mercoledì 21 settembre 2011

Incubi andati a male

Mi alzo e vado ad affacciarmi alla finestra della mia camera, senza fretta, per guardare l’alba. Scorgo le montagne che si stagliano sull’orizzonte diafano, intravedo qualche batuffolo di nuvola nel cielo terso della mattina, aspiro l’aria fresca della notte che se ne va via con calma, a ovest il lembo del lungo strascico del suo elegante vestito intessuto di tenebre.
Osservo le montagne e penso a quanto mi piacerebbe poter andare ad abitare lassù. Vivo in un mondo in cui non posso fare a meno di omologarmi: la scuola, la macchina, il lavoro, la casa, la famiglia. Non che non voglia tutto questo, anzi. Solo che avverto crescere dentro di me il timore che ogni mia scelta possa in qualche modo ricadermi addosso. Non sono sicuro di poter sopportare il peso di un simile crollo. Tutti sembrano felici. Anch’io sono felice. Però sento che a poco a poco questa esistenza conformata comincia a farsi stretta.
Qual è la mia strada? Me lo sono chiesto tante volte. E i profili ombrosi delle montagne che scruto dalla mia finestra fanno riemergere questo quesito. Non voglio essere costretto ad adeguarmi, ecco tutto. Eppure sono ancorato a questa realtà, come una nave incagliata a bordo piscina.
Percepisco chiaramente la sensazione di essere eternamente legato, per non dire incatenato, alle decisioni che ho preso in passato. Anzi, per essere più preciso provo un ineffabile terrore nei confronti di questo vincolo inscindibile. Rifletto attentamente sui bivi che ancora incontrerò in futuro. Basta un briciolo di indecisione per andare a schiantarsi contro lo spartitraffico.
Le montagne. Vorrei andare ad abitare lassù, a cogliere ogni singola sfumatura della vita, a carpire ciascuna grinza del paesaggio.
L’omologazione è inevitabile. Tutti quanti, prima o poi, siamo condotti nella sua direzione. E, se osiamo opporre resistenza, vi veniamo brutalmente trascinati contro. Appare tremendamente ineluttabile, la fatale sorte scelta per noi da quell’entità suprema e incomprensibile convenzionalmente chiamata Dio, da altri conosciuta con il nome di Fato o Destino.
Tutto ciò che desideravo fare, tutto quello che avrei voluto cambiare… Me ne accorgo soltanto ora. Ora che è troppo tardi. E mi rendo conto che più il tempo passa, più questi sogni appassiscono e diventano vecchi e rancidi e assumono a poco a poco le amorfe sembianze di incubi andati a male. Sogni sempre più lontani, come pezzetti di carta bruciacchiata che svolazzano sopra le fiamme di un focolare.
Vedo tutto questo dalla mia finestra. E prego perché la mia vita non si debba per forza adattare alle esigenze di quell’omologazione che attanaglia nella propria morsa tutte le esistenze.
Ma so che la mia è una speranza vana.

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