martedì 6 settembre 2011

Gusci vuoti

Questa è la storia di un uomo come tanti altri.
Quando lo si vede passare per strada lo si dimentica incredibilmente presto, lasciando che la sua figura ammantata scompaia rapidamente nei recessi più profondi della memoria. Si tratta di un uomo estremamente ordinario, dal viso anonimo e dalla voce incolore. Proprio un uomo come tanti altri. Ma che ha qualcosa in più. Qualcosa di speciale. Qualcosa che lo fa passare inosservato, qualcosa che induce la gente a non notarlo quando attraversa frettolosamente un marciapiede.
Il suo nome può essere sussurrato soltanto dal vento. Perché solo il vento conosce il suo nome. Si nasconde dietro gli occhi di un qualsiasi passante, nella mente di persone che non sospettano minimamente della sua esistenza, e tuttavia risentono dell’influenza che è capace di esercitare in loro. Viaggia per tutte le strade del mondo, in lungo e in largo, da nord a sud, da est ad ovest, e le sue scarpe logore e incrostate di fango emettono un calpestio che riecheggia nel vuoto degli animi all’unisono con i singhiozzi provocati dalla disperazione in chi crede di essere giunto al capolinea e di aver perduto tutto ciò per cui valga la pena lottare.
Da sempre noi tentiamo di fugarlo, di cacciarlo dalla nostra vita, di ignorarlo quando passa e di far finta che non ci sia. In particolar modo, chi lo teme si lascia trasportare dagli orrori dell’alcol, delle droghe e degli altri vizi più autodistruttivi pur di riuscire a non prestargli attenzione. Tuttavia lui c’è. C’è sempre, anche quando non lo vediamo. Perché è bravo a celarsi dietro i volti di chi apparentemente dimostra di stare bene, e invece dentro soffre i dolori di un morbo ineffabile scatenato da quest’uomo che ha attraversato i secoli e le regioni senza mai fermarsi, consumando le suole delle proprie scarpe e gettando nel panico l’umanità, obbligandola a tuffarsi a capofitto nelle peggiori dissolutezze affinché in esse non possa più udire la sua voce incolore, tenue e flebile come un alito di vento, un bisbiglio che sospira anatemi impronunciabili.
Quest’uomo è molto vecchio e, anche se sembra che il nostro mondo abbia cominciato a conoscerlo soltanto da poco, vive qui, in mezzo a noi, da molto prima che cominciassimo a parlare e a costruire le nostre città. Alcuni, nel corso del tempo che scivola via inesorabile nella sua opera di desertificazione, hanno provato a dargli un soprannome, un qualche appellativo che tenti, per quanto possibile, di identificarlo e di rendere comprensibili le sue intenzioni. Lo hanno chiamato “Apatia”, in mancanza di un nome che fosse davvero in grado di rendere l’idea del suo smisurato potere distruttivo, e sembra che possa inaridire le anime e i pensieri delle persone fino a trasformarli in gusci vuoti imbottiti di sostanze stupefacenti che si agitano ai ritmi frenetici e convulsi di una musica che è soltanto una monocorde ripetizione di colpi – colpi che richiamano alla mente i palpiti di un cuore malato, un cuore che sta scandendo i suoi ultimi rintocchi.
Chissà se quest’uomo continuerà a camminare inosservato per le strade del mondo come ha sempre fatto finora o se qualcuno si accorgerà di lui e spiegherà all’umanità cosa fare per estirpare dalle proprie carni le nere radici di sofferenza che lui vi ha piantato. Per adesso, “Apatia” continua a mietere sempre più vittime in una strage senza sosta e senza senso che sembra volerci condurre verso un abisso in cui il vento fischia ininterrottamente la parola “fine”.

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