mercoledì 19 ottobre 2011

La Stanza in cui Piovono Lacrime - Parte III

La stanza si presentava come un ufficio qualunque, soltanto con più polvere. Il pavimento era in parquet scuro, le pareti e il soffitto di una tinta candida, tre piccole finestrelle imbrattate di polvere che permettevano di scorgere, dietro lo sporco strato di pulviscolo, il verde dell’esterno e il cielo in cui si erano rapidamente ammassati tutti quei neri nuvoloni di pioggia. Più o meno al centro della stanza, leggermente spostata in direzione della parete opposta a quella in cui era posizionata la porta d’ingresso, prendeva posto in tutto quel vuoto una semplice scrivania di metallo con un una sedia pieghevole in plastica all’apparenza poco comoda. In definitiva, quell’ufficio così spaventoso e terrificante era un angusto ambiente spoglio ed essenziale, dallo stile spartano.
Matthew si avvicinò alla scrivania. Era completamente sgombra e piena di polvere da far paura. Attaccati sotto il ripiano c’erano tre cassetti di metallo sigillati, ma la chiave che poteva aprirli si trovava infilata nella serratura del primo. Dopo un istante di riflessione ed esitazione, Matthew afferrò la chiavetta e fece scattare la serratura del primo cassetto: era vuoto, completamente vuoto. Provò allora con il secondo: vuoto un’altra volta. Tentò quindi il terzo, già sicuro di trovarlo privo di contenuto; e così fu, infatti. Li richiuse per bene e si infilò la chiave nella tasca destra dei pantaloni. Probabilmente l’aveva tenuta in mano anche Jessica Rowlands, magari le carte che stava cercando erano in uno di quei cassetti, così come la graffetta con la quale si era aperta la gola. Evidentemente dopo la sua morte era stato sgomberato tutto.
Ammirò il pavimento in parquet e notò di aver lasciato le impronte delle proprie scarpe sullo spesso strato di polvere che rivestiva il legno quasi fosse parte integrante di quell’ufficio maledetto. C’era puzza da chiuso, un terribile e penetrante odore di quelli che appestano quando non si fa circolare aria all’interno di un ambiente per troppo tempo. Si avviò in direzione di una delle finestre e ne saggiò la maniglia, sicuro che fosse ormai bloccata, e invece il vetro si aprì e Matthew lo spalancò finché non fu investito dal fresco venticello che si stava alzando e portava con sé odore di pioggia e di elettricità. Stava arrivando un bel temporale. Sogguardò con poco interesse le nere nubi che sovrastavano il grattacielo e poi ammirò la vista della quale si poteva godere da lassù. Aprì anche le altre due finestre, sorprendendosi ad ognuna di scoprire che non erano state bloccate dalla ruggine o dal tempo, e le lasciò spalancate per permettere a quella fresca aria pulita di invadere l’ufficio 074. C’era proprio bisogno di un bel ricambio d’aria, e finalmente dopo otto anni e mezzo quella stanza se ne poteva godere uno in piena regola.
Una saetta attraversò quel limpido schermo al plasma dall’immagine nitida ad alta definizione che era il cielo, provocando un rombo di tuono che nessun sistema audio multicanale Dolby Digital poteva essere in grado di riprodurre in maniera così pulita e reale.
Matthew si allontanò un po’ dalle finestre e prese a percorrere il perimetro dei muri che delimitavano l’ufficio, osservando attentamente qualunque cosa potesse saltargli all’occhio. Trovò l’unica presa di corrente della stanza, quella in cui era morta fulminata Patty Suldervan dopo averci infilato dentro intenzionalmente un lungo fermacapelli di rame a forma di bastoncino, abbastanza sottile da passare attraverso i due minuscoli forellini.
Esaminò bene gli spigoli della scrivania, contro due dei quali Steven Rosburt e Michael McSulton si erano fracassati la testa sbattendovi con forza, e li valutò abbastanza acuminati allo scopo e dall’angolo e dalle dimensioni perfettamente corrispondenti ai solchi sanguinolenti che si intravedevano nelle fotografie dei due cadaveri in corrispondenza della nuca o della fronte.
Passò bene le pareti e si stupì nel non trovare alcuna traccia di sangue né su di esse, né sul pavimento di legno. Com’era possibile che fosse tutto così pulito e candido eccezion fatta per la polvere? Forse Dember e i precedenti direttori avevano provveduto in qualche modo a far sistemare e pulire tutto quanto, facendo ridare le tinte alle pareti di volta in volta. Già, doveva essere così. Dopotutto, Dember stesso aveva affermato che, tenendo la porta aperta e muovendosi sempre senza mai stare fermi all’interno della stanza, si poteva poi uscirne illesi. Un sistema dovevano pur averlo escogitato per mantenere tutto in ordine. In ogni caso, lui era lì dentro da quasi otto minuti e non era ancora successo niente. Un gruppo di imbianchini avrebbe benissimo potuto coprire tutte le tracce di sangue rappreso, dandosi turni di pochi minuti e muovendosi in continuazione, lasciando sempre un paio di persone a tenere bene aperta la porta d’ingresso. Già, probabilmente Dember e gli altri direttori prima di lui avevano fatto così per mantenere bianchi i muri.
Una cosa ancora gli sfuggiva: il soffitto era perfettamente liscio, senza alcuna sporgenza, e lo stesso valeva per le pareti se si toglievano la presenza delle finestre e della porta. Come aveva fatto allora Robert Dulfort, dodici anni prima, ad impiccarsi lì dentro con la cintura dei pantaloni? Avrebbe potuto girarsela attorno al collo e tirare con le proprie mani, se giunto ad un livello tale di disperazione da esserne in grado, ma sul rapporto relativo all’interno del fascicolo che gli era stato dato c’era scritto che si era impiccato ed era stato ritrovato, per citare testualmente, “appeso al soffitto per la cintura dei pantaloni”. Come diavolo aveva fatto? Aveva usato un gancio o un chiodo, o qualcosa di simile per tenere bloccata la cintura o che altro? La stanza non era molto alta. Probabilmente era salito in piedi sulla sedia e poi aveva spiccato un salto in avanti o aveva dato un calcio alla sedia stessa per capovolgerla e trovarsi con i piedi sospesi nel vuoto, ma dove aveva fissato quella stramaledetta cintura di pelle marrone con fibbia dorata?
Decise di rimandare la spiegazione; ne avrebbe trovata una di plausibile al più presto. Intanto proseguì nella sua analisi. Controllò bene, in base alla memoria fotografica, il punto in cui Mike Timerson si era aperto il braccio con il tagliacarte che aveva in tasca, l’angolo in cui Dorilla McRaphal si era infilata uno stiletto nella gola stando seduta sul pavimento in parquet, la parete contro la quale Donald Gwider si era sparato con la rivoltella che era solito portarsi appresso…ma certo! Una folgorante intuizione gli balzò alla mente, così chiuse gli occhi e focalizzò i propri pensieri sull’immagine della fotografia scattata al corpo di Donald Gwider che era stata allegata al relativo fascicolo e vide, sospeso a mezz’aria al centro della stanza, un grosso lampadario dalla forma sferica che pendeva dal soffitto appeso per una catenella dura e resistente del tutto identica a quelle che reggevano i lampadari nell’atrio dell’edificio, e comprese finalmente dove Robert Dulfort avesse potuto bloccare la propria cintura per trasformarla in un cappio. Era chiaro! Quasi sicuramente qualcuno dei direttori, fosse lo stesso Dember, aveva fatto rimuovere il lampadario e aveva provveduto anche a far scomparire del tutto le tracce dal punto in cui la catena che lo sosteneva doveva essere stata ancorata al soffitto. Si rimproverò per la propria lentezza e per il fatto di non averlo capito prima e prese mentalmente nota di comunicare all’agenzia, una volta rientrato dalla missione, di aggiungere quel piccolo dettaglio al fascicolo sull’ufficio 074.
Ad un tratto, una folata di vento gelido lo colpì e lo attraversò, quasi che un fantasma avesse deciso di passare per il punto in cui si trovava lui e di non deviare la strada, ma di andargli dritto incontro e superarlo urtando il suo corpo concreto. Si girò di scatto verso la direzione dalla quale quell’aria gelata doveva provenire e trovò di fronte al proprio sguardo soltanto le finestre. Rilassò i muscoli contratti e distese i nervi: si stava sollevando il vento fuori, era per quello che aveva sentito quell’agghiacciante ondata di freddo. Andò alle finestre e ne chiuse due, lasciando l’altra sempre spalancata per continuare il ricambio d’aria in corso. Avrebbe smosso la polvere tutto quel vento, ma poco importava. Ce n’era abbastanza per soffocarlo in quella stanza, ma molta era depositata da così tanto tempo che si sarebbe dovuto sfregare per bene il pavimento per smuoverla. Riguardò le impronte lasciate dalle suole delle proprie scarpe sullo strato di pulviscolo e pensò a quelle che si lasciavano quando si camminava sulla neve. Erano molto simili, soltanto che la neve era un tappeto molto più soffice e piacevole sul quale camminare. L’idea di un manto di polvere che ricoprisse la città al posto della neve non lo attirava minimamente.
Prese posto sulla sedia pieghevole appostata dietro la scrivania e si pose lì immobile, a fissare le plumbee nuvole che si spostavano velocemente nel cielo. Dember aveva detto che, se chi entrava rimaneva fermo, allora la porta si chiudeva da sola. Era già chiusa ormai, ma se fosse rimasto lì saldo e senza compiere alcuno spostamento, forse l’ufficio si sarebbe rivelato per quel caso di fenomeno paranormale quale rientrava catalogato negli archivi dell’ASSFP.
C’è così tanto silenzio. Così tanta oscurità nel mondo. Qual è la strada che hai scelto?
Si riscosse all’improvviso, terrorizzato. Aveva udito distintamente quelle parole. Potevano essere soltanto un inganno uditivo generato dal vento? La sua esperienza in campo paranormale gli diceva di no. Era come se qualcuno avesse proiettato i propri pensieri direttamente nella sua testa. Non aveva sentito quelle parole con le proprie orecchie, bensì con il proprio cervello. Ma chi era stato a trasmettere quel potente segnale nella sua testa? Non c’era nessuno in quell’ufficio. Concluse fosse stato proprio l’ufficio stesso, e si alzò in piedi ponendosi in ascolto.
Ma non accadde più nulla, e dopo qualche minuto cominciò a pensare di aver sognato quelle parole.
Fece un ulteriore giro della stanza, si sedette un altro paio di minuti e poi tornò per la seconda volta a rialzarsi in piedi di scatto. Erano passati ventisette minuti da che era entrato. Se doveva succedere qualcosa, allora sarebbe già successo. Chiuse l’unica finestra rimasta aperta, confinando all’esterno il robusto vento carico di nuvole e di odore di pioggia e fulmini, e partì a grandi passi in direzione della porta d’ingresso. Appoggiò la mano sul pomello della porta e fece pressione per aprirla, ma il pomello girò a vuoto. Inorridì alla terrificante scoperta e riprovò immediatamente, ottenendo lo stesso risultato. Allora cominciò a picchiare con quanta forza aveva sul blocco di legno rettangolare, tentando anche un paio di calci per provare a sfondarla. Niente. Prima aveva pensato fosse facile buttarla giù, ma ora appariva molto più resistente di quanto fosse sembrata in precedenza. Era come tentare di abbattere a pedate una parete di mezzo metro di cemento armato. Un’impresa impossibile.
Nel frattempo, dall’altra parte della porta, mentre Matthew prendeva a pugni e calci l’uscio per cercare di aprirsi uno sbocco, Louis Dember passò davanti all’ufficio 074 e guardò verso la serratura buia ed impenetrabile allo sguardo. Sembrava tutto molto silenzioso là dentro. Troppo silenzioso. Erano trascorsi ventotto minuti e non si udiva un solo rumore. Un’ansia leggera strisciò lungo il suo petto per raggiungergli la gola, ma la cacciò giù perché sapeva che se Matthew Sunstrike fosse morto la porta dello 074 si sarebbe riaperta da sola mostrandone il cadavere. Rivolse una fuggevole preghiera all’agente intrappolato là dentro e riprese il suo giro di controllo. Non poteva fare più nulla per lui ora che era entrato, tranne sperare.

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