venerdì 28 ottobre 2011

La Stanza in cui Piovono Lacrime - Parte VII

«Mi ha mandato qui il signor Duhlander, Matthew» rispose Joseph con indifferenza, come se il particolare fosse del tutto trascurabile. Matthew sorrise dentro di sé. Duhlander…questo nome gli faceva ritornare in mente un sacco di cose, a partire dal suo colloquio di diversi anni prima con il ragazzo. Aveva scoperto che Duhlander, attivo durante la Seconda Guerra Mondiale, era stato preposto tra il 1942 e il 1945 ad un laboratorio che faceva esperimenti sull’uomo utilizzando ebrei come fossero carne da macello, testando su di loro ogni genere di sevizie e torture per valutare quali fossero i limiti di sopportazione del corpo umano. Rabbrividì. Il pensiero di quanto dovessero essere stati terribili questi indelebili fatti della storia lo faceva sempre rabbrividire. Respinse con disgusto l’idea di ritornare con la mente alle riflessioni cui era arrivato durante i suoi colloqui di molti anni fa con Joseph Cunnighel. Sottolineò invece il fatto che il ragazzo lo avesse chiamato Matthew, invece che signor Sunstrike come aveva sempre fatto; questo non era proprio un buon segno.
«Il signor Duhlander?» domandò, non sapendo in che altro modo muoversi. Dietro di lui l’allegro crepitio delle fiamme che avevano incenerito la sua casa stava continuando, così come le urla tutt’attorno sembravano non avere la minima intenzione di voler cessare.
«Sì. Mi ha detto che dovevo avvisarti, Matthew. Che dovevo aiutarti, perché avevi estremamente bisogno d’aiuto» sussurrò, quasi sibilando come un serpente. I suoi occhi vitrei sembravano quelli di un cadavere, eppure era forse l’entità più concreta che ci fosse in quella stanza tramutata in notte illuminata dal fuoco. Si chiese perché l’ufficio 074 avesse deciso di mettere in campo Joseph, quale fosse il filo del progetto che stava attuando per riuscire a indurre anche lui a suicidarsi.
«Che cosa ti ha detto esattamente, Joseph?» volle sapere. Forse avrebbe fatto meglio a non chiederglielo, e lo pensò non appena comparve un’ombra di follia nello sguardo del ragazzo, ma dopotutto desiderava sapere, e se l’ufficio 074 aveva deciso di farlo parlare con Joseph Cunnighel un motivo ci doveva pur essere. Concluse che, nonostante non volesse sentire ciò che il ragazzo stava per dirgli, lo avrebbe fatto comunque.
«Mi ha detto che ti trovi in grave pericolo, Matthew. Che sei entrato in un ufficio nel quale ti era stato sconsigliato di mettere piede, e che adesso quell’ufficio ti sta succhiando a poco a poco l’anima, un po’ alla volta, per farti impazzire» bisbigliò Joseph, come se gli stesse confidando un prezioso ed oscuro segreto. Matthew rimase impassibile a queste parole. Era chiaro che l’ufficio 074 aveva riprodotto in maniera fedele l’immagine di Joseph, ma era lui che parlava per mezzo della sua bocca. Solo il fatto che lo chiamasse Matthew al posto di signor Sunstrike bastava a confermare questa sua certezza. Sorrise. Non sarebbe stato al gioco. Avrebbe dimostrato subito a quell’entità sovrannaturale chi era, lì dentro, a tenere le redini della situazione.
«Davvero? Be’, deve essersi sbagliato, perché io qui sto bene. Non sto affatto impazzendo» disse con calma. Il sorriso maligno sul volto di Joseph non s’incrinò affatto, e il ragazzo non si scompose.
«Lo so, Matthew, lo so. Ma è proprio per questo che Duhlander mi ha mandato qui: lui che ha studiato per anni quali fossero i limiti di sopportazione umana sa che ormai sei giunto quasi al limite, Matthew, e devi assolutamente stare attento. Sono qui per avvisarti, per aiutarti» spiegò il ragazzo, con espressione malinconica e spenta. Doveva ammetterlo, quell’ufficio era riuscito a penetrare la sua mente in maniera efficace. Era persino arrivato a carpire le informazioni in suo possesso su Alec Duhlander e ad utilizzarle a proprio vantaggio. C’era da riconoscere che si muoveva piuttosto bene, tutto sommato.
«Ho raggiunto il limite di sopportazione, dici? Ma, se non sbaglio, gli esperimenti di Duhlander si basavano esclusivamente su studi di natura fisica, e quindi andavano ad analizzare quali fossero i limiti di sopportazione del corpo dell’essere umano» fece notare Matthew, convinto di aver trovato la falla.
«Sì, è vero, questo ufficialmente però. In realtà, molti dei suoi esperimenti erano anche di natura psicologica, ma il signor Duhlander era stato incaricato direttamente dalle alte sfere di non redigere alcun rapporto ufficiale al riguardo, perché il progetto voleva essere uno dei piani d’azione per la creazione di nuove armi offensive da poter utilizzare contro i nemici, ricerca verso la quale Hitler era particolarmente propenso» espose in breve Joseph, smontando l’attacco di Matthew. L’uomo non si lasciò intimidire da queste considerazioni. Voleva capire dove l’ufficio 074 intendesse andare a parare, e mentre l’incendio si consumava alle sue spalle, illuminando di una incandescente e mutevole luce demoniaca il viso e gli occhi di Joseph, si preparò a porre la domanda chiave di tutto il dialogo.
«Perché mai un nazista morto in carcere nel 1964 per crimini di guerra e crimini contro i diritti umani dovrebbe interessarsi tanto a me?» domandò con tono di voce asciutto. Joseph gli sorrise in maniera più affabile, tanto da meravigliarlo.
«È molto semplice, Matthew: perché tu, in caso non lo sapessi, sei il discendente di uno degli esperimenti del signor Duhlander, morto sotto le sue sevizie nei campi di concentramento in Germania, nell’estate del 1944. Il tuo avo che si è salvato dalla cattura dei nazisti è fuggito qui, dove si è nascosto fino alla fine della guerra, e ha potuto crearsi una famiglia. In un certo senso, il signor Duhlander spera di comprarsi una riduzione della pena nella sua vita nell’aldilà aiutando il discendente di un uomo che ha torturato psicologicamente fino alla morte» spiegò Joseph, e questo nuovo particolare fece di colpo raggelare il sangue a Matthew, che si limitò a non dire nulla.
«Perciò,» proseguì Joseph dopo una breve pausa di silenzio, «ecco il motivo per il quale mi trovo qui: devo dirti una cosa molto importante, Matthew, che il signor Duhlander vuole assolutamente io ti comunichi.»
«Cioè?» volle sapere. Joseph esitò un istante, inumidendosi le labbra con la punta della lingua.
«Voltati» sussurrò, e Matthew obbedì. Volute spesse e uniformi di fumo nerastro si innalzavano dalle fiamme che ancora masticavano con piacere il legno della sua abitazione, e la luce del fuoco si spandeva sul giardino attorno e sull’asfalto della strada. L’erba era diventata quasi rossa per i riflessi dell’incendio, e gli occhi di Matthew si persero in questa visione mozzafiato che gli fece salire le lacrime. Questa volta non si sforzò di reprimerle. Le lasciò semplicemente affiorare non appena sentì che premevano per uscire, e mentre emergevano e gli scendevano lungo le guance si rese conto davvero che stava piangendo. Era un pianto liberatorio. Quel pianto che aveva trattenuto al momento della morte di sua moglie, nonché del figlio che si trovava ancora nel suo ventre.
«Dove sei tu, mentre tua moglie muore?» domandò con voce esile e sottile Joseph Cunnighel, richiamando la sua attenzione alla realtà. Si trovava ancora nell’ufficio 074, non era affatto davanti alla propria abitazione in fiamme. Riassunse il controllo per quanto gli fu possibile.
«Io sono al lavoro. Non tornerò a casa prima di una mezz’ora, temo, e solo allora scoprirò che cos’è successo» rispose prontamente, con una grossa macchia di rimpianto che si allargava nel colore monocromo della voce. Ma Joseph scosse il capo. Non era contrariato. Gli stava dicendo che non era così. Lo fissò con aria interrogativa, così il ragazzo sorrise stancamente.
«No, Matthew. Era proprio questo ciò contro cui Duhlander mi aveva detto di metterti in guardia: tu non sei affatto al lavoro, Matthew…» cominciò Joseph, ma in quel momento l’uomo smise di ascoltarlo, perché si rese conto che alla finestra di casa sua era improvvisamente comparsa una figura pallida e funerea, quasi uno spettro del passato apparso per un barlume d’istante al di là del vetro appannato: Cristal, la sua dolce e amata Cirstal, scrutò l’esterno dell’abitazione con sguardo terrorizzato, l’espressione dipinta sul volto era quella di una lacerante paura rassegnata. Si era resa conto di stare per morire, realizzò. Si era affacciata alla finestra per chiedere aiuto. Probabilmente, considerò, il resto delle stanze erano già invase dal fuoco. Avrebbe potuto aprire la finestra e fare uscire il fumo che rischiava di soffocarla, ma era al secondo piano, quindi sarebbe servito a poco. Senza l’intervento dei pompieri, lei sarebbe morta. E Matthew già sapeva che i pompieri non sarebbero arrivati in tempo per salvarla, perché lei era già morta.
Questa consapevolezza lo travolse come uno tsunami, sbalzandolo indietro e facendo sgorgare nuovamente una seconda ondata di lacrime dai suoi occhi arrossati. Possibile che nessuno avesse potuto fare niente? Possibile che la sua amata fosse morta in una maniera tanto insensata, in quel modo terribilmente sbagliato? Perché era dovuta andare così? Lui non avrebbe davvero potuto fare niente per impedire che ciò accadesse?
«No, non avresti potuto fare niente Matthew» rispose Joseph alle sue spalle, come se avesse letto tranquillamente i suoi pensieri nel momento stesso in cui li formulava.
«Ma perché deve essere tutto così…doloroso?» domandò Matthew nella sua impotenza, lasciando che le lacrime conquistassero definitivamente il suo volto illuminato dalle fiamme tremolanti e tuttavia ancora vigorose. Aveva giurato a se stesso che non avrebbe pianto. Si era preparato per giorni a quella missione nell’ufficio 074, a ciò che la stanza gli avrebbe inevitabilmente fatto vedere e rivivere. Ma non si era aspettato che la sofferenza provocata da queste immagini potesse essere tanto grande. Lì dentro, tra quelle mura, quel fuoco aveva ucciso le due persone più importanti di tutta la sua vita: sua moglie e suo figlio che non era ancora nato.
«Sei stato tu a farti del male, Matthew. Tu non sei al lavoro. Tu sei lì» sussurrò Joseph Cunnighel, e il calore che il fuoco emanava e gli infondeva in corpo si fece tutto d’un tratto ghiacciato. Seguì lo sguardo della sua amata ancora affacciata alla finestra, l’espressione terrorizzata e indescrivibilmente triste, e si accorse che guardava verso un punto ben preciso: osservava una persona in piedi accanto alla casa, che teneva in mano una fiaccola, un’ombra che si muoveva attorno alle pareti in fiamme con circospezione. Matthew non poté non riconoscere quella figura: era lui. E il pensiero conseguente a questa scoperta fu ineluttabile: era stato lui ad appiccare l’incendio.

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