sabato 17 dicembre 2011

L'Unità malvissuta o la mal coscienza del popolo italiano - Parte III

Passiamo ora ad analizzare brevissimamente, per quanto ci è possibile nel poco spazio a disposizione (per studiare ed esaminare tutta l’immensa mole di materiale e fonti riguardanti il Risorgimento, infatti, mille pagine non basterebbero), le critiche e le interpretazioni storiografiche susseguitesi nei decenni da quel 17 marzo 1861, così vicino eppure così dolorosamente lontano, onde ricercare in esse qualche traccia che ci possa aiutare a delineare meglio l’evoluzione del pensiero del popolo italiano nei confronti della propria Unità e a capire perché quest’ultima, a dispetto del senso di spasmodica attesa che precede i festeggiamenti del centocinquantesimo anniversario, venga ancora definita malvissuta.
Un filone critico assai fondamentale per comprendere meglio tale interpretazione dell’Unità d’Italia è quello che tratta della non partecipazione delle masse popolari – e, per essere più precisi, di quelle contadine – agli eventi del Risorgimento. Come ci fanno notare Antonio Desideri e Mario Themelley in Storia e storiografia, “Il decennio di preparazione e il compimento dell’Unità d’Italia”, edito da “Editrice d’Anna” nel 1999 («Quanto alla partecipazione contadina delle masse subalterne alle vicende della unificazione essa continuò ad essere assai modesta»), le masse contadine, a dispetto della definizione di “Italia del popolo” data da Mazzini, non intervennero nelle rivoluzioni risorgimentali se non in alcuni sporadici casi, anzi, si mantennero in disparte, probabilmente in maggioranza senza nemmeno rendersi conto di ciò che realmente stava capitando loro attorno. Gaetano Salvemini, meridionalista, definì per questo il Risorgimento addirittura una “rivoluzione mancata”, mentre un anonimo mazziniano diede la colpa di questa freddezza da parte del popolo nei confronti della guerra nazionale alla politica di classe adottata dal nuovo governo provvisorio milanese. Una tra le poche parentesi “popolari” riscontrabili nei processi legati all’unificazione risulta quindi essere quella della spedizione dei Mille, un minuscolo tassello se messa a confronto con il resto degli avvenimenti risorgimentali.
Ecco come al Sud era avvertita l’azione delle truppe piemontesi in quegli anni, punto di vista che traspare attraverso questo brano ripreso da La conquista del Sud, edizione “Rusconi”, 1972, di Carlo Alianello: «Da noi il popolo minuto aveva sempre considerato i piemontesi non come italiani ma come stranieri […]. Un esercito d’occupazione, insomma, con le sue crudeltà, i suoi saccheggi, le case distrutte, le donne violentate a forza.» Non c’è da stupirsi, quindi, se in un primo momento le masse popolari, in particolare nel Mezzogiorno, opposero resistenza all’unificazione, battendosi per ostacolarla. Da qui ci si riallaccia facilmente al discusso fenomeno del brigantaggio postunitario, del quale si è accennato in precedenza.
Non risulta difficile osservare come questi filoni storiografici tendano a sconfessare l’idea del Risorgimento inteso come movimento o rivoluzione popolare per raggiungere l’unità nazionale della penisola italiana. Di certo se essi rappresentano la verità, se le loro tesi, cioè, sono quelle che maggiormente si avvicinano alla realtà dei fatti che si avvicendarono durante l’instabile periodo del Risorgimento, allora potremmo dire che è proprio lì che affonda le radici l’attuale percezione di Unità malvissuta attorno alla quale stiamo indagando. Una parziale risposta ai nostri punti interrogativi, di conseguenza, può già essere formulata a partire da queste teorie storiche, perché prendendo come vero il fatto che le masse popolari durante il Risorgimento si siano opposte con vigore all’Unità d’Italia, osteggiandola e percependola come distante e utopica, senza prendervi parte, è chiaro come in tutto questo si possa intravedere una sorta di giustificazione al disinteresse dell’attuale popolazione italiana nei riguardi della suddetta Unità, una specie di linea di continuità che porta la gente a considerare il Risorgimento come un banale intervallo di tempo relativamente breve gestito dalle persone che avevano in mano le leve del potere, figure lontane e irraggiungibili che, un po’ come i politici di oggi, scelsero che cosa fosse meglio per la popolazione e decisero di conseguenza, senza essere concretamente appoggiati dalle braccia delle masse e dal loro pensiero perlopiù rimasto a giacere nell’ombra.
Ecco che lo sfaldamento dell’idea di Risorgimento come rivoluzione del popolo volta al raggiungimento dell’identità unitaria nazionale, seguito dal rafforzamento dell’immagine dell’Unità d’Italia come quella di un processo gestito da personaggi influenti in possesso delle redini dell’autorità, spiega in un certo qual modo il distacco che parte della popolazione italiana di oggi avverte nei confronti di tale importante evento.
Ed eccoci qua, in un’Italia dilaniata dalle dispute. Uno dei maggiori problemi della nostra società, di questo bisogna prendere atto, è che ogni singolo avvenimento, ogni oggetto, ogni parola, ogni espressione, persino ogni colore viene immediatamente classificato ed etichettato sotto un’ideologia politica. Così non si può che continuare a sprofondare in un incessante battibecco e scambio di battute tra destra e sinistra, con il rischio di rimanere ciechi di fronte alle realtà del mondo che ci circonda, di restarcene impassibili anche quando la gente muore per difendere gli ideali di tutta una vita. Per questo non riusciamo più ad apprezzare pienamente il significato dell’Unità d’Italia, che va al di là di chi l’ha ideata, di chi l’ha costruita, di chi ha combattuto per essa e di chi ha lottato contro di essa, di chi è rimasto indifferente e di chi invece ha messo in gioco tutto, fino all’ultima goccia del proprio sangue, pur di vederla realizzata.
Qual è il pericolo più grande nel quale incorriamo, insistendo su questo egoistico comportamento della nostra società? Be’, non è necessario andare tanto lontani per comprenderlo. Basta prendere in mano un libro di uno scrittore italiano contemporaneo e sfogliarne le pagine per farsi un’idea di quello che sta succedendo. Giusto per fare un esempio – ma se ne potrebbero addurre molti altri, in presenza di maggiore spazio – prendiamo in considerazione il romanzo Appunti di un venditore di donne, scritto da Giorgio Faletti e pubblicato da Baldini Castoldi Dalai nel 2010, appena un anno fa, testo che di primo acchito potrebbe sembrare del tutto estraneo a tali questioni, ma che in realtà trova una sua perfetta collocazione all’interno di questo ragionamento. Ecco una riflessione del protagonista, tratta dall’epilogo: «A volte ho l’impressione che se prendessero i giornali di dieci anni fa e cambiassero i nomi, potrebbero essere pubblicati gli stessi articoli. La politica litigiosa, il Sud che non decolla, la classe operaia che non è in Paradiso.» Credo che queste poche righe rendano bene l’idea di quanto questa stremante faida politica stia portando esclusivamente ad uno stratificarsi di problemi l’uno sopra l’altro, problemi come quello dell’arretratezza economica del Sud rispetto al Nord che ci sono ormai da sempre e che sono perdurati al punto tale da divenire all’apparenza irrisolvibili. A questo ci condurrà il nostro continuo nasconderci dietro le ideologie politiche: ad un non-progresso che potrebbe rivelarsi ben presto fatale.
Che cosa significa tutto ciò? Significa semplicemente che l’Unità d’Italia appare malvissuta perché la gente non fa che rinchiudere i propri pensieri in compartimenti stagni sigillati con insegne politiche o ideologiche che impediscono di aprire gli occhi sull’effettiva rilevanza degli eventi del Risorgimento per la nostra attuale esistenza. Se non ci fosse stata l’Unità d’Italia noi ora saremmo comunque qui, questo è vero, ma che lingua parleremmo? Verso quale bandiera dovremmo levare il capo? Quale inno intoneremmo?
L’Italia è dilaniata perché il popolo italiano, con la sua mal coscienza, ha deciso di non dare agli avvenimenti del Risorgimento l’importanza che meritano. Di qualsiasi natura siano stati gli errori, qualunque difficoltà si sia presentata, noi oggi siamo qui, e lo dobbiamo soltanto agli uomini che combatterono per la libertà della nostra Italia. Anche a questo serve la celebrazione del centocinquantesimo: a ricordare, perché solamente ricordando si riportano in vita i veri ideali che hanno reso possibile tutto ciò che ci sta attorno.
E per quanto riguarda le immense differenze tra Italia settentrionale e Italia meridionale? La verità è che ai due poli della penisola esistono mentalità e culture profondamente differenti e che tale discrepanza non è da imputare agli Italiani di oggi, semplici portatori di tradizioni e conseguenze derivate da secoli di effettiva separazione fisica e giurisdizionale, bensì all’incalcolabile numero di fattori, in primo luogo storici e geografici, che sono da sempre stati causa di disuguaglianza e continuano tuttora ad esserlo, nonostante si cerchi con ogni mezzo di abbatterli o di limitarne gli effetti.
Ne consegue che ci vorrà ancora del tempo prima che l’Italia intera sia del tutto unificata dal punto di vista culturale, ma questo non preclude il senso di appartenenza ad un unico popolo e ad un’unica nazione che, nonostante i numerosi dissensi, al giorno d’oggi si riesce a respirare nell’aria mescolato ad una certa eccitazione per la commemorazione di questo evento avvenuto centocinquant’anni fa. Questa piacevole sensazione di essere galvanizzati è probabilmente molto simile a quella che provarono i patrioti che operarono, durante il Risorgimento, per l’affermazione del Regno unitario, il che ci rende incredibilmente vicini a loro, legati da un filo invisibile ma indissolubile che parte dai loro cuori e prosegue con i nostri, indicandoci come reali continuatori del lavoro di uniformazione che loro avviarono.
Il processo di unificazione dell’Italia, dunque, è ancora in corso dopo un secolo e mezzo. Da sempre, anche in seguito al 17 marzo 1861, migliaia di persone hanno contribuito a quest’opera, dedicandovi l’anima e l’esistenza. Adesso tocca a noi portare avanti il loro lavoro, facendo sì che le loro fatiche non siano state vane. C’è bisogno di ciascuno di noi per continuare questo percorso costruito nell’identità nazionale. Da Nord a Sud, tutti dobbiamo accorrere e incontrarci per aiutare l’Italia a completare, pezzo dopo pezzo, la propria Unità.

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