sabato 20 agosto 2011

La Tortura dei Ricordi

Con un leggero scatto metallico tolse la sicura. Il sudore gli colava sulla fronte e lungo le guance, gli impregnava i capelli, gli penetrava nelle narici. Arricciò il naso e raddrizzò la schiena contro il pezzo di lamiera alle sue spalle. Fissò per qualche istante l’arma che teneva in mano, lasciando scivolare via ogni pensiero e preoccupazione e sentendo di poter finalmente decidere il proprio destino: morire lì, quel giorno, lontano da tutto e da tutti, lontano dalle persone che amava, lontano dalla sua casa, lontano dai ricordi che tormentavano le sue notti e popolavano i suoi incubi, lontano da tutto ciò che poteva, ancora una volta, farlo soffrire.
Perché Dio gli aveva riservato una sorte così tragica? Era già stato scritto, prima ancora che nascesse, che sarebbe morto lì, così, quel giorno? O era stato il misterioso e apparentemente inesorabile Fato che lo aveva condotto tra quelle macerie per indurlo a farla finita una volta per tutte? Domande alle quali non avrebbe mai saputo dare una risposta. Si convinse perciò che una risposta era del tutto inutile, perché quelli erano i suoi ultimi istanti di vita sulla Terra.
Una goccia di sudore rotolò lungo la palpebra ed entrò nell’occhio sinistro, che subito iniziò a bruciare. Era davvero destino che finisse in quel modo? Perché Dio aveva deciso di punirlo portandogli via la donna che amava e inducendolo così a togliersi la vita? Che cosa aveva fatto per meritarsi una simile triste, solitaria e insensata morte? Quali errori aveva commesso nel corso della sua miserabile, insignificante esistenza?
Portò una mano al collo. Sentì che la tuta mimetica che stava indossando era bagnata, zuppa di sudore. Raggiunse con le punte delle dita la catenina d’oro che pendeva all’interno della divisa, a contatto con la pelle, la sfilò e si mise ad osservarla: la catenella terminava in un ciondolo, anch’esso d’oro, sul quale era custodita la foto di una splendida ragazza, bionda, con gli occhi azzurri e la pelle liscia e candida, vellutata, le guance rosee, il naso piccolo, le labbra rosse ben disegnate. La giovane nella fotografia sorrideva con uno sguardo sereno e dolce, da innamorata. L’uomo seduto nella polvere sorrise a sua volta all’immagine dell’amata. Lasciò cadere a terra la pistola e con la mano ora libera carezzò la fotografia in corrispondenza della guancia sinistra della fidanzata. Dopodiché posò a terra il pendaglio, esattamente di fronte a sé per poter avere negli occhi come ultima immagine, prima di morire, il volto sorridente di colei che era stata tutta la sua vita. Infine afferrò nuovamente la pistola. Fu difficile separare lo sguardo da quello intenso della ragazza nella fotografia, ma alla fine riprese a fissare l’arma che stava impugnando. Tra le mani, il ferro nero pareva gelido. Quell’arma sarebbe stata la sua liberatrice. A ben pensarci, l’idea gli raggelava il sangue nelle vene. Stava affidando la propria vita alla stretta e buia fessura della canna di una nove millimetri lucidata con cura, un oggetto estraneo alle emozioni contrastanti che lo attanagliavano, impersonale e anonimo, quasi brutale e feroce nel suo cupo metallo lustro senza anima. Controllò di aver tolto la sicura, poi estrasse il caricatore e constatò di aver inserito una pallottola. Rimise su il caricatore e per alcuni interminabili secondi osservò lo squarcio di cielo azzurro limpido visibile dal soffitto in parte crollato dell’edificio nel quale si trovava, poi caricò l’arma spostando lentamente indietro il carrello di armamento, il quale ritornò subito al proprio posto con un altro scatto metallico. Ora il colpo era in canna. Controllò per la terza volta che la sicura fosse stata rimossa, poi con cautela sollevò la pistola all’altezza della testa.
Maledì la guerra, maledì il mondo, maledì coloro che avevano ucciso la donna che amava. Sapeva che non avrebbe avuto l’accesso al paradiso: un suicida può solo finire all’inferno, da quello che i pochi sacerdoti cristiani incontrati in passato gli avevano spiegato. Rimpianse il fatto che non avrebbe potuto ricongiungersi con lei, che senz’altro doveva essere in paradiso, ma non riusciva più a sopportare la vita che stava conducendo.
Tornò a posare lo sguardo sulla fotografia della ragazza che aveva amato così ardentemente da scivolare in un dolore senza pari una volta perduta. Erano passati già due anni ormai da quel fosco pomeriggio d’agosto nel quale era stata scaraventata bruscamente fuori dalla sua esistenza, eppure vederla in quell’immagine protetta da un sottile strato di vetro limpido evocava nella sua mente il suo profumo, la sua morbidezza, il suo calore, la sua dolce voce, il sapore dei suoi baci. Si sentiva come se fosse già morto, costantemente preda di un’angoscia benintenzionata a condurlo a rilento verso la pazzia. Non ne poteva più di soffrire, di vederla sorridergli mentre sognava e poi di risvegliarsi e scoprire che non si trovava accanto a lui, che era morta e che non l’avrebbe mai più rivista, mai più riabbracciata, mai più avuta al suo fianco. Quei pensieri erano per lui una tortura senza fine e priva di limiti, immensa quanto l’amore che aveva provato e che tuttora provava per lei, per quella splendida, dolce creatura dallo sguardo angelico.
Un’unica immagine lo perseguitava e lo straziava nel più profondo dell’animo ogni notte da due anni: il deserto, il sole che batteva, la sabbia e la polvere che li circondava, lui abbracciato a lei, lei che sorrideva con il suo dolcissimo viso candido, i dodici uomini armati che si avvicinavano per uccidere entrambi. Aveva tentato invano di fermarli, ma si era ritrovato con tre pallottole nel corpo. Nonostante lo stato di parziale incoscienza, era riuscito a vedere mentre le sparavano, aveva osservato il suo corpo d’angelo cadere ed accasciarsi a terra, mentre gli assassini fuggivano perché accortisi dei soccorsi in arrivo. Si erano guardati negli occhi un’ultima volta, un ultimo, profondo sguardo d’amore, dopodiché lei aveva chiuso le palpebre per sempre. Era riuscito a gridare, sebbene si trovasse in un pessimo stato e avesse già perduto una gran quantità di sangue. Infine, sentendo le forze scivolare via pigramente, aveva perso i sensi.
Ogni singola, maledetta notte sognava quel pomeriggio d’agosto, ogni singola, maledetta notte tentava di fermarli e di salvare la sua amata, ogni singola, maledetta notte falliva e la vedeva morire sotto i suoi occhi, incapace di muoversi, schiacciato contro il suolo sabbioso da tre pesantissime pallottole conficcate nel proprio corpo. Ogni singola, maledetta notte si svegliava urlando, ricoperto di sudore, ansimante, conquistato ancora una volta dal dolore e dall’incolmabile sofferenza che sembrava possedere il suo cuore e tenerlo stretto in pugno.
Il sudore colava sempre più in fretta. I suoi occhi erano immobili, persi nel vuoto, la sua mente già vagava per i meandri dell’inferno. Udiva il proprio respiro come il soffuso battito d’ali di una farfalla. Abbassò l’arma e tornò ad impugnarla con entrambe le mani. Sentiva la necessità di un ultimo esame di coscienza.
Io sono il Signore Dio Tuo, non avrai altro Dio al di fuori di Me. Per il primo comandamento si rese conto di essere a posto. Non nominava il nome di Dio invano, ricordava di santificare le feste, aveva onorato il padre e la madre per il breve lasso di tempo in cui era potuto vivere con loro. Non uccidere. A questo si bloccò. Se avesse dovuto dire una preghiera per ogni uomo ucciso, avrebbe potuto premere il grilletto soltanto il giorno seguente. Passò oltre. Non commetteva atti impuri, ma aveva rubato più volte nel corso degli ultimi anni, sebbene spinto dalla necessità. Si pentì di entrambi i comandamenti infranti finora. Non dire falsa testimonianza. In quel periodo era una cosa del tutto impossibile, ma non cercò giustificazioni e domandò scusa al Signore. Non desiderare la donna d’altri, non desiderare la roba d’altri. Chiese perdono per l’ultimo di questi due. Dopodiché riportò la pistola all’altezza del capo.
Mentre il sudore scorreva su tutto il volto, posò l’apertura della canna della sua nove millimetri sulla tempia destra, impugnando l’arma soltanto con una mano. Il ferro era freddo a contatto con la pelle, molto freddo. Inghiottì a vuoto e fece un bel respiro. Udiva rimbombare nella testa i battiti del proprio cuore come fossero rintocchi regolari di un orologio che scandiva i suoi ultimi secondi di esistenza. Era giunto il momento. Chiuse gli occhi azzurri e iniziò a fare un po’ di pressione sul grilletto, poi prese a premerlo con sempre maggiore forza finché un botto e un odore da bruciato non gli invasero i timpani e le narici.
Una sensazione di palpabile terrore lo pervase e si impadronì del suo corpo. La sua anima e la sua mente erano paralizzate da invisibili catene di ghiaccio e scisse da affilate lame di dolore e disperazione. Percepì un’intensa ondata di rimpianto, condita da un grigio senso di smarrimento e vertigini. Un sapore amaro dominava all’interno della sua bocca, come se fosse appena stato costretto con la forza a mandare giù una medicina orribilmente aspra. Un’infinita sofferenza si insinuò nelle sue vene, si mescolò al suo sangue ed iniziò a scorrere all’interno dell’apparato circolatorio, come una sostanza appena iniettata e messa in circolo nel suo organismo da un sadico dottore tramite l’utilizzo di una dolorosissima siringa dalla punta troppo spessa e affilata. Il silenzio che lo circondava si faceva sempre più assordante.
D’un tratto, tutte le sensazioni che si combinavano all’interno del suo cervello si affievolirono e la testa divenne stranamente leggera e libera, come se il suo intero corpo si stesse librando a qualche centimetro dal pavimento di terra battuta e si stesse facendo cullare da una brezza di vento che in realtà non c’era.
Era morto? Ci era riuscito? Era già all’inferno ora?
Non sentiva nulla di diverso fisicamente, come se il colpo non gli avesse perforato il cranio. Ci si sentiva così allora quando si moriva? Era così indolore che non ci si accorgeva nemmeno di essere passati dalla vita alla morte?
Decise di scoprire come era l’inferno: dischiuse adagio le palpebre, aspettandosi di trovare di fronte a sé una distesa di fuoco e fiamme, pronto a conversare a tu per tu con creature demoniache fatte di ombra e nebbia. Invece, con sua delusione, scoprì di essere ancora dov’era prima di premere il grilletto, seduto nella stessa posizione con la schiena appoggiata alla lamiera. Allontanò delicatamente la pistola dalla propria tempia e la guardò con aria di disgusto. Possibile che si fosse rotta? Sfilò il caricatore: vuoto. Il colpo era ancora in canna? Tirò indietro il carrello, ma invece di veder uscire la pallottola, scorse soltanto della polvere scivolare fuori e andare silenziosamente a mescolarsi con l’aria calda e stantia che lo abbracciava. Ne afferrò alcuni granelli per annusarla: sabbia. Che fine aveva fatto il proiettile?
Si alzò portandosi una mano alla parte laterale della fronte. Non c’erano ferite. Possibile fosse stato un sogno? Oppure era morto e non se ne rendeva conto? Vide la catenina d’oro a terra, scrutò il volto dell’amore della sua intera vita e arrivò ad una conclusione: non era ancora giunto il momento di uscire di scena.
Si portò fuori da quel cumulo di macerie. Edifici crollati e pezzi di lamiera qua e là aprivano un panorama di totale devastazione in cui l’unica cosa che si distingueva a perdita d’occhio era una distesa di costruzioni in rovina e auto distrutte su cui cresceva il muschio. Pensò quindi che era già dove si aspettava di trovarsi: si trovava già all’inferno, perché esso si era stabilito sulla superficie del pianeta invece che nelle sue oscure e lugubremente spaventose sinuosità sotterranee. Respirando affannosamente l’aria afosa di quel luogo guardò in direzione di un cartello arrugginito accanto alla carreggiata annientata e spaccata che attraversava quella città martoriata: l’indicazione stradale recava, con una scritta cupa, sbiadita e poco leggibile, un unico nome sopravvissuto alla storia per secoli, il nome della gloriosa e antica città ora caduta in rovina che si offriva ai suoi occhi: “PARIS”.
Si rimise al collo il ciondolo con la fotografia della sua amata. Rivedendo ancora una volta il suo sorriso, gli saettò nella mente una frase che lei gli aveva detto pochi giorni prima di morire: “Le nostre menti sono come scrigni, perchè contengono il bene più prezioso che ci sia dato possedere: i nostri ricordi”. Una lacrima cominciò a rigargli il volto. Le promise che avrebbe custodito gelosamente i ricordi della loro vita trascorsa assieme, seppur dolorosi, nel proprio scrigno sicuro.

Nessun commento:

Posta un commento

siti