mercoledì 24 agosto 2011

Sull'Orlo dell'Ignoto - Parte I

Una nuova alba, con i suoi caldi colori pastello che lentamente andavano a ridipingere un mondo rimasto buio per diverse ore, fece capolino all’orizzonte, scagliando un nugolo di sprazzi di luce contro la città sonnolenta e intorpidita, ridestandola a poco a poco, fugando senza fretta le tenebre che ancora pigramente l’avviluppavano. L’oscurità strisciò via languidamente, cedendo il proprio regno al sole appena nato, e di colpo, riacquistando le tipiche tonalità di ogni giorno, tutto ciò che faceva parte di quella piccola realtà urbana parve riprendere vita.
Stefano uscì di casa proprio quando i primi raggi di sole stavano principiando ad emergere dall’oceano di ombre che li occultava, gettando attorno a lui un mare di sfumature familiari e rassicuranti – come, in un certo senso, se la luce stesse ricreando dal nulla quella medesima realtà che c’era stata fino alla sera precedente, prima che la notte con le sue striature cupe espugnasse la volta celeste. Abbozzò un mezzo sorriso. Sarebbe stata una bella giornata, a giudicare da quell’alba così mite e variopinta. Ci voleva proprio, dopo la pioggia dell’ultima settimana, rifletté con un pizzico di disappunto. Almeno quella sensazione di inspiegabile spossatezza che l’aveva accompagnato negli ultimi giorni se ne sarebbe finalmente andata.
Abbrancò le chiavi della macchina, dopo una lunga e tentennante spedizione di ricerca all’interno delle tasche del suo cappotto – dove potevano essersi cacciate quelle chiavi, le teneva sempre in tasca, possibile che se le fosse dimenticate da qualche altra parte? La sua auto era parcheggiata nel vialetto laterale, che si srotolava fino al portone del garage. Come di consueto, la scorsa sera aveva scordato di portarla dentro. Sghignazzò tra sé e sé. Le sue solite dimenticanze, si disse. Era impossibile ricordare tutto quanto, con un ritmo di vita così frenetico.
Salì in macchina e richiuse la portiera, quindi inserì la chiave nell’apposita fessura accanto al volante e la girò. Il motore risuscitò di colpo, senza la minima esitazione, dapprima borbottando sommessamente qualche frase sconnessa, immediatamente dopo ruggendo come un felino in gabbia, pronto a correre a perdifiato lungo quei tappeti d’asfalto che erano stati distesi sull’intera superficie della città apposta per lui.
Fece retromarcia e si immise apaticamente all’interno delle strisce bianche sbiadite che delineavano la carreggiata, quella stessa via che percorreva ogni santo giorno per andare al lavoro. La monotonia in sé non rappresentava un problema: era quella strada che non lo convinceva, quella strada che avrebbe voluto cambiare almeno nei giorni in cui il traffico denso e statico delle ore di punta non ne voleva sapere di riprendere a defluire.
Controllò che lo specchietto retrovisore fosse in ordine e lo trovò immancabilmente posto nell’angolazione sbagliata. Lo regolò, puntigliosamente, di modo da poter osservare con comodità la strada che si snodava alle proprie spalle, e soddisfatto premette delicatamente il piede sull’acceleratore, liberando quella creatura bramosa di libertà che digrignava i denti sotto il cofano. Era tempo di farsi un giretto, decretò con un sogghigno. Ne aveva abbastanza della solita solfa. Quella mattina sarebbe andato al lavoro per una strada diversa.
Al primo incrocio, invece di proseguire diritto svoltò a destra e si inoltrò in una via secondaria poco frequentata che non aveva mai esplorato prima di allora. Buffo, rifletté. Quella carreggiata era ad appena duecento metri dal suo vialetto d’ingresso, eppure non l’aveva mai attraversata. Possibile che l’ignoto si nascondesse non soltanto in quei misteri criptici e insondabili sui quali l’animo umano si interrogava da sempre, ma anche vicinissimo, a due passi da casa? A quanto pareva, era effettivamente così, e Stefano si sorprese di questa sua nuova scoperta. Nella vita, concluse, bastava svoltare a destra anziché proseguire diritti per svelare dinanzi a sé un mondo sconosciuto.
Scrutò l’orizzonte, oltre il parabrezza. Uno stormo di nubi gonfie e quiete galleggiava oziosamente sulla superficie di quell’acqua trasparente, vele riempite da un vento che cercava di spostarle con tutta la forza dei propri respiri. Più in alto, nel cielo altrimenti terso e omogeneo, altre nuvole navigavano tranquille immergendosi e affiorando dall’oceano d’aria sul quale stavano sospese, indorate dalla luce del sole nei punti in cui il chiaroscuro dell’alba non aveva loro conferito una gradazione più rosea ed esuberante.
Sì, sarebbe stata proprio una bella giornata, valutò Stefano con un sorriso pacato. Le nuvole si sarebbero disperse, dissipandosi a mano a mano che la brezza le avrebbe trascinate via con sé, e l’orizzonte sarebbe rimasto limpido e sgombro, con quell’aspetto incorruttibile che soltanto nelle mattinate più serene ci si poteva gustare appieno.
Accelerò pian piano, raggiungendo una velocità più apprezzabile, e al primo bivio che incontrò sterzò lievemente a sinistra, facendo mollemente ritorno alla solita strada che percorreva ogni mattina per andare al lavoro – la solita, vecchia strada, quella più solida e sicura, l’unica che conoscesse veramente bene e che fosse certo potesse portarlo a destinazione. Fine dei giochi, purtroppo. Era stato bello finché era durato. Adesso era tempo di rientrare nei binari e riprendere in mano il filo che lasciava inalterata la salda ripetitività della sua esistenza.
Ogni uomo, ragionò, seduto dietro il volante di un’auto, era per natura portato a chiedersi dove finisse la strada che stava percorrendo, e anche se prima o poi avrebbe svoltato e non lo avrebbe mai potuto scoprire, questa domanda lo avrebbe assillato fino a condurlo in un’altra strada pronta a far sorgere in lui lo stesso quesito.
Sospirò, dedicando un ultimo pensiero alla via che si era lasciato alle spalle – quella via nuova, sconosciuta, che lo aveva portato fin lì, e che per qualche brandello di istante gli aveva permesso di intessere una piccola e intima ragnatela di sogni attorno ad un desiderio di libertà che qualche volta si faceva sentire, rodendogli l’animo come un tarlo. Un ultimo sguardo della mente a quella minuscola sbavatura di inchiostro che per un attimo era scaturita dal lineare tratto tracciato giorno dopo giorno dalla penna della sua vita, e poi ritornò a tuffarsi nella piatta invariabilità che la sua esistenza aveva predisposto per lui.
Parcheggiò, controllando che l’auto fosse perfettamente all’interno delle quattro linee bianche del suo posteggio abituale, e scese adagio dalla vettura, tirandosi dietro le chiavi e facendole scomparire nelle fosche e insondabili asperità della tasca destra del suo cappotto.
L’imponente edificio che lo sovrastava sembrò squadrarlo da capo a piedi con un cipiglio inflessibile e tetro, come per penetrare i suoi pensieri e farli propri, ma una volta esaurita quella sensazione di un esame attento e minuzioso riassunse subito l’aspetto impersonale e flemmatico che il suo grigiore uniforme trasmetteva a chiunque lo guardasse.
Stefano si avviò su per la corta scalinata antistante la costruzione, salendo fiaccamente un gradino alla volta con fare stanco e annoiato. Il breve interludio durante il viaggio di andata di quella mattina gli aveva versato dentro una bollente percezione di piacevole novità, ma, ora che gli ultimi rimasugli di quel sentore si erano consumati, il ritorno alla tediosità del suo ufficio appariva arduo – quasi doloroso, addirittura, si corresse con una punta di amarezza.
Scrutò la massiccia facciata dello stabile, prima di scomparire oltre le porte girevoli dell’entrata, e sogguardò rapidamente le file interminabili di finestrelle che si affacciavano verso l’esterno, ognuna corrispondente ad un differente ufficio del fabbricato – alcune emanavano già il flebile alone della luce al neon accesa, ma erano poche; per la maggior parte apparivano come fredde orbite vuote infossate in un gelido volto vacuo.
Oltrepassò la porta girevole e l’atrio senza fiatare, a testa bassa. Una segretaria, seduta dietro il bancone addossato alla parete in fondo, gli lanciò una momentanea occhiata disinteressata, ritornando a concentrarsi immediatamente dopo sullo schermo del suo computer dove era in atto una complessa e delicata partita a carte.
Imboccò la lunga gradinata di pietra che saliva verso i piani superiori. Preferiva di gran lunga farsi quattro passi, piuttosto che salire negli ascensori. Quei marchingegni infernali, a suo avviso, erano stati escogitati appositamente per mettere a disagio le persone come lui: gli abitacoli stretti, colmi di persone schiacciate l’una contro l’altra i cui diversi odori si mescolavano in cocktail aspri e per nulla gradevoli, gli procuravano sempre un indomabile senso di claustrofobia che finiva per accompagnarlo durante il resto della giornata.
Raggiunse finalmente il dodicesimo piano, il cuore che batteva leggermente più forte di quando aveva cominciato ad inerpicarsi su per quella tortuosa salita e il respiro lievemente accorciato. La porta del suo ufficio era l’ultima in fondo a destra, e quando l’ebbe richiusa alle proprie spalle, appoggiandovisi completamente contro con la schiena, poté tirare un sospiro di sollievo. Anche per quella mattina ce l’aveva fatta, mormorò a se stesso, sottovoce. Era dentro ed era al sicuro. Staccò la mano dal pomello di finto ottone e timbrò il cartellino facendolo scorrere sulla minuscola macchinetta posta accanto all’ingresso, incassata nella parete – era bello che ogni ufficio avesse la sua macchinetta per timbrare il cartellino, pensò mentre convalidava il suo orario d’entrata, così nessuno poteva farsi gli affari degli altri.
Si riassettò la piega del colletto della camicia che indossava e cerimoniosamente prese posto sulla poltrona accostata al ripiano della sua scrivania. Prese in mano un pacchetto di fogli stampati fresco di quella mattina – c’era un bigliettino, sopra, sul quale la calligrafia sottile e slanciata di Maria, la segretaria del dodicesimo piano, aveva scarabocchiato la data odierna accanto alla dicitura “AUTOGRAFO”, segno che quelle carte attendevano soltanto una sua firma per essere successivamente inoltrate ai vari destinatari.
Sbuffò impercettibilmente, raccogliendo una penna dal primo cassetto e mettendosi a siglare il pacco di documenti senza nemmeno prendersi la briga di leggerli. Si occupava di autorizzazioni edilizie, e tutto quello che doveva fare era semplicemente prendere in mano quei fogli già controllati e ricontrollati dagli altri uffici e dare la sua approvazione. Solitamente ne verificava un paio a campione, ma quel giorno non se la sentiva. C’era un sole troppo bello, fuori, per trascorrere le ore a leggiucchiare una sfilza di dati e numeri che gli sarebbero comunque apparsi incomprensibili. D’altro canto, era sempre già tutto in ordine.
Si concesse qualche minuto per guardare fuori dalla finestra, tra una decina di firme e l’altra. Da lì sopra non c’era alcun edificio ad oscurare la vista del cielo, ma quel piccolo scorcio che poteva intravedere non era altro che un minuscolo quaderno ritagliato sulla parete, troppo stretto per lasciare intuire più di un insignificante frammento di orizzonte.
«Pazienza» borbottò Stefano a bassa voce, parlando con quelle pareti perfettamente bianche che disegnavano attorno a lui uno spazio poco più ampio di quello che si poteva trovare all’interno di un comunissimo ascensore. Non era il massimo, lavorare in un ufficio come quello, né tantomeno lo stipendio si presentava molto appetitoso, ma a conti fatti era sempre meglio di niente. Riteneva che, in un tempo di profonda crisi come quello che stavano attraversando, tenersi stretto il proprio lavoro, per quanto modesto, fosse la cosa più saggia in assoluto.
La mattina scivolò via leggera, esaurendosi in una valanga di inezie, sciogliendosi come un cono gelato dimenticato in una spiaggia sotto il ridente sole d’agosto, e ben presto l’orologio che Stefano aveva fissato alla parete del suo ufficio la mattina del suo secondo giorno di lavoro segnò l’ora della pausa pranzo.
Si alzò dalla sua poltrona, lievemente indolenzito. La gamba destra gli si era informicolata. Fu costretto a girare attorno alla scrivania una mezza dozzina di volte prima che cominciasse a risvegliarsi da quell’improvviso torpore. Timbrò, uscì dall’ufficio strascicandosi dietro la porta cigolante – domani doveva ricordarsi di portare da casa dell’olio per lubrificare un pochino i cardini, perché quello stridio gli dava parecchio sui nervi – e si bloccò di scatto, quasi trasalendo, di fronte alla figura bassa e tarchiata di Maria – l’esatto opposto di come si presentava la sua calligrafia, si rese conto Stefano per la prima volta – che lo osservava da sotto il contorno di un paio di vecchi occhiali dalla montatura spessa.
«Buongiorno Maria» la salutò un po’ impacciato, cercando di mostrarsi cortese per non darle ad intendere che lo aveva spaventato. Lei bofonchiò qualcosa di rimando, studiandolo con aria torva, quindi gli ficcò in mano una carta piegata e stropicciata e fece retromarcia senza aggiungere altro, scomparendo al di là di una delle innumerevoli anse del corridoio.
Stefano sogguardò con un briciolo di impazienza il foglio che la segretaria del piano gli aveva consegnato. Recava il timbro del direttore dello stabilimento, e la data di quel giorno. La aprì, fermo in piedi sul tappeto sporco di polvere di quel corridoio deserto, alla tremula luce di alcune lampadine malferme, e l’ansia crebbe dentro di lui a mano a mano che scendeva di riga in riga, maturando nello stomaco e irradiandosi adagio per tutto il suo corpo pietrificato.
Quando ebbe finito di leggere, una garza di sudore gli inumidiva la fronte. I suoi occhi, annebbiati da una miriade di pensieri contrastanti, ripresero a mettere a fuoco dopo parecchi secondi, facendogli realizzare di essere immobile di fronte alla porta serrata del suo piccolo ufficio.
Il capo lo voleva vedere. Era questo il sunto di quel messaggio che ancora reggeva fra le dita malferme, costituito da ben sei righe di inutili formalità battute a macchina direttamente dalle mani con le unghie smaltate della segretaria della direzione. L’incontro era stato fissato per quella mattina stessa. “Nel primo momento utile a lei più gradito”, c’era scritto, e questo stava a significare semplicemente “adesso”. In mezzo alla marea di inquietudine che lentamente era salita fino a lambire il suo collo, lasciandogli a malapena quei pochi centimetri che ancora gli servivano per respirare, incoerentemente pensò che gli sarebbe piaciuto molto di più se la segretaria della direzione gli avesse scritto “adesso”, invece di riportare tutto quel pleonastico giro di parole – ma d’altronde non era mica stata lei a decidere che cosa scrivergli, giusto?
Inghiottì a vuoto, annaspando alla ricerca di aria. Ritornò all’interno del suo ufficio e, lentamente, riprese posto sulla sua poltrona dietro la scrivania, aprendo leggermente la finestra per far circolare un po’ di ossigeno. Aveva bisogno di schiarirsi le idee, prima di andare nell’ufficio della direzione. L’ultima cosa che voleva era presentarsi con quell’agitazione addosso. Il capo fiutava la paura a chilometri di distanza, peggio di un segugio, e quando la riconosceva sapeva sempre in che modo sfruttarla.
Si tranquillizzò, ripetendosi mentalmente che voleva vederlo soltanto per qualche cosuccia da niente. Di sicuro non per rimproverarlo, si convinse: il suo lavoro era ineccepibile, la sua puntualità impeccabile, e non era sua abitudine lasciare delle cose a metà prima di timbrare il cartellino per ritornarsene a casa. Riuscì infine a placare le proprie preoccupazioni. Il suo volto si distese in un’espressione più serena, dopo quel rapido esame di coscienza, quindi si avviò verso gli uffici della direzione in tutta calma.
Bussò, stupendosi del rumore secco e risoluto che le nocche della sua mano produssero a contatto con quel legno levigato e lucidato di recente. Un blando ticchettio di tasti si irraggiava dall’interno infiltrandosi attraverso la serratura, ma si interruppe di scatto non appena Stefano ebbe picchiettato contro l’uscio. Un istante dopo, una fessura appena accennata si spalancò e lo ingurgitò, richiudendosi alle sue spalle come se la porta fosse stata trascinata dai suoi stessi passi frettolosi.
Riconobbe Amanda, la segretaria della direzione, ed ebbe appena il tempo di notare con la coda dell’occhio che aveva effettivamente le unghie laccate di nuovo prima di essere catapultato all’interno dell’ampio e areato ufficio del direttore dell’azienda.
Lì dentro, constatò Stefano con una fuggevole occhiata d’insieme, i vetri erano stati lustrati e le pareti dipinte di una tinta gialla stranamente rilassante. La scrivania, interamente sgombra eccezion fatta per un telefono, un computer e una stampante in funzione, piazzata accanto alla parete contrapposta all’entrata, si trovava in perfetta sintonia con l’ambiente, come se fosse sempre appartenuta a quella stanza dal ricco pavimento in parquet.
«Entra, entra pure…» gli fece segno di accomodarsi il direttore con fare sbrigativo. Stefano prese posto, salutandolo con un ossequioso cenno del capo, sulla seggiola collocata di fronte alla scrivania, e rimase zitto in attesa di udire il motivo per il quale era stato convocato, l’ansia che montava a più riprese cercando invano di conquistare totalmente i suoi sensi.
L’uomo cominciò a parlare, esordendo con un compunto invito a non considerare assolutamente ciò che sarebbe seguito come qualcosa di personale. Quindi, finché le parole zampillavano da sotto i suoi corti baffi ben curati, il viso di Stefano sbiancò di pari passo.

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