conseguirla in quattro e quattr’otto entro la fine del mese.
Sospirò, affranto, l’espressione abbacchiata – specchio della disperazione, altro che storie, si redarguì senza eccessiva severità; d’altronde che altro aspetto poteva avere un uomo che dall’alba al tramonto aveva perso il suo posto di lavoro a causa di un esubero di personale, in un periodo in cui vi era una forte crisi e lui doveva pur scovare da qualche parte i soldi per pagarsi il mutuo?
Scosse la testa in segno di diniego. Che cosa gli rimaneva da fare, ancora? Alla banca non aveva scoperto nulla di rassicurante. Anzi. L’amara novità era che lo stipendio del mese scorso non era ancora stato versato sul suo conto – aveva accumulato ormai un ritardo di due settimane, e Stefano temeva che non avrebbe mai visto quei soldi. Non poteva rivolgersi ad alcun avvocato, perché non aveva denaro sufficiente nemmeno a pagare un’unica consulenza telefonica, né tantomeno gli conveniva andare ai sindacati, perché comunque ci sarebbe voluto troppo tempo e la prossima rata del mutuo, altra piccola sorpresa che gli era stata svelata dalla banca appena mezz’ora prima, la doveva pagare l’indomani. Nel suo conto non rimaneva neppure un decimo di quello che gli occorreva per saldarla, e questo era un dato di fatto dall’apparenza grottesca e agghiacciante.
Fece ritorno verso casa a piedi, perché aveva lasciato la macchina parcheggiata sul vialetto d’accesso del garage, preferendo fare quattro passi – il serbatoio era quasi in riserva, e la benzina costava. I marciapiedi erano vuoti e silenziosi – probabilmente erano tutti al lavoro, rifletté crudelmente Stefano – e il mormorio infagottato di qualche automobile passava adagio accanto a lui, senza attirare eccessivamente l’attenzione.
Scrutò il cielo. Il sole era scomparso, quel pomeriggio: era andato a celarsi dietro un banco fitto e corposo di nuvoloni grigi. A Stefano piaceva l’intimo fruscio della pioggia, il ticchettio che le gocce d’acqua producevano picchiettando contro i vetri delle finestre, simile in tutto e per tutto al laborioso rumore di mille dita che battevano su altrettante macchine da scrivere. Quella giornata, però, non era l’ideale per sopportare l’atmosfera tesa e abbattuta che gli acquazzoni originavano sempre quando imperversavano per le strade della città. Si sentiva già abbastanza a terra per conto suo, senza che la pioggia venisse a sommare il proprio rarefatto clima di depressione.
Valentina era a casa, e credeva si fosse recato al lavoro per sistemare un po’ di scartoffie e ritornare il prima possibile. Aveva dovuto mentirle, perché ancora non se la sentiva di parlarle. Ma adesso, non gli rimaneva più altra scelta.
Per un attimo pensò a Roberto, suo suocero, e gli venne in mente che avrebbe potuto domandargli aiuto. Sarebbe stato bello poter chiamare lui. Gestiva un’impresa del valore di qualche milione, navigando letteralmente nell’oro. Gli avrebbe chiesto un prestito, oppure un posticino di lavoro, se avesse potuto, ma il loro rapporto non era mai stato rose e fiori. Scartò immediatamente questo inattuabile proposito. Roberto lo detestava da quando lo aveva conosciuto e aveva sempre cercato di ostacolare con ogni mezzo il matrimonio con sua figlia Valentina. Non ci era riuscito, per fortuna, e da allora non si erano più incontrati. Valentina gli telefonava tutte le settimane, Stefano lo sapeva benissimo e tutto sommato gli andava bene che sua moglie si sentisse con il padre. Ma suo suocero non avrebbe mai accettato di dargli una mano, nemmeno se si fosse trattato di una sola rata del mutuo – una cifra irrisoria, per Roberto, ma che per Stefano quel mese stava assumendo le sembianze di un terrificante mostro amorfo dalle fauci spalancate, pronto ad azzannarlo non appena si fosse trovato a portata di mano.
L’idea di fare un colpo di telefono a Roberto per cercare di risolvere la questione sfumò rapidamente dai suoi pensieri, senza tralasciare alcun barbaglio di speranza. Suo suocero gli avrebbe riso dietro attraverso la linea telefonica, proponendogli di mandare a casa sua Valentina affinché si occupasse almeno di lei, ma sottolineando che lui si sarebbe dovuto arrangiare con i propri mezzi. E Valentina, ovviamente, non avrebbe mai acconsentito a ritornare a casa di suo padre e lasciarlo solo, neanche se si fosse trattato di una banale soluzione temporanea.
No, ogni aiuto in quel senso era da porre totalmente al di fuori dell’equazione. Che cosa gli restava da fare, allora? Doveva ragionare in fretta, con lucidità, per individuare la maniera di racimolare il denaro sufficiente a pagare almeno la prossima rata del mutuo. Poteva rivendere la macchina, intanto. Non ne avrebbe ricavato molto, ma se non altro sarebbe stato tranquillo per i prossimi mesi. Il problema era che l’auto aveva già parecchi chilometri, e sarebbe stata dura trovare un acquirente interessato in così poco tempo. Certo, poteva procedere in quella direzione, ma doveva anche individuare alla svelta un’ulteriore alternativa. Il tempo scorreva sempre più inesorabile attorno a lui, snocciolando le ore una dopo l’altra. Doveva farcela, per il bene di Valentina e del bambino che avrebbero avuto di lì ad un paio di mesi.
Forse, giunti a questo punto, l’unica strada che gli rimaneva da percorrere era quella del furto. Ma sarebbe davvero stato disposto a rubare per riuscire a salvare ciò che da un momento all’altro aveva fatalmente cominciato a crollargli addosso? Non aveva esperienza e non conosceva nessuno che potesse dargli una dritta al riguardo. Sarebbe stato come brancolare nel buio alla ricerca di un granello di sale in mezzo ad una spiaggia di sabbia bianca.
Passò davanti al cancello di casa e si fermò ad osservare la finestra della sua camera da letto. Riuscì ad intravedere il profilo bello e slanciato di Valentina – il pancione si vedeva anche da così distante, e le conferiva un aspetto ancora più incantevole e avvenente. Non poteva farle una cosa del genere. Doveva pensare a lei e al bambino prima di tutto, si convinse.
Fissò ancora per qualche interminabile istante la silhouette della sua dolce metà, quindi finalmente distolse lo sguardo e si fece coraggio. Imboccò il vialetto d’ingresso, accompagnato dalle sue simmetriche siepi parallele, e in preda allo sconforto e all’agitazione rientrò in casa, taciturno e pensieroso, riflettendo sull’unica soluzione che ancora aleggiasse per la sua mente – l’ultima possibile, quella che necessitava di una capacità di scelta più fredda e ponderata.
Quella notte stessa avrebbe potuto mettere in atto il suo piano per far sì che sua moglie e suo figlio non dovessero patire la terrificante sorte alla quale lui, con il licenziamento di quella mattina, li aveva ineluttabilmente legati.

Non aveva più un soldo. Fu questa la tremenda, asfissiante riflessione che lo destò di colpo nel bel mezzo della notte. Non aveva più niente e ventiquattro ore più tardi la banca avrebbe tentato invano di prelevare il denaro della rata del mutuo dal suo conto, scoprendo che non gli rimaneva nulla, se non qualche spicciolo.
Era incredibile, certe volte, come tutto potesse succedere in fretta. Un attimo prima di venire convocato negli uffici della direzione era perfettamente tranquillo, aveva finito in anticipo di firmare le scartoffie della mattinata e stava pensando a quanto era bella quella giornata di sole e a come avrebbe potuto spenderla in compagnia di sua moglie e del loro bambino in arrivo. Un attimo dopo, invece, salendo sull’ascensore dopo il breve colloquio con il direttore, sperando con tutto il cuore che quell’orribile marchingegno infernale si bloccasse nel bel mezzo del nulla e improvvisamente precipitasse nel vuoto, levandogli di dosso quell’amara sensazione di rimpianto, non aveva più niente. Un vuoto d’aria e il suo impavido aquilone, che fino a quel momento aveva solcato briosamente l’aria in lungo e in largo, era tutto d’un tratto precipitato, andando a piantare il muso nel fango in un punto dal quale nessuno lo avrebbe mai più potuto recuperare.
Nella vita bastava svoltare a destra anziché proseguire diritti per svelare dinanzi a sé un mondo sconosciuto, ma certe volte era meglio mantenersi sulla propria strada e proseguire a testa bassa, senza lasciarsi sopraffare dal fascino che l’ignoto esercitava sull’animo umano. Stefano sapeva di non essere stato licenziato a causa di un esubero di personale, e forse era questo a farlo stare così male. La colpa era esclusivamente sua. E ormai, purtroppo, non poteva farci più niente.
Sospirò piano, per non svegliare Valentina, e contemplò per un momento il suo profilo dolce accanto a sé, la sua sagoma avvolta dalle coperte, la linea del suo corpo che conosceva così bene e amava così tanto. Non era giusto che fosse lei a soffrire a causa sua, né che il prezzo dei suoi errori dovesse pagarlo il loro bambino. Ascoltò il suo respiro soffuso, tenue come il leggero sciabordio di una fonte lontana – vide il vetro fuso dell’acqua scaturire da una sorgente rocciosa e tuffarsi a capofitto in uno specchio cristallino. Quanto l’amava…
Aveva sbagliato, se ne rendeva conto. Se soltanto fosse stato più attento, se avesse mantenuto la strada diritta che stava percorrendo invece di svoltare verso una via sconosciuta… Ma ormai il danno era fatto, ed era inutile lasciarsi scivolare nell’autocommiserazione e soffocarci dentro. Lo aveva saputo fin dall’inizio, che comportandosi in quel modo non avrebbe semplicemente sfiorato il rischio di essere licenziato, ma ci si sarebbe addirittura gettato contro a capofitto. Aveva preferito l’ignoto, e adesso era tempo per lui di scontare la giusta pena.
Rimase ancora per qualche istante in ascolto del respiro fievole e ritmato della sua amata Valentina, udendo al contempo i battiti del proprio cuore che rimbombavano nella testa e in tutta la stanza, come gli echeggianti rintocchi di un immenso campanile, e scandivano i secondi che ticchettavano tra gli ingranaggi dell’orologio appeso alla parete.
Scostò le coperte con delicatezza, affabilmente, e si staccò dalla piacevole percezione del calore del corpo di sua moglie, facendo attenzione a non compiere movimenti bruschi per non svegliarla. Un immediato, atavico senso di nostalgia lo travolse come un pugno in pieno stomaco, facendogli balenare nella mente per un istante l’irrazionalità di ciò che stava per fare. Ma nulla aveva più senso ormai, si giustificò tra sé e sé, e questa attenuante gli parve inoppugnabile.
Si alzò adagio, senza fare rumore, e si protese un istante per avvicinare il proprio viso a quello limpido e profondamente rilassato di Valentina. Inalò il suo profumo, archiviandolo nella propria banca dati mentale affinché vi rimanesse per tutto il tempo che gli restava ancora da vivere. Percorse con lo sguardo ogni tratto del suo volto, ogni più piccola sfumatura del suo tenero aspetto, quindi le posò un bacio sulla guancia, piano, e uno sulle labbra, carezzandole appena con le proprie, giusto il tempo necessario a memorizzare il loro sapore.
Risollevò il capo dalle coperte e si avviò a passi leggeri verso la porta della camera da letto, il suono attutito dei suoi piedi sul gelido pavimento in parquet che si propagava ovattato contro le pareti spesse, quando di colpo si bloccò ad un passo dalla soglia e ritornò indietro. Quasi stava per dimenticarsi la cosa più importante.
Si sporse nuovamente al di sopra del proprio lato del letto, lento e silenzioso come un fantasma, e dolcemente posò la fronte sul pancione di Valentina, chiudendo gli occhi e restando immobile per qualche secondo. Mi dispiace piccolo mio, pensò, sperando con tutto il cuore che il suo bambino potesse sentirlo. Il tuo papà non è stato abbastanza forte da riuscire a provvedere a te e alla tua mamma, ma ora ha trovato un modo per far sì che voi due possiate vivere serenamente senza dovervi preoccupare di nulla. Ti voglio bene, amore mio.
Baciò il pancione di Valentina, attraverso le coperte, sentendo chiaramente anche da lì il palpito del cuore del suo bimbo. Una lacrima gli rigò una guancia, calando più silenziosamente di quanto lui se ne stava andando. Abbandonò la stanza senza voltarsi, affidando sua moglie e il loro figlio al tepore del letto, e uscendo non poté evitarsi di cominciare a singhiozzare al triste pensiero che non li avrebbe rivisti mai più.
Oltrepassò la soglia della porta di casa e se la richiuse alle spalle, inspirando profondamente l’aria ghiacciata della notte per risvegliarsi i polmoni e rischiararsi la mente ottenebrata dal dolore. Fuori era buio, lo stesso buio intimo e profondo che proveniva direttamente dal suo cuore spaccato, e faceva così freddo che neppure il vecchio cappotto appena indossato riusciva ad impedire al gelo inalienabile di trapanargli le ossa.
Scrutò accigliato l’orizzonte. Era una notte cruda. Il vento gloglottava vivacemente percorrendo i labirintici e desolati cunicoli delle grondaie, gridando con la sua voce antica e recondita annose parole che l’uomo aveva dimenticato da tempo nell’interminabile scorrere delle sue generazioni. Le stelle erano germogliate lungo l’intera estensione della volta celeste già da un bel pezzo, mentre intanto la luna era sbocciata appena al di sopra della linea del tramonto, lontana e pallida, del tutto identica ad un bucaneve fiorito tra le ceneri.
Si incamminò silenziosamente attraverso il vialetto di casa e quando ebbe raggiunto la macchina aprì la portiera, salì e mise in moto. La strada che conduceva alla sua meta era veloce e scorrevole. Niente deviazioni, si ripromise. Inutile ritardare l’inevitabile confronto diretto con se stesso che aveva deciso di affrontare. Non svolterò più, bisbigliò la sua mente sotto quell’eclettica arcata di astri.
Premette debolmente sull’acceleratore, rendendosi conto di essersi già lasciato indietro la sua casa e il suo quartiere. I fari dell’auto, come gli oblò posizionati sulla fiancata di una nave che veleggiava tranquilla tra le fiamme dell’inferno, frugavano freneticamente l’oscurità davanti a sé con il proprio energico fascio di luce. Avrebbe corso a bordo della sua macchina per tutta la notte e anche oltre, se avesse potuto farlo. Ma ciò che in realtà doveva fare andava fatto al più presto, perché i minuti si accorciavano sempre più, e la minuscola clessidra che le scheletriche mani del Tempo reggevano saldamente tra le dita eterne aveva quasi cessato, per lui, di far precipitare i suoi ruvidi granelli di sabbia in un baratro senza fine.
Gli sembrava di nuotare faticosamente nel fumo di quel futuro che lui stesso aveva bruciato. Presto quella ripugnante sensazione sarebbe scomparsa, si disse per persuadersi a resistere ancora un po’, e con essa se ne sarebbero andati tutti i mali e tutti i dolori. Era soltanto questione di qualche altro granello di sabbia, tutto qui.
Riattraversò con la mente quella giornata in cui per la prima volta, nella sua grigia vita anonima, aveva sterzato bruscamente per introdursi in una strada diversa da quella che percorreva da sempre. La mattinata era iniziata come di consueto e si era svolta normalmente, senza alcun intoppo. Aveva firmato le sue carte ed era uscito per la pausa pranzo, ed era stato lì che tutto era improvvisamente mutato, trasformando un giorno qualunque in un’inaspettata emozione che gli aveva lacerato l’anima aprendogli gli occhi su quello che aveva fatto da quando era venuto al mondo fino ad allora – o meglio, per essere più precisi, su quello che non aveva fatto.
Era sua abitudine, da quando aveva cominciato a lavorare nella nuova azienda, recarsi al bar tutti i giorni prima di rientrare a casa per il pranzo e, seduto fuori sotto un piccolo padiglione, sia con la pioggia che con il sole, bersi un caffè liscio scorrendo le pagine dei necrologi. Contemplava le foto, taciturno, e leggeva i nomi ad uno ad uno, pensando dentro di sé che ognuna di quelle persone aveva vissuto un’esistenza diversa, chi più breve e chi più corta, chi più interessante e chi meno, e che adesso non erano altro che polvere – la malinconica, irrimediabile fatalità che attendeva tutti quanti, presto o tardi. Ma quel giorno in particolare, quando aveva aperto il giornale sugli ultimi fogli era stato accolto da un amaro gusto di stupore che gli aveva rovinato la gradevolezza del caffè. Gli era bastata una sola occhiata per riconoscere il suo vecchio compagno del liceo – il suo migliore amico, all’epoca, quello con il quale si vedeva tutti i giorni dopo la scuola.
Aveva richiuso il giornale e se ne era andato, lasciando a metà la tazzina con il suo espresso, facendo ritorno a casa e consumando il suo pranzo in religioso silenzio, gli occhi inchiodati al piatto sul quale le sue posate stridevano a bassa voce.
Era stato terribile, perché una cosa del genere non gli era mai capitata prima. Si era reso conto per la prima volta di essere mortale, debole e tremendamente fragile, e che prima o poi la fine sarebbe giunta anche per lui, così come veniva sempre per tutti quanti. Non aveva mai preso in considerazione prima di allora questa obbligatoria verità, e ora, di punto in bianco, gli era stata schiaffata in piena faccia senza nemmeno l’accortezza di avvisarlo delle violente sensazioni che si sarebbero avvicendate dentro di lui in seguito ad una simile scoperta.
Aveva deciso di aver bisogno di fare qualcosa di diverso, quel giorno, che rendesse immortali almeno una manciata di momenti della sua piatta esistenza. Provava l’intensa, assoluta necessità di cambiare una volta soltanto, così quando aveva fatto ritorno al suo ufficio, dopo la pausa pranzo, l’eco di quel desiderio inespresso gli ronzava ancora nella scatola cranica, anelando a trovare un’agognata via di scampo.
Stefano non sapeva se fosse stato il caso a decidere per lui che quella giornata doveva effettivamente rivelarsi particolare. Forse il fato aveva predisposto tutto quanto fin dal principio per far sì che avvenisse ciò che era accaduto. Lui non aveva mai creduto veramente in tutte quelle intangibili concezioni che parlavano di “libero arbitrio”: l’essenza stessa di Dio, la sua natura e la sua dichiarata onnipotenza rendevano meramente utopistica quell’idea illusoria che l’uomo si era costruito per dimostrare di poter scegliere il proprio destino indipendentemente da una qualsiasi altra volontà.
Malgrado tutte queste congetture, fatto stava che quel pomeriggio Maria, la segretaria del dodicesimo piano, gli aveva portato in ufficio un nuovo pacco di scartoffie da compilare e Stefano si era ritrovato ad osservare distrattamente il cielo al di là della finestra incrostata di polvere e a pensare a quanto sarebbe stato bello poter uscire e andare a farsi un giro in macchina tra le montagne, soltanto lui, lasciando perdere il lavoro e fregandosene di quelle concessioni edilizie che doveva riempire, sulle quali era stata impressa a caratteri cubitali la scritta “URGENTE”.
Aveva preso il cappotto, aveva timbrato il cartellino e se ne era andato, chiudendo a chiave la porta dell’ufficio. Aveva trascorso il resto del pomeriggio in giro per le montagne con la sua auto, come da copione, e quando era rientrato a casa per la cena aveva mentito per la prima volta a sua moglie dicendole che aveva ritardato perché al lavoro quel giorno aveva avuto un sacco da fare.
Non si era mai sentito così vivo come durante quel pomeriggio, ricordò adesso Stefano con un pizzico di amarezza. Ma se avesse potuto ritornare indietro non lo avrebbe rifatto. Non aveva ragionato sulle conseguenze, quella volta, e così si era ritrovato ad essere licenziato e a dover patire quell’indescrivibile sofferenza che ora lo seviziava. Arrovellarsi a fuoco lento nel proprio dolore non era mai una buona cosa, ma d’altro canto il pensiero di sua moglie incinta che dormiva da sola nel proprio letto, inconsapevole del fatto che non avrebbe mai più rivisto suo marito, lo stava brutalmente torturando, dimostrandosi insostenibile.
Adesso la realtà era quella lì che stava vivendo, era quella fredda luna esangue ed era quella tenebrosa notte cruda, era quella sensazione di inderogabile dovere e quella vaga reminiscenza di felicità ormai perduta, era quel segreto rammarico e quell’inconfessabile desiderio di poter sperare ancora, dentro di sé, che Valentina e il loro bambino potessero avere un futuro migliore di quello al quale la sua futile deviazione dalla diritta via li aveva condannati.

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