domenica 30 ottobre 2011

La Stanza in cui Piovono Lacrime - Parte VIII

Come aveva previsto l’ufficio 074, le barriere mentali che Matthew Sunstrike si era costruito con tanta cura e difficoltà cedettero, così come le gambe dell’uomo, che si inginocchiò sull’asfalto e si lasciò pervadere da quella sensazione di smarrimento, rimpianto, dolore e terribile tormento che gli maturava nel cuore e si stava allargando fino ad incenerirgli l’anima. Aveva superato il limite di sopportazione umana. Joseph Cunnighel, che aveva cercato di avvertirlo, si dissolse nel buio, diventando parte della notte stessa che lo avvolgeva, e Matthew si ritrovò solo davanti alla casa in fiamme, a scorgere l’ultimo pietoso sguardo di accettazione della sua amata prima che il fuoco la lambisse, e gli occhi seri e impassibili del suo stesso volto pochi metri più in là, gli occhi che avevano provocato la morte di Cristal e che ora rifulgevano dei bagliori dell’immenso rogo.
La stanza ritornò ad essere improvvisamente normale. Dominata dalla polvere, come lo era stata in partenza. Un monotono ufficio qualsiasi, niente di straordinario. La pioggia bussava alle finestre con tenacia e ostinazione, ossessivamente, e fuori un cielo bigio e languido veniva percorso dai rapidi e furiosi latrati del vento.
Anche dentro la stanza, tuttavia, pioveva. Grosse gocce salate cadevano sul pavimento, lasciando le proprie impronte sullo strato di polvere. Non era acqua come quella che precipitava fuori. Erano lacrime, si rese conto. Le sue lacrime. Le lacrime che aveva versato nel corso della sua esistenza. Fino ad allora non gli era parso fossero molte, ma in realtà, scoprì adesso, erano veramente tante. Tante da creare forse una pozzanghera a lato dell’infinita e inestinguibile strada del tempo che correva seguendo un’unica direzione rettilinea.
Sollevò appena la testa, ma fu costretto a riabbassarla subito. Sopra la scrivania c’era ancora quella cornice, a malapena annerita sui bordi dalle fiamme, o forse solo sporca di cenere. Il vetro era pulito, e la fotografia dietro di esso, che ritraeva lui e la sua amata sorridenti, giovani e felici come probabilmente lo erano stati soltanto per il poco tempo che avevano potuto trascorrere insieme, non era stata minimamente toccata dalle fiamme.
Si accasciò a terra, tra la polvere e le lacrime, e continuò a piangere. I singhiozzi che percuotevano il suo corpo, valutò, forse non sarebbero finiti mai. Era entrato lì dentro per portare a termine una missione. Ma, alla fin fine, evidentemente c’erano entità troppo potenti e troppo impenetrabili, che andavano al di là di ogni comprensione umana, per pensare che vi si potesse in alcun modo mettere un freno. L’ufficio 074, quella stanza in cui piovevano lacrime, era uno dei luoghi più magici dell’intero universo, un luogo che sfidava ogni legge, che percorreva una strada differente da quella che gli uomini erano costretti a seguire in silenzio.
L’ufficio 074 aveva vinto la battaglia. E lui, Matthew Sunstrike, ammetteva la propria resa. Non aveva mai realizzato di essere stato lui a dare fuoco alla propria casa, quella sera. Né riusciva ancora a comprendere come ciò fosse stato possibile. Perché l’aveva fatto? E soprattutto, com’era riuscito a compiere un’azione tanto terribile e che gli aveva provocato una così grande sofferenza da renderlo un uomo debole e vinto dal fato? Non riusciva a capire. E forse, dopotutto, era meglio così, concluse.
Si avvicinò alla porta dell’ufficio e provò il pomello. Con sua grande sorpresa, la porta si aprì senza problemi, scorrendo silenziosa sui propri cardini oliati, nonostante si fosse aspettato il sinistro cigolio che lo aveva accolto al suo arrivo. Con le lacrime agli occhi, uscì nel corridoio, dove l’attendeva lo sguardo attonito e sbalordito di Louis Dember. E si lasciò cadere a terra ai suoi piedi, perdendo volentieri conoscenza.

Louis Dember, facendo tenere ben salda la porta da uno dei fattorini, si introdusse nell’ufficio 074 guardandosi attorno con diffidenza. Questa volta non aveva paura di rimanere intrappolato lì dentro. Un po’ perché la settimana prima aveva visto quel tale, Matthew Sunstrike, uscirne quasi del tutto indenne, anche se profondamente sconvolto, e un po’ perché quella era l’ultima volta che vi metteva piede: dall’indomani l’intero edificio sarebbe passato nelle mani dell’ASSFP, che aveva loro procurato un nuovo grattacielo dove spostare l’attività. Quindi, quella era l’ultima volta in assoluto che Louis Dember aveva a che fare con l’ufficio 074. E questo, inutile nasconderlo, gli procurava un senso di sottile piacere e soddisfazione.
Sondò rapidamente la stanzetta con lo sguardo per controllare che il signor Sunstrike non vi avesse dimenticato nulla, dunque fece per andarsene, quando notò un dettaglio fuori posto: sopra la scrivania c’era qualcosa che non ricordava ci fosse mai stato. Ignorando ogni segnale di pericolo suggeritogli dalla sua mente, si avvicinò, incuriosito, e squadrò con attenzione l’oggetto. Si trattava di una cornice dorata. Ai bordi sembrava come sporca di fuliggine, nerastra. Ma il vetro era perfettamente pulito, così come lo era la fotografia che racchiudeva. L’immagine raffigurava un uomo e una donna abbastanza giovani. Non conosceva affatto la donna, ma non gli fu difficile riconoscere nel volto dell’uomo quello di un Matthew Sunstrike più giovane di qualche anno.
Afferrò la cornice e se la infilò in tasca. Dopotutto, considerò, al signor Sunstrike avrebbe fatto piacere ritrovarsela sul comodino accanto al letto d’ospedale nel quale avrebbe ripreso conoscenza molto presto. In fondo, era una fotografia che almeno avrebbe distolto i suoi pensieri dalla terrificante vicenda vissuta all’interno dell’ufficio 074.

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