giovedì 13 ottobre 2011

La Stanza in cui Piovono Lacrime - Parte I

Matthew Sunstrike annusò l’aria e sorrise. Sapeva da pioggia. L’avevano detto quella mattina alle previsioni del tempo, tuttavia lui aveva sogghignato in faccia alla conduttrice del notiziario e aveva deciso di non portarsi l’ombrello. Di lì a poco avrebbe iniziato a scrosciare un terribile acquazzone, allora la donna del meteo avrebbe potuto avere, sebbene inconsapevolmente, la sua patetica vendetta. E lui si sarebbe ovviamente preso una bella lavata nel vero senso della parola.
Chiuse lo sportello della sua automobile e si incamminò lungo il cortile di ghiaia, godendosi e cercando di interpretare il mormorio che le suole delle sue scarpe producevano al contatto col pietrisco. Raggiunse l’ingresso del grande grattacielo che somigliava quasi ad un rigoglioso giardino in cui ogni filo d’erba ammassato contro gli altri era un angusto ufficio dalla pianta quadrata e dall’onnipresente e indelebile odore di sigaretta, squadrò il cielo e ammiccò con sguardo d’intesa nel notare le dense e plumbee nuvole che si stavano raccogliendo sopra la campagna circostante per scaricarvi il proprio contenuto così prezioso per i campi e per le bestie.
L’alto e imponente edificio in cemento armato, che si ergeva su di lui quasi fosse un’oscura e antica costruzione dedicata ad un dio pagano, era un semplice palazzo degli affari, un grattacielo fuori dalla zona industriale della città di Brokesville in cui erano compressi ben ottantotto piccoli uffici, ognuno dei quali aveva il proprio affarista all’opera otto ore al giorno seduto dietro una comoda scrivania con una bella tazza di caffè, un computer e un telefono. Si trattava perlopiù di un centro di smistamento per le attività commerciali, una sorta di tramite tra i produttori, i rivenditori e i compratori di una serie ciclopica di merci varie.
Matthew non era uno speculatore, anzi, tutt’altro. Era venuto lì per compiere un’attenta e delicata missione affidatagli direttamente dall’Agenzia Speciale di Stato sui Fenomeni Paranormali, conosciuta anche con l'acronimo ASSFP, un’organizzazione di cui pochi conoscevano l’esistenza che andava ad indagare su fenomeni strani e misteriosi quali casi di telecinesi, pirocinesi, lettura del pensiero, levitazione, psicocinesi e altre manifestazioni simili che prendevano posto al di là di ciò che la scienza era in grado di spiegare al momento. Niente a che vedere con la segretezza della fantomatica Area 51 o roba del genere: i dipendenti dell’ASSFP non erano legati ad alcun vincolo di riservatezza o silenzio; semplicemente, non avevano voglia di parlare agli altri del mestiere col quale si guadagnavano il pane quotidianamente. In questo modo, l’agenzia era sempre vissuta nell’ombra.
L’ASSFP era stata fondata sessantacinque anni prima, quando un importante e noto senatore, volutamente rimasto anonimo per questioni di privacy, aveva deciso di finanziarla a proprie spese per risolvere alcune questioni famigliari, casi di eventi paranormali che si erano manifestati proprio in uno dei suoi rampolli. Alla morte dell’uomo, l’organizzazione era arrivata già ad un alto livello, con più di cento effettivi casi ogni anno da gestire, e così l’amministrazione era passata direttamente nelle mani dello Stato. Ufficialmente, l’ASSFP rientrava direttamente nella lista delle agenzie che si occupavano dei beni culturali e delle ricerche in campo scientifico, tuttavia il lavoro che compiva ogni anno era ben più notevole e comportava un dispendio di denaro e di energie non irrilevante. Nessuno aveva mai tentato, in sessantacinque anni, di nasconderne l’esistenza o di occultarne o insabbiarne l’operato, semplicemente era un argomento che nessuno intendeva toccare e, al momento, il precario equilibrio di inconsapevolezza riguardo la sua esistenza da parte della maggioranza del popolo sembrava non voler dare segno di cedere.
Matthew Sunstrike aveva trentasei anni. Aveva già lavorato a quarantanove casi diversi da quando era entrato nell’agenzia dieci anni prima, dopo aver ottenuto con strabilianti risultati una laurea in psicologia. Il suo primo incarico era stato un ragazzino di cinque anni che aveva terrorizzato i genitori con un piccolo baluginio di telecinesi, un evento isolato che non si era mai più verificato per il resto della vita del giovane. Era stato un minuscolo flash, niente di che, eppure era servito a far comprendere a Matthew quale ardua carriera avesse intrapreso. Era stata dura all’inizio, ma dopo i primi mesi aveva cominciato a ingranare alla grande ed ora era uno dei più quotati e rispettati agenti dell’ASSFP. Ed era proprio per questo motivo che era stato mandato lì.
Più volte si era trovato davanti a casi di apparizioni di cosiddetti fantasmi o a uomini, donne e ragazzi in grado di leggere il pensiero altrui, conoscere una persona soltanto concentrandosi sulla sua mente, far comparire immagini irreali direttamente negli occhi di chi volevano. E in ogni caso si era comportato in una maniera diversa, selezionando l’approccio che poteva rivelarsi più efficace e dando fondo a tutte le proprie possibilità, giocando tutte le carte che aveva in mano e disponendole ordinatamente davanti al tavolo del suo cervello per meglio elaborare la mossa vincente. Ma ora la situazione era ben diversa. Il caso che gli si stava per presentare davanti era un’autentica rarità, un pezzo da collezione per l’agenzia, qualcosa che l’organizzazione non aveva mai nemmeno sospettato potesse esistere. Si era studiato il fascicolo per la ventesima volta tutta la notte precedente ed erano tre settimane quasi che si preparava psicologicamente a quella missione così importante e rischiosa, ed ora era pronto ad affrontare e archiviare quel nuovo caso che per lui sarebbe divenuto il cinquantesimo in dieci anni di servizio.
Non aveva mai sentito parlare di nulla di simile in tutta la sua vita. Era un po’ teso all’idea di doversi occupare da solo di quel fenomeno così strano e imprevedibile, ma la Commissione dell’ASSFP aveva selezionato lui perché era il più indicato per la situazione che si sarebbe trovato ad affrontare, e d’altronde non si sentiva solamente preoccupato: era anche tanto eccitato all’idea di confrontarsi con quella nuova e sconosciuta manifestazione. Era altresì orgoglioso per il fatto di essere stato mandato a compiere quell’operazione, perché significava che si fidavano pienamente di lui e che ormai era diventato un pezzo grosso all’interno dell’organizzazione, uno degli elementi più validi, se non addirittura il più valido di tutti. E sebbene lui per modestia non fosse certo che così fosse, in realtà lo era eccome: non c’era praticamente nessuno di più esperto e più in gamba all’interno dell’ASSFP che potesse competere con lui. Eccetto forse il Direttore, che tuttavia non usciva più in missione da qualche anno.
Trasse un profondo respiro dall’aria pulita che lo assediava ed entrò nell’edificio tramite la porta girevole che ne costituiva l’accesso. Si ritrovò in un vasto atrio invaso dall’aria condizionata che si allargava per tutta la pianta della costruzione. Pareti bianche, pavimento in mattonelle candide come la neve, lucidato di recente. Piccole finestrelle che lasciavano intravedere il verde che circondava il grattacielo. Enormi lampadari dall’aria antica e fragile che pendevano dal soffitto trattenuti da robuste catenelle d’acciaio placcato in argento. Una scrivania di legno scuro, evidentemente da pochi soldi, in fondo a destra rispetto a chi entrava dall’ingresso principale, una giovane segretaria che stava seduta dietro di essa con aria onnisciente, intenta a scrutare lo schermo di un computer e a dare un’occhiata di tanto in tanto al display del telefono per controllare che non ci fossero chiamate in arrivo. Un’ampia gradinata che si innalzava al centro della sala e si inerpicava verso i piani superiori, accanto alla quale si trovava un ascensore le cui porte scorrevoli stavano spalancate, come in un invito ad entrare per poter in seguito chiudere le proprie fauci e masticare con comodo l’ignara vittima, gustando chiunque fosse stato abbastanza impudente da addentrarvisi.
Matthew odiava gli ascensori. Quando aveva tredici anni la sua sorellina era rimasta chiusa per ore dentro uno di quei marchingegni che si era bloccato a metà strada e non voleva saperne di tornare a posto. Avevano dovuto chiamare i vigili del fuoco e la piccola era stata tirata fuori quasi delirante, perché a volte soffriva di attacchi di violenta claustrofobia se rimaneva sigillata in piccoli spazi chiusi per troppo tempo. Avevano preso tutti quanti un tale terrore che Matthew aveva ripromesso a se stesso che non avrebbe mai più messo piede in uno di quegli affari se avesse potuto evitarlo per il resto della vita.
Si avvicinò, sfoderando il suo miglior sorriso, in direzione della segretaria. Era un uomo abbastanza alto e snello, poco muscoloso, il viso a metà via tra il troppo pallido e l’eccessivamente abbronzato, barba ben rasata, capelli folti e ondulati, castani, abbastanza corti e tenuti sotto controllo, naso dritto e mento squadrato, labbra sottili ma carnose, occhi blu che parevano onde del mare, un sorriso abbastanza attraente per il quale aveva trovato in vita sua poche donne in grado di resistergli. Ma lui non andava in cerca di una donna. O almeno, non più ormai. Da tanto tempo. E in ogni caso il risultare affascinante gli facilitava sempre in parte il lavoro e gli apriva molte più possibilità durante le frequenti missioni alle quali doveva prendere parte.
Quella mattina aveva indossato un semplice abito color blu notte con sotto una camicia bianca, indumenti che aveva acquistato non molti giorni prima in centro città grazie ad una buona occasione che gli si era presentata nel periodo dei saldi. Sebbene non sottovalutasse l’apparenza e l’aspetto esteriore, non riteneva giusto dover pagare smisurate somme per vestirsi, così preferiva spendere il minimo possibile.
«Buongiorno signorina» salutò cortesemente appoggiando i gomiti sulla scrivania della giovane segretaria e fissando il proprio sguardo negli occhi di lei appena sollevatisi dallo schermo del computer, mentre si concedeva ad un sorriso raggiante. La donna era una ragazza abbastanza carina, sui venticinque anni probabilmente, mora e con i capelli lisci, gli occhi azzurri, il volto abbronzato e il corpo snello e slanciato, naso piccolo e labbra disegnate da un pittore del calibro di Giotto o Michelangelo, sopracciglia lunghissime, poco trucco, addosso una minigonna nera, un paio di scarpe color crema col tacco alto e una maglietta beige che lasciava scoperte le spalle. Si chiamava Cindy, o così almeno affermava la targhetta posta sulla scrivania.
«Buongiorno, posso esserle utile?» rispose la graziosa fanciulla con voce soave, allargando il sorriso che aveva stampato in faccia.
«Sì, mi chiamo Matthew Sunstrike,» spiegò gentilmente l’uomo sfoderando il proprio tesserino di riconoscimento, «mi hanno mandato dall’ASSFP per parlare con il direttore di questi uffici.»
«Oh, sono spiacente, ma il signor Dember è impegnato in una telefonata importante. Che cosa le serve, esattamente, signor Sunstrike?» domandò la ragazza, più per curiosità che per questioni di lavoro.
«Bah, niente di che a dire il vero. Sono venuto solo per l’ufficio 074» confessò Matthew assumendo volutamente un’aria di poca importanza, ma il viso della giovane si rabbuiò rapidamente e lui non poté fare a meno di notarlo.
«L’ufficio 074? Già, lo immaginavo. Avevano detto che l’avrebbero mandata oggi…» confermò Cindy squadrandolo da cima a fondo e annuendo anche con il capo per sottolineare maggiormente il fatto che era a conoscenza del suo arrivo, ma che non si aspettava un tipo all’apparenza così giovane e così…ordinario.
«Voglio darle un avvertimento, signor Sunstrike. Lasci perdere. Le sconsiglio caldamente di mettere piede in quell’ufficio» lo ammonì la ragazza, seria.
«Perché?» tentò di stuzzicarla Matthew, senza smettere di sorridere. La giovane si guardò intorno, come per controllare che non ci fossero orecchie indiscrete in grado di udirli, poi si sporse un po’ sulla scrivania e parlò con un tono di voce più pacato.
«Non so se lei è al corrente di che cosa è successo là dentro, ma in caso non lo sia le voglio dire che la precedente segretaria che occupava questo posto prima del mio arrivo è entrata in quell’ufficio per prelevare delle carte che le servivano e che sapeva esservi custodite da diversi anni e ne è uscita quattro ore dopo…sulla barella di un’ambulanza con la gola aperta.» Cindy rabbrividì per un istante al ricordo di ciò che le avevano narrato quando aveva cominciato a lavorare in quell’edificio, e non riuscì a nascondere un lieve tremito nella voce. Si era sporta apposta sulla scrivania, sicura che l’uomo con il quale stava parlando le avrebbe gettato qualche occhiata nella scollatura e le sarebbe stato grato per questo, e magari l’avrebbe anche invitata ad uscire a cena una sera; ma nulla di tutto ciò avvenne e si sentì un po’ delusa. In fondo era un tipo attraente. Ma allo stesso tempo quel sorriso accattivante, che non era scomparso durante l’agghiacciante racconto, metteva i brividi.
«Inoltre,» proseguì la ragazza per cercare in qualche modo di fargli mutare quell’espressione allegra e sicura si sé, «ho sentito dire che sono morte un sacco di altre persone in quell’ufficio. Quel posto è maledetto, per questo non ci lavora nessuno.»
Matthew continuò a sorridere tranquillamente.
«Sì, so bene tutto ciò che è accaduto nell’ufficio 074. E so anche della segretaria, Jessica Rowlands, trentadue anni, sposata da quattro all’epoca del decesso. Si è tagliata personalmente la gola con una graffetta. In tutto ci sono stati ventidue decessi in quell’ufficio da quando questo grattacielo è stato costruito trent’anni fa, tutti suicidi avvenuti in svariate maniere.»
L’elenco preciso che l’uomo le fornì fece rabbrividire ancor di più Cindy.
«Ma allora, se è al corrente di tutti questi fatti, perché mai vuole entrare là dentro?» domandò inorridita e ansiosa la giovane e bella segretaria.
Matthew rimase un momento a riflettere sulle parole che potessero essere più d’impatto, mentre il silenzio calava su di loro un candido lenzuolo di quiete e timore, quindi socchiuse le labbra e pronunciò quasi in un sussurro, senza abbandonare il suo sorriso cortese e affabile: «Perché è il mio lavoro.»

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