lunedì 14 novembre 2011

Le Anime di Eglon - Episodio 11 - Errore Fatale

Tom Davis faceva parte del glorioso corpo dei Marine da soli due anni, eppure ormai apparteneva a pieno diritto a quella categoria di combattenti che sapeva decisamente come cavarsela con un fucile in mano. Suo padre era stato un Marine, e anche suo nonno, prima di lui. Potrebbe apparire come la solita storiella strappalacrime da soldato americano, ma davvero la famiglia Davis aveva militato per generazioni tra le file dei Marines statunitensi. Ora per Tom trovarsi a pochi passi da casa propria, alle porte della città di Eglon dalla quale si innalzava il fumo di numerose esplosioni, era a dir poco scioccante.
Un reparto dell’Esercito degli Stati Uniti si era avvicinato ad Eglon da nord, scendendo rapidamente dalle zone di Little Rock. C’era parecchio caos nel subbuglio generale delle manifestazioni in memoria dell’undici settembre, e questo fatto di Eglon aveva lasciato tutti quanti a bocca aperta. Com’era potuto accadere? Anzi, meglio ancora: cosa stava accadendo, di preciso, dietro quella barricata di legno e facciate di edifici che era stata eretta per separare la campagna dal centro urbano?
I soldati erano stati richiamati quella mattina, e in poche ore avevano raggiunto il punto di incontro. L’azione era stata rapida e pronta, ma non c’era modo di entrare in città: quelle barriere impedivano a chiunque di passare, e abbatterle era fuori discussione. Troppi edifici civili nei dintorni, si rischiava di ammazzare qualcuno se non si prestava la massima attenzione.
Oltretutto, i tre Black Hawk mandati in ricognizione con l’incarico di lanciare alcuni uomini sulla cima della Eglon Tower per iniziare a ripulire la zona erano stati abbattuti, e i piloti e i soldati che si trovavano all’interno dovevano essere ormai andati all’altro mondo.
No, stava succedendo qualcosa di impensabile in quella comune città dell’Arkansas. E Tom Davis, nonostante reggesse con mano ferma il suo fucile d’assalto puntato in direzione della barricata di legno in lontananza, dentro di sé tremava. Perché in quel momento avrebbe dovuto assistere alla cerimonia organizzata a Little Rock in memoria delle vittime degli attacchi dell’undici settembre 2001, e invece adesso si trovava lì, a pochi passi dal luogo in cui stavano venendo presumibilmente mietute le vittime dell’undici settembre 2011, altro giorno che sarebbe inevitabilmente passato alla storia, alla stregua del suo predecessore. E la parte peggiore, in tutto questo, era che lui si sentiva assolutamente impotente di fronte a quella tremenda visione che gli agitava l’animo.
Era quasi il tramonto, e sulla destra Tom vedeva il sole calare sempre più simile ad un globo incandescente di ghiaccio infuocato. Le nuvole, ad ovest, si erano aperte per qualche minuto, ma Tom sapeva che ben presto sarebbero ritornate a coprire il cielo e l’orizzonte con il loro grigio e freddo abbraccio inestricabile.
Quella che si preparava a venire sarebbe stata una notte senza stelle. Per tutti quanti loro, e anche per i disgraziati cittadini di Eglon. Altre luci avrebbero rischiarato le strade della città durante le ore di buio, e sarebbero state quelle sprigionate dalle fiamme.
Tom Davis intravide improvvisamente qualcosa saettare sull’orizzonte. Qualcosa di nero, di indefinito, qualcosa che non avrebbe saputo descrivere neppure sotto tortura. Ma non gli ci volle molto a capire che si trattava di un colpo di mortaio, perché quando ci fu l’esplosione presso la prima linea dei soldati dell’esercito statunitense si rese conto che iniziavano a piovere razzi su di loro.

LE ANIME DI EGLON
PRIMA STAGIONE
EPISODIO 11
ERRORE FATALE

Jeremy Barton era assolutamente sicuro che avrebbero trovato parecchie difficoltà nel raggiungere il margine ovest della città. La strada si presentò invece quasi del tutto sgombra. Era incredibile il modo in cui la cittadinanza di Eglon si era asserragliata in casa, eppure non si scorgeva anima viva lungo le strade. Sembrava quasi che un’astronave aliena fosse passata nei cieli sopra il centro abitato e, alla stregua di un’immensa aspirapolvere, avesse risucchiato tutta la popolazione con il suo luminoso raggio traente.
Naturalmente Jeremy comprendeva quelle povere famiglie che si erano barricate nelle proprie abitazioni sperando che tutto finisse in fretta. Allo stesso tempo, però, si domandava come potessero resistere a quella tremenda assenza di informazioni che inevitabilmente si generava a causa di tale presa di posizione. Lui personalmente non sopportava l’idea di poter rimanere all’oscuro di tutto, ed era disposto persino a rischiare la vita pur di capire a che cosa la città stesse per andare incontro.
In fondo, poi, che cosa aveva da perdere? Un appartamento che forse domani avrebbe potuto essere fatto esplodere da quei pazzi rivoluzionari? Un’auto che ormai dava i primi segni di cedimento? Il suo posto di lavoro in quel periodo di crisi, che ormai valeva meno di uno zero da quando la polizia di Eglon era stata attaccata? Che cos’aveva da perdere ormai?
(le tombe dei miei genitori al cimitero di Eglon?)
E i suoi compagni di viaggio? Che cos’avevano da perdere Brian Jones e Patrick Wieler?
I tre camminavano in silenzio lungo una delle strade secondarie della città che correva parallelamente a Main Street in direzione ovest. Una macchina risalì la via alle loro spalle a tutta velocità, superandoli e sgommando alla curva successiva per svoltare a destra all’ultimo istante. Più avanti c’erano alcuni uomini che si spostavano frettolosamente da un marciapiede all’altro, le mani in tasca e gli sguardi bassi, veloci a scomparire nell’ombra degli edifici.
Jeremy considerò che forse i ribelli si trovavano per la maggior parte lungo i confini della città ad innalzare le barricate, per questo ne vedevano pochissimi per strada. Proprio in quel momento un anonimo furgoncino blindato nero fece il suo ingresso nella via, comparendo da uno svincolo secondario, e per poco non li investì, mancando il marciapiede di mezzo centimetro e rimettendosi in carreggiata a folle velocità.
«Sembra abbastanza tranquillo, qui» commentò il vicesceriffo Wieler per combattere il silenzio dei loro passi attutiti.
«Siamo in una strada poco importante, e i rivoluzionari sono impegnati a rinforzare i confini della città in attesa dell’esercito» mormorò tetramente Jeremy. Patrick aveva ragione: la situazione pareva poco allarmante, ma non potevano sapere con esattezza che cosa stesse capitando in altre parti della città.
Era ormai tardo pomeriggio, ma di tempo ce n’era ancora per far succedere qualcos’altro di orribile prima del calare delle tenebre…
«Quell’affare prende, Brian?» domandò il vicesceriffo notando che il compagno stava consultando un apparecchio che sembrava un telefonino di ultima generazione.
«Purtroppo no. Non c’è campo da nessuna parte, a quanto pare. Chissà come hanno fatto ad oscurare il segnale in tutta la città…» rifletté Brian Jones continuando a schiacciare pulsanti a casaccio.
«In qualunque modo ci siano riusciti, sono stati davvero bravi: ha funzionato alla perfezione» giudicò Jeremy laconicamente, e il terzetto svoltò verso destra immettendosi in un breve tratto di parco desolato.
Il silenzio tra tutto quel verde era ancora più letale. Le altalene giacevano immobili, e le panchine spuntavano fuori qua e là dall’erba a mostrare il proprio cupo stato di abbandono. Anche gli scivoli erano vuoti, così come tutte le altre giostre. E gli alberi se ne stavano fermi, come se neppure il vento potesse più indurli a muovere i propri rami.
Che cosa sarebbe accaduto ad Eglon quando fosse arrivato l’esercito? Sarebbe scoppiata una guerra o che altro? E quale ruolo avrebbero ricoperto gli abitanti, nel caso di un conflitto armato? Tutte queste domande affollavano la testa di Jeremy senza trovare risposta. Di certo sarebbero stati tempi difficili, quelli che li aspettavano. Su questo non c’era ombra di dubbio.
Superarono il parco, quindi si immisero in un’altra via e la attraversarono, raggiungendo il margine ovest della città poco più a nord del punto in cui Main Street si lanciava nell’aperta campagna.
Da lì si poteva scorgere un tratto della barricata di legno innalzata dai rivoluzionari. Attorno era tutto un assembramento di furgoni blindati e uomini incappucciati con bandane e maschere sui volti. Dozzine e dozzine di pistole, fucili, mitragliette e mitragliatrici tenute da mani ferme e sicure. Un carro armato poco più in là, addossato alla facciata di un palazzo, che teneva il cannone sollevato verso l’alto per sparare probabilmente al di là della barriera improvvisata.
«Hanno eretto proprio una bella barricata» valutò ad alta voce il vicesceriffo Patrick Wieler, sbalordito. Tutti e tre osservavano la strada scomparire sotto quella spessa muraglia rinforzata e gli uomini affaccendati che le brulicavano attorno in cerca di munizioni e, quasi sicuramente, anche di informazioni.
«Prova a controllare se qui il cellulare prende» sussurrò Jeremy rivolgendosi a Brian. L’uomo eseguì e rispose immediatamente con un cenno negativo.
«Maledizione. Tutta la città è tagliata fuori» borbottò Jeremy seccamente.
«Questo implica una cosa, però» disse Brian in tutta tranquillità. Jeremy gli scoccò un’occhiata interrogativa. «Nemmeno loro hanno modo di tenersi in contatto da una parte all’altra della città» spiegò brevemente Brian Jones, e questa considerazione parve illuminare le espressioni altrimenti buie dei compagni.

«Sono preoccupata per mio cugino» rivelò ad un certo punto Rebecca, mentre lei e Daniel stavano percorrendo Neighbour Street in direzione di Main Street. Il ragazzo aveva proposto alla nuova amica di accompagnarlo verso il municipio per vedere se suo padre fosse lì e stesse bene, e la giovane aveva accettato perché, dopotutto, lei non conosceva Eglon e in alternativa non avrebbe saputo dove andare.
Ma anche perché in un certo senso si sentiva più sicura avendo Daniel accanto. La faceva stare tranquilla, nonostante le terribili cose che si stavano verificando attorno a loro, e questo era già molto. In una situazione talmente disperata da apparire insanabile, avere delle certezze era l’unica cosa alla quale si potesse anelare.
«Vedrai che non gli sarà successo nulla. Magari ti sta cercando anche lui» la rassicurò Daniel Green. Lui aveva altri pensieri per la testa. Stava ragionando sul fatto che aveva lasciato Betty da sola a casa sua, e che ormai buona parte della giornata se n’era andata e la sua ragazza a questo punto doveva essere come minimo spaventata a morte. Sarebbe dovuto tornare quanto prima. Ma c’erano faccende più importanti da sbrigare, al momento. Non aveva ancora scoperto dove accidenti fosse suo padre, che cosa gli fosse capitato quella notte e che cosa effettivamente sapesse riguardo la situazione nella quale erano precipitati. Avere anche solo una di queste risposte gli sarebbe stato sufficiente ma, dato che gli interrogativi rimanevano aperti, non aveva la minima intenzione di arrendersi adesso e di rifugiarsi in casa come avevano fatto quasi tutti gli altri abitanti di Eglon.
«Ho paura che non sarà semplice trovarlo…» farfugliò Rebecca fissando l’asfalto che scorreva sotto i loro passi come un fiume risalito controcorrente.
«Non sarà semplice nemmeno trovare mio padre» ribatté Daniel per mostrarle che le carte coperte erano ancora tante in quel gioco del quale non avevano ancora pienamente compreso le regole, e Rebecca si lasciò sfuggire un sospiro inquieto.
L’incrocio tra Neighbour Street e Main Street non era lontano. Da lì si scorgeva qualche pilone di fumo grigiastro sollevarsi in aria dal centro della città, e Daniel sospettava che quel fumo provenisse dalle carcasse metalliche dei tre Black Hawk dell’esercito abbattuti poche ore prima. Era incredibile il modo in cui quel sanguinoso rosario di morte si stava rapidamente snocciolando sopra la malcapitata città di Eglon nel giro di un solo giorno, eppure Daniel sapeva che era tutto vero. Essere protagonista di un evento di simili proporzioni gli aveva scaricato in corpo una quantità di adrenalina pazzesca. Soltanto grazie a questa si reggeva ancora in piedi, perché erano più di trentasei ore che non dormiva, e perdere così tante ore di sonno in emozioni a dir poco sconvolgenti avrebbe potuto sfiancare il fisico più resistente. Ma l’adrenalina si sarebbe presto esaurita, e già adesso Daniel Green cominciava a percepire un lieve, superficiale brivido di stanchezza.
«Oddio…» balbettò tutt’a un tratto Rebecca, fermandosi, portandosi una mano sulla bocca e voltandosi dall’altra parte. Daniel notò un paio di donne sgattaiolare via dall’altra parte della strada e un uomo, dalla parte opposta, passare velocemente a bordo di una motocicletta e svanire magicamente oltre l’angolo di un palazzo.
Si volse dalla parte in cui fino ad un attimo prima era puntato lo sguardo di Rebecca e si sentì chiaramente trasalire. L’asfalto della strada era tutto macchiato di sangue rappreso, sangue che pareva ruggine ma che in alcuni punti aveva ancora il suo colorito brillante e fresco, di un rosso che poteva significare soltanto una cosa: morte.
«Che cos’è?» gli chiese titubante Rebecca, senza girarsi e tenendo gli occhi saldamente serrati.
«Penso sia sangue…» rispose sottovoce Daniel. Ma non era vero che lo pensava. Lo sapeva, e la cosa era ben diversa. C’erano delle vere e proprie pozzanghere di sangue, laggiù sull’incrocio tra Neighbour Street e Main Street, e sembrava che ne fosse colato un po’ anche lungo i canali di scolo in direzione di alcuni tombini.
Che razza di massacro c’è stato, qui, stanotte?
Daniel mosse qualche altro passo in avanti ed esaminò meglio la scena. Non c’erano corpi, lì attorno, nemmeno uno. Ma c’erano parecchi bossoli, e schegge di proiettili già utilizzati. Come se ci fosse stata una sorta di riproduzione reale della Grande Guerra, con armi funzionanti e persone altrettanto vere. Era uno scenario tremendo.
«Andiamocene… ti prego…» lo supplicò Rebecca con uno sforzo.
«D’accordo…» acconsentì Daniel disorientato, e le fece segno di seguirlo imboccando un’altra strada che si dipartiva da Neighbour Street e si infilava tra i palazzi sulla destra.
«Che cosa credi sia successo, laggiù?» volle sapere Rebecca quando si furono allontanati a sufficienza. Si intuiva abbastanza facilmente che quella domanda non le era sorta molto spontanea, ma che aveva comunque combattuto contro la sua riluttanza per riuscire infine ad avere la meglio ed emergere.
«Sembrava il luogo di un’esecuzione…» biascicò incerto Daniel Green, e sulle sue parole si innestò il tuono di una nuova, lacerante esplosione.

Il vecchio Sonny Dangerwood abitava nei pressi del ponte sul fiume Arkansas, a poche centinaia di metri dal margine orientale della città di Eglon, da quando era nato, e abbandonare la sua casa non era mai rientrato tra le sue priorità. La mattina dell’undici settembre 2011, tuttavia, Sonny fu costretto a saltare fuori dalla sua abitazione malandata come se gli fosse stato acceso un intero pacchetto di fiammiferi sotto il sedere, perché una ruspa era stata lanciata a tutta velocità contro l’edificio e aveva già demolito l’ala nella quale si trovava la sua camera da letto.
Sonny uscì in vestaglia e si fiondò in strada, giusto in tempo per vedere la ruspa ritornare all’attacco e cancellare in maniera definitiva la sua veranda e parte della sua saletta da pranzo.
Imprecò sonoramente, mostrando il pugno agitato nell’aria al tizio che guidava la ruspa e, subito dopo, sollevando il dito medio della mano destra al suo indirizzo e sbattendoglielo in faccia senza tante cerimonie.
Il tipo che stava alla guida della ruspa scese dal macchinario e posò i piedi sull’erba fangosa di quello che era stato il giardino poco curato di Sonny Dangerwood negli ultimi trent’anni, ossia da quando aveva smesso di essere il giardino ancora meno curato di suo padre George Dangerwood nel momento in cui quest’ultimo aveva tirato le cuoia e se n’era andato in un posto che molti ritenevano essere “migliore”.
«Che cosa vuoi, vecchietto?» gli domandò la voce rauca e profonda dell’uomo sceso dalla ruspa, un tipo grosso quanto un armadio che indossava una felpa nera col cappuccio abbassato sulla fronte e teneva il volto nascosto dietro una maschera di silicone raffigurante un lupo mannaro dall’espressione alterata.
«Che cosa voglio? Razza di deficiente, quella che hai appena buttato giù e casa mia!» ribatté infuriato Sonny Dangerwood. Non aveva lavorato per quarant’anni giù alla vecchia fabbrica di Charlie Green per vedere i suoi sudati guadagni venire rasi al suolo dalla pala di una ruspa guidata da un tizio che credeva che Halloween fosse arrivato una volta tanto in anticipo, che diamine! Il governo gli aveva già fottuto l’ammontare di altrettanti risparmi nel corso degli anni attraverso contributi e tasse, maledizione, e adesso un colpo basso come questo proprio non se lo poteva permettere! No, non si sarebbe fatto infinocchiare un’altra volta da quei figli di puttana che anno dopo anno gli avevano levato soldi e soldi e soldi dalla busta paga, intascando il duro ricavato del suo faticosissimo lavoro! Nossignore, Sonny Dangerwood non ci stava ad abbassare il capo ancora una volta dinnanzi a quell’ennesima pugnalata al cuore.
«Con chi ti credi di parlare, nonno?» replicò l’uomo con la maschera da lupo mannaro facendosi sotto, avvicinandosi a Sonny con fare irritato e scrollando le spalle.
«Con chi ti credi di parlare tu, giovanotto? Se tutto va bene potresti essere mio figlio. E chissà che una volta non conoscessi tua madre, ragazzino… Potresti essere un Dangerwood senza nemmeno saperlo!» lo sfidò apertamente Sonny, senza peli sulla lingua.
«Attento a come parli. Farò finta di non aver sentito solamente perché rispetto i vecchi. Ma faresti meglio a startene zitto e a levare le tende, hai capito?» lo ammonì il terrorista esibendo l’impugnatura di una pistola che gli spuntò da sotto la felpa.
«Questa è la mia proprietà, bello, e se non levi le tende tu, sarò costretto a fartene pentire!» berciò Sonny Dangerwood, per nulla intimidito.
«Ti ho avvertito, vecchio…»
«E io ti ripeto che ci sono altissime probabilità che una buona parte del sangue che ti scorre nelle vene sia mio…» rispose freddamente Sonny. Dietro i suoi occhi luccicò una gelida scintilla di soddisfazione, che il vecchio si godette appieno. Non era lì per vedersi sottrarre da sotto gli occhi tutto ciò per cui si era dato da fare nel corso della sua vita. Di bocconi amari ne aveva dovuti ingerire parecchi, in settantaquattro anni di esistenza, e ormai a suo avviso gli rimanevano troppi pochi giorni da consumare su questa terra per consentire al mondo di infilargliene altri giù per la gola.
L’uomo con addosso la maschera di silicone da lupo mannaro tirò fuori la pistola da sotto la felpa e rimosse accuratamente la sicura, avvicinandosi di un altro paio di passi a Sonny e puntandogli l’arma dritta in mezzo agli occhi, tenendola impugnata con entrambe le mani.
«Dammi un buon motivo per il quale non dovrei spararti entro cinque secondi oppure preparati a fare un bel viaggetto nel posto più caldo che ci sia» sibilò il terrorista con assoluto controllo di sé. Non c’era emozione dietro le sue parole, non c’era esitazione nella sua voce: la sua lucidità apparve quasi meccanica, tanto che per un attimo Sonny pensò che in passato doveva avere sicuramente ucciso più di una volta.
«Se non altro, il calore del fuoco compenserà la mia pressione bassa…» commentò laconicamente Sonny Dangerwood tenendosi pronto a subire l’ultima ingiustizia della sua miserabile vita da infaticabile lavoratore.
Il rivoluzionario con la maschera da lupo mannaro spianò la sua pistola con fare automatico, come una macchina programmata per ammazzare a sangue freddo chiunque le si opponesse, e fece pressione sul grilletto senza porre ulteriore indugio, di fronte allo spasmodico luccichio dei suoi gelidi occhi spiritati a malapena intuibili oltre i bordi scuri del silicone.
Lo squarcio generato dallo sparo aprì l’aria esattamente a metà, con una tale precisione da non poter essere altro che frutto di un atto artificiale. Sonny Dangerwood barcollò nei suoi ultimi istanti di consapevolezza di sé, pensando alla sua casa, che ora giaceva a pezzi di fronte a lui, a sua moglie, che se n’era andata da un po’ per colpa di quell’ictus inaspettato, e a suo figlio, che se n’era partito dopo l’ultimo litigio alcuni anni addietro e con il quale non aveva più avuto modo di riappacificarsi. Rammentò tutte queste cose mentre il suo cuore gorgogliava le ultime sillabe insanguinate del suo triste e insignificante romanzo di battiti, dopodiché sospirò.
E si rese conto di essere ancora vivo.
Realizzò di avere gli occhi chiusi solamente quando udì un secondo sparo infrangere le barriere dell’abisso e far precipitare tutto quanto un’altra volta nella dura realtà di Eglon. Le case riapparvero sotto i suoi occhi. La sua abitazione, demolita, e la ruspa ferma sui resti della sua veranda. Il suo giardino poco curato, sul quale le suole di gomma delle sue scarpe sembravano conservare ancora una certa stabilità. E l’asfalto freddo della strada alle sue spalle, immobile e desolata sotto quel cielo rannuvolato.
Vide l’uomo con la maschera da lupo mannaro riversato a terra. La felpa gli si era macchiata di sangue in due punti, più o meno al centro del petto, e una pozza rossastra si stava a poco a poco allargando sotto il suo corpo esanime. Portava ancora la maschera sul volto e il cappuccio calato sulla testa, ma non faceva più paura. La sua pistola giaceva poco più in là, quasi accanto ad una delle grosse ruote incrostate di fango della ruspa che aveva abbattuto metà della casa di Sonny.
«Vieni, presto!» lo riscosse la voce di un uomo piovendogli addosso dalle spalle. Si sentì afferrare da una mano che gli ghermì il braccio e lo trascinò con sé verso la strada. La seguì senza indugio, mentre a mano a mano che i suoi sensi si risvegliavano iniziava a rendersi pienamente conto del guaio in cui si era appena cacciato.
«Dobbiamo sparire alla svelta!» esclamò l’uomo che correva davanti a lui tenendogli il braccio. Sonny non riusciva a vederlo bene, perché era di spalle e non si fermava un attimo. Notò la pistola che teneva in mano e valutò che doveva essere suppergiù sulla cinquantina a giudicare dai capelli brizzolati e dal profilo.
Quando ebbero superato la strada e si furono infilati tra due palazzi, Sonny aveva il fiatone e già non ce la faceva più. Tra poco sarebbe crollato, e allora nessuno lo avrebbe più potuto aiutare.
Quell’uomo con il quale stava scappando aveva appena ucciso un altro uomo alla luce del sole, eppure lui lo seguiva come se niente fosse. Anzi, si stava addirittura aggrappando alla sua presenza, quasi che temesse di ricadere indietro e di avere nuovamente paura di quel proiettile che per un soffio non gli era stato sparato in mezzo agli occhi poco più di un minuto prima.
Si fermarono in un vicolo dietro un vecchio palazzo dall’aria austera e dismessa e ripresero fiato. Finalmente Sonny poté vedere il suo salvatore in viso: aveva ragione, pareva avere all’incirca una cinquantina d’anni. Sopracciglia folte, volto squadrato, un accenno di barba che chiedeva di essere rasata. Aveva i capelli scuri scompigliati e le labbra screpolate. Sonny lo guardò mentre si affrettava a nascondere la pistola sotto la maglietta e gli rivolgeva un mezzo sorriso.
«L’hai scampata per un pelo» gli disse abbastanza tranquillamente.
«Grazie» ribatté il vecchio senza stare troppo a girarci intorno. L’uomo gli rivolse un pacato cenno d’intesa.
«La gente, qui, crede che quei bastardi abbiano già vinto in partenza. Ma io no. Mi chiamo Ben, Ben Dolovan, e sono un poliziotto» si presentò porgendogli la mano. Sonny la strinse energicamente e gli sorrise.
«Sonny Dangerwood. E così sei un poliziotto, eh? Di’ un po’, che fine avete fatto quando la città è stata presa?» s’informò, con una percettibile venatura di risentimento celata nella voce.
«Non è semplice come può apparire, Sonny. Siamo stati colti alla sprovvista. Francamente, non ho idea di che fine abbiano fatto gli altri poliziotti di Eglon. So che alcuni di loro hanno dato battaglia questa notte a Main Street, e che alla fine hanno avuto la peggio. Ho seguito una delle ambulanze che si sono recate sul posto, e devo dire che non è stato un bel vedere…»
«Li hanno fatti fuori?» volle sapere Sonny, sorpreso.
«Fatti fuori è dire poco. Li hanno annientati, quei bastardi. Li hanno circondati e li hanno stritolati, strizzandoli come spugne» farfugliò Ben guardandosi intorno. Le finestre dei palazzi circostanti erano spente e vuote, come orbite di teschi nelle quali si fossero consumati ormai da tempo i bulbi oculari.
«Che cosa possiamo fare?» mormorò Sonny con la sua voce rauca e smorzata, attutita dal respiro ancora irregolare.
«Per adesso la cosa migliore da fare è sparire dalla circolazione. Ho ammazzato uno dei loro, e presto saranno sulle mie tracce. Penso sia il caso di separarci, Sonny» propose Ben seriamente, e Sonny non se la sentì di controbattere. Non aveva una casa alla quale tornare, pensò, ma se non altro era fuori pericolo per il momento. O almeno così credeva.
«Addio» lo salutò Ben all’uscita dal vicolo, avviandosi lungo il marciapiede che portava verso il centro della città. Fu in quell’istante che l’ennesimo sparo echeggiò nell’aria di Eglon, rimbombando contro le facciate dei palazzi e producendo un rumore secco di cartone strappato.
Sonny Dangerwood si voltò giusto in tempo per vedere la figura di Ben Dolovan accasciarsi a terra in una pozzanghera di sangue fresco che sembrava succo di mirtillo. Poi notò che l’uomo era stato colpito ad una spalla e che ancora si muoveva, ma un furgone blindato nero sbucò da uno degli svincoli laterali e gli si fermò accanto, sicché Sonny si girò ancora una volta dall’altra parte e riprese a camminare con le mani affondate nelle tasche.
Il silenzio tornò a riempire Eglon.

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