lunedì 28 settembre 2015

Le Anime di Eglon - Prima Stagione - Episodio 32

Una colonna di furgoncini blindati neri passò per Neighbour Street a tutta velocità, oltrepassando Stan Payton, che aspettava di attraversare la strada, e procedendo senza indugio verso Main Street.
La città stava per sprofondare un’altra volta nell’oscurità. L’energia elettrica era stata ripristinata soltanto nei punti chiave di Eglon, grazie ad alcuni generatori arrivati con il treno della settimana precedente. Così, l’ospedale e il supermercato dei Goldbert erano illuminati ventiquattro ore su ventiquattro, mentre le strade, subito dopo il tramonto, affondavano nelle tenebre più terrificanti che i cittadini di Eglon avessero mai avuto modo di sperimentare.
La giornata era stata incredibilmente densa di vicende importanti. Dopo l’assalto al ponte da parte dell’Esercito degli Stati Uniti, con il conseguente fallimento dell’attacco e la ritirata dei militari sotto i colpi dei mortai, era venuta l’ora delle esecuzioni.
Dei circa cinquanta soldati rimasti intrappolati in città, sedici avevano gettato le armi e giurato fedeltà ai ribelli, gli altri si erano fatti ammazzare e gettare nel fiume Arkansas. I sopravvissuti erano stati scortati nei pressi di un incrocio lungo Main Street, dove le sette unità speciali del Commando Alfa stavano per subire la pena di morte. Ma il comandante di questi ultimi aveva barattato con un’informazione la salvezza dei compagni, e alla fine era stato l’unico a venire giustiziato. Un ribelle aveva afferrato le estremità della corda che gli chiudeva il cappuccio sulla testa e aveva tirato, strangolando il militare. Poi Maschera Blu aveva dichiarato che i sei soldati scelti sarebbero stati rinchiusi in altrettante celle di massima sicurezza, e che anche i sedici soldati dell’esercito regolare avrebbero fatto la stessa fine: non ci si poteva fidare alla cieca di persone che avevano rinnegato il proprio Paese con tanta leggerezza, aveva spiegato, perciò era meglio saperli dietro le sbarre.
Ripensando a tutte queste cose assieme, al rumore degli spari che avevano lacerato il silenzio dell’alba e ai volti dei soldati condannati a una prigionia senza prospettive, Stan si sentì rabbrividire.
Ma aveva una missione da compiere, adesso, e doveva essere lucido. Quindi avrebbe fatto meglio a levarsi dalla testa tutti questi pensieri e concentrarsi sull’obiettivo.
Mente sveglia, cuore pronto, occhi spalancati. Dopo quest’operazione devo ritornare da Sarah, Michael e Christine. Non posso permettermi di morire qui, stanotte. Devo tornare da loro.
La sua famiglia non sapeva cosa stesse facendo. Aveva detto a Robert che sarebbe uscito a prendere una boccata d’aria, e l’uomo non aveva battuto ciglio. Dal suo sguardo si capiva che aveva intuito le reali intenzioni di Stan, ma preferiva fingere di non sapere nulla. «Buona fortuna» aveva sussurrato, e poi era rientrato in cucina per aiutare Sarah a preparare la cena.
Stan attraversò la strada sulle strisce pedonali, riuscendo a malapena a distinguere i profili dei lampioni, delle panchine e dei cestini per le immondizie, nonché quelli degli edifici e dei cartelli stradali. Era difficile muoversi a Eglon di notte, ultimamente. Nonostante questo, da quando l’elettricità era scomparsa c’era più movimento. Spacciatori, venditori di merce di contrabbando, gente curiosa che gironzolava con le mani in tasca. Ribelli mascherati che se ne fregavano di queste persone e si limitavano a controllare che l’ordine generale fosse comunque rispettato.
«Sono qui. Andiamo» annunciò sottovoce ai tre uomini che lo aspettavano in fondo al marciapiede. Greg Donington, Brian Jones e Jeremy Barton confermarono con un muto cenno d’assenso. Sollevarono il braccio per avvisare il vicesceriffo Wieler e gli altri quattro poliziotti dell’inizio dell’operazione. Infine, con molta calma, si avviarono verso il palazzo buio nel quale Jeff Turner, poche sere prima, aveva visto entrare alcuni rivoluzionari con delle casse piene di batterie.

lunedì 21 settembre 2015

Le Anime di Eglon - Prima Stagione - Episodio 31

«E adesso, signore?» bisbigliò uno degli ufficiali alle sue spalle. Ma il comandante Smith non lo sentì. I suoi uomini erano agitati, si spostavano da un piede all’altro in attesa del suo segnale. Lui, però, non riusciva ad aprire bocca. Non riusciva più a parlare. Non sapeva che cosa dire, ma tutti quei soldati dipendevano da lui. Dalle parole che sarebbero uscite attraverso le sue labbra nei prossimi istanti.
Un grosso blocco di cemento e asfalto lacerato dall’esplosione si staccò dal mezzo metro di ponte rimasto prodigiosamente appiccicato alla riva orientale del fiume. Il frammento di pietra precipitò al rallentatore nella mente di Smith, compiendo nell’aria movimenti di pochi centimetri alla volta. Finché alla fine non scomparve, rigettando nell’aria, come unico segnale del proprio arrivo, il rumore del tonfo prodotto nel momento in cui raggiunse il pelo dell’acqua e vi si immerse.
«Fuoco!» aveva appena urlato un ribelle dall’altra parte del fiume, e la sua voce alterata da un megafono investì i soldati dell’Esercito degli Stati Uniti come un’ondata di piena.
Ma ancora non erano incominciati gli spari. Il nuvolone di fumo nero innalzatosi dall’esplosione del ponte era stato disperso, spazzato via dal vento. Le urla degli uomini precipitati nel fiume assieme ai resti del viadotto si erano spente in fretta. Adesso rimanevano il vuoto e il silenzio a fare da cornice a quello scenario spietato, alla fotografia scattata oltre quel tratto di barricata infranta. I militari americani, con le armi impugnate e i volti scolpiti nella carne dalle mani del terrore, si stringevano in un gruppo compatto e agitato, circondati da quella moltitudine di maschere variopinte che li tenevano sotto tiro. I carri armati, immobili come moderne statue totemiche di un’era macchiata di sangue, lasciavano presagire con la loro sola presenza quello che sarebbe successo di lì a poco.
«Signore, che cosa dobbiamo fare?» insistette l’ufficiale alle spalle del comandante Smith, la voce sempre più fievole e incrinata.
Il capo dei ribelli aveva già berciato il suo ordine, quel «Fuoco!» che aveva spinto i soldati intrappolati sul suolo della città di Eglon a richiudersi in un drappello più omogeneo. Ma erano poche decine di uomini isolati e spaventati, messi di fronte a una moltitudine di bestie senza volto e senza umanità che li avrebbero macellati alla stregua di sanguinolenti pezzi di carne disossata. Nessuno aveva ancora premuto il grilletto, ma era questione di qualche istante prima che l’esecuzione spruzzasse di sangue la corrente limpida del fiume Arkansas.
Esitavano, e Smith non riusciva a capire perché. I suoi uomini stavano immobili, le mitragliatrici spianate, pronti a morire per quella pace e quella libertà che speravano di portare alla città di Eglon, e che invece era stata affondata con le macerie del ponte distrutto.
Ma, soprattutto, non riusciva a capacitarsi di quello che era accaduto. Pareva che filasse tutto per il verso giusto. Il Commando Alfa era penetrato in città e aveva fatto saltare dall’interno un tratto della barricata. Il ponte era preso, il passaggio si presentava libero, e non rimaneva che trasferire le truppe da un versante all’altro e intraprendere le prime fasi di una lenta ma vittoriosa riconquista.
Che cosa era andato storto, maledizione?
«Signore, attendiamo ordini. Dobbiamo fare qualcosa… ritirarci, perlomeno» perseverò l’ufficiale dietro di lui, che ancora non aveva udito alcuna risposta da parte del superiore.
«Fuoco!», aveva urlato quel ribelle con il megafono. E i fucili non cantavano, le pistole non gridavano, gli uomini non morivano. Che cosa stava capitando?
Un fischio acuto e penetrante, sibilato da immense labbra screpolate, si impadronì dell’aria e del silenzio con un abile colpo di mano, incenerendo ogni incertezza e trasformando l’attesa e l’esitazione nella prospettiva di un bagno di morte.
Il cielo plumbeo, nuvoloso, che scaricava la sua pioggia debole e irritante sulla città di Eglon, fu solcato da un’infinità di profonde artigliate scure. E solo quando i mortai lanciarono il secondo attacco il comandante Smith si riprese e ordinò bruscamente la ritirata.

lunedì 14 settembre 2015

Le Anime di Eglon - Prima Stagione - Episodio 30

Le labbra dell’uomo si lasciano sfuggire uno sbuffo di fumo che va a mescolarsi rapido con l’aria che respirano, imbevendola di un odore acre e penetrante.
L’ultima sigaretta di un soldato prima di scendere al fronte. Quella sigaretta che a ogni buon soldato è giusto concedere, quando non sa se tornerà vivo per l’ora di cena. L’ultima sigaretta della quiete che precede la tempesta, fumata con la consapevolezza del fatto che potrebbe essere l’ultima in assoluto di un’intera esistenza.
Anche il vizio, tutto sommato, si prende il suo spazio quando la morte incombe. In fondo, si potrebbe quasi dire che ha il diritto di farlo. Si tratta di un rito puro e semplice, compiuto con il massimo della freddezza e del distacco per allontanare il più a lungo possibile il momento dello scontro. Quasi che il fumo che esce dalla sigaretta, annebbiando la vista, possa nascondere il campo di battaglia ancora pulito. Un campo di battaglia che, si sa, prima di sera diventerà una distesa di sangue e resti umani.
È quasi l’alba, e i soldati fumano la loro ultima sigaretta. Gli unici a non farlo in tutto il campo sono probabilmente Tom Davis e il comandante Smith. Non si sentono fuori posto per questo. Niente affatto. Non avvertono il peso della morte sulle proprie spalle, e non percepiscono il bisogno di dire addio alla vita con quel piccolo gesto d’umanità palpitante proprio di un corpo ancora caldo.
L’alba si avvicina, e la mattinata si prospetta nuvolosa. Quasi sicuramente pioverà. Ma sarà una pioggerellina leggera, sottile, che picchietterà debolmente sui tetti di Eglon e sugli elmetti dei soldati. I soldati in marcia, quella distesa di uomini che fumano la loro ultima sigaretta in attesa di imbracciare il fucile e correre a conquistare la prima linea.
La battaglia sarà sanguinosa. Finalmente, però, il morale degli uomini sembra essersi risollevato. D’altro canto, sono tutti soldati: sono lì per combattere, non per passare le giornate a fumare e giocare a carte in un accampamento poco lontano da casa. L’assedio è terminato. Le alte sfere hanno dato l’okay: adesso è possibile attaccare. Anzi, meglio ancora: adesso bisogna attaccare!
È il momento buono, non si può sprecare un’occasione così propizia. Aprire una breccia nelle barricate di Eglon e penetrare in città rappresenta la priorità assoluta della giornata. Poi il conflitto si sposterà nelle strade, lungo i quartieri, dentro i palazzi e le case. La parte più difficile sarà evitare di coinvolgere i civili, ma lo stesso Presidente ha ammesso che il costo di vite umane già pagato è fin troppo alto per sopportare ancora. È necessario agire, ora, anche con il rischio di sacrificarne pochi per il bene di molti.
Il discorso tenuto dal Segretario della Difesa pochi minuti prima, via radio, è stato ascoltato con trasporto dalle truppe. Le parole chiave sono state brevi e concise: proteggere i civili, eliminare i ribelli, riprendere la città. L’obiettivo è uno e uno soltanto, dall’inizio alla fine delle operazioni militari: liberare Eglon dalla presenza dei rivoluzionari, per assicurare pace e sicurezza rinnovate a una popolazione che ha dovuto subire fin troppe atrocità.
«Soldati» parla finalmente il comandante Smith, vedendo che quasi tutte le sigarette sono ormai state esaurite. Gli uomini si radunano rapidamente attorno al loro superiore e si pongono in ascolto, muti e tesi. «Soldati. È tempo di combattere. Ci è stato ordinato direttamente dal Presidente degli Stati Uniti di riprenderci questa città americana in suolo americano, una città in cui vivono i nostri fratelli e le nostre sorelle, nostri connazionali che hanno piena fiducia in noi. Oggi dobbiamo essere baluardo della loro salvezza, realizzazione della loro speranza, vessillo della loro libertà! Siete soldati dell’Esercito degli Stati Uniti d’America: non dimenticatelo mai, soprattutto quando vi troverete a dover lottare lungo quelle strade per garantire la sopravvivenza vostra o dei vostri concittadini. Siate uomini d’onore, uomini di coraggio. Siate le stelle e le strisce sulla bandiera della libertà! E se darete il massimo di voi stessi, questa notte ci addormenteremo sereni tra le case di Eglon!»

lunedì 7 settembre 2015

Le Anime di Eglon - Prima Stagione - Episodio 29

«William…» biascicò il comandante Smith varcando la soglia della tenda. Il suo vice stava sdraiato per terra e due paramedici gli si affaccendavano attorno. Rivolse al comandante un mezzo sorriso amaro e strinse i denti per sopportare il dolore. Gli stavano ricucendo una profonda lacerazione sulla gamba, e Smith pensò che dovesse fare un male d’inferno.
«Sono tutti morti, signore. Tutti tranne il soldato Davis. È riuscito a tornare e fare rapporto?» pigolò Gray, visibilmente sofferente.
«Sì, Tom è tornato. Mi ha già raccontato tutto. Come sei riuscito a fuggire dalla fattoria dei Gallagher?» volle sapere Smith, terribilmente preoccupato.
Quando Tom Davis gli aveva riferito quello che era successo, aveva creduto che il suo vice fosse morto. Gli dispiaceva di aver perduto William Gray, perché era un uomo leale, uno che sapeva il fatto suo. Senza di lui l’assedio alla città di Eglon sarebbe stato insostenibile. Invece, adesso, eccolo qui. Un po’ ammaccato, ma ancora vivo. A poche ore dal fallimento della missione, William Gray era riuscito a ritornare tutto intero al campo.
«Quando ho visto che la situazione si metteva male, e che tutti i miei uomini erano morti, mi sono fiondato in mezzo ai campi e ho cominciato a correre come non ho mai corso prima in vita mia. Non sapevo in che direzione stavo andando, mi sono limitato a continuare a correre.
«Dietro di me sentivo le raffiche degli spari farsi sempre più fievoli. Eppure, allo stesso tempo, ero certo che mi stessero inseguendo. Sapevo che non mi avrebbero lasciato andare così, senza perlomeno tentare di acciuffarmi.
«E poi, sapevo che il soldato Davis si trovava ancora all’interno della camionetta. Attirando la loro attenzione su di me, potevo permettergli di fuggire. Così, prima di sparire in mezzo ai campi, ho scaricato alle mie spalle la pistola d’ordinanza. Credo di averne beccato uno, prima di gettare a terra la pistola e pensare solo a correre. Ma non ne sono del tutto sicuro. Magari, è stata solo un’impressione.
«Ho continuato a correre per almeno due ore, anche se i muscoli delle gambe strillavano pietà, anche se l’aria faticava a entrarmi nei polmoni. Il rumore degli spari si è esaurito dopo mezz’ora, ma io ho continuato a correre. Perché sapevo che mi stavano inseguendo. Sapevo che mi avrebbero dato la caccia, questo era inevitabile.
«Ho raggiunto una fattoria al calar del sole. Non so a chi appartenesse, ma mi ci sono infilato dentro e ho trovato il soggiorno imbrattato di sangue. Erano passati di lì. E ci stavano ritornando per prendermi. Io non avevo più la mia pistola, e tutte le armi di riserva si trovavano nella camionetta. Ma avrei venduto cara la pelle. Sissignore, non mi sarei fatto prendere tanto facilmente.
«Mi sono nascosto dietro la porta d’ingresso e ho aspettato, con il coltello stretto nella mano. Loro sono arrivati dieci minuti dopo, a bordo di un furgone. Sono scesi in quattro e si sono sparpagliati per scovarmi e catturarmi. Il primo è entrato dalla porta principale: gli ho lasciato il tempo di superare la soglia e poi gli ho infilato il coltello nel collo. Aveva addosso una maschera.
«Avrei potuto aspettarli e farli fuori uno a uno, ma era troppo rischioso. Ho preso la pistola del ribelle morto e sono partito di corsa, cercando di orientarmi alla bell’e meglio con le stelle. Ma uno di quei bastardi mi ha visto ed è partito all’inseguimento. Ha sparato e mi ha preso la spalla. Il tempo di voltarmi e mi era addosso, ha sfoderato un coltello e me l’ha piantato nella gamba. L’ho buttato a terra e gli ho sottratto il coltello. Sono stato più veloce e preciso di lui, e gliel’ho conficcato nel petto. Poi l’ho lasciato lì e mi sono costretto a zoppicare fino al campo.»
«Adesso il vicecomandante deve riposare, signore…» lo avvisò uno dei dottori, iniettando del sonnifero nel braccio di Gray, il quale chiuse gli occhi e sprofondò in un sonno inquieto.
«Per quanto tempo dovrà stare a letto?» s’informò il comandante Smith, abbattuto.
«Non saprei dire, signore. Sembra sia stato lacerato soltanto un muscolo, ma dobbiamo ancora capire l’entità del danno. Forse non si potrà muovere per un po’.»
Il comandante Smith annuì gravemente e uscì dalla tenda del suo vice, sospirando.
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