lunedì 2 gennaio 2012

Le Anime di Eglon - Episodio 17 - Il Giorno Dopo

Il comandante Smith ammirava la visione cupa e densa di orrore della città di Eglon, sdraiata languidamente sotto un cielo rannuvolato in mezzo alla splendida e feroce campagna dell’Arkansas. Il silenzio era tremendamente sterile. Eppure così pieno… Le luci degli edifici si riflettevano sulle acque placide del fiume che scorreva accanto al centro abitato. La notte, in quell’insieme, dava quasi un’impressione di tregua. Ma Smith sapeva che la città stava soffrendo, ed era consapevole della propria terribile impotenza.
Sospirò, le mani affondate nelle tasche e l’espressione assorta. Stava in piedi, da solo, sulla sommità di una collinetta ai margini dell’accampamento militare. Da lì si scorgevano bene le barricate erette attorno ad Eglon e, di quando in quando, si poteva persino intuire qualche figura al di là delle finestre illuminate più vicine.
Sapere che quello che stava succedendo là dentro era fuori dal suo controllo lo faceva stare incredibilmente male. Non era facile digerire tutto questo. Non per un uomo che aveva votato la vita alla pace e alla giustizia, come lui. Eppure c’era qualcosa di marcio anche al di fuori di quelle barriere apparentemente sottili e inconsistenti. Sì, qualcosa che non gli piaceva. Non era sicuro di comprendere pienamente di che cosa si trattasse, ma ad ogni modo si sentiva certo di queste sue percezioni.
Qualcosa non quadrava. Questo, ormai, era lampante. Li stavano incastrando senza nemmeno lasciare loro il tempo di rendersene conto. Non era passata neppure una settimana e la battaglia era già in un certo senso perduta. Era come se giocassero d’anticipo su ogni loro mossa, come se… come se conoscessero i loro propositi e si affrettassero ad ostacolarli prima che fossero messi in atto.
Gli attacchi della scorsa notte avevano danneggiato alcuni edifici e raso al suolo diverse abitazioni. Il comandante Smith non osava nemmeno chiedersi quanti civili potessero essere morti. La domanda che gli martellava la testa restava una sola: chi era stato ad attaccare?
Da dove venivano quegli elicotteri, chi li aveva mandati a bombardare Eglon e perché accidenti lo aveva fatto? Questi interrogativi scaturivano immediatamente dal primo e seguitavano a tormentarlo, quasi che fosse stato loro affidato il compito di torturarlo per strappargli importanti informazioni che in realtà non possedeva affatto. E intanto dall’alto non arrivavano ordini perché il Dipartimento della Difesa era in alto mare e non sapeva che pesci pigliare. Il Presidente era teso, la situazione mediatica rischiava di esplodere da un momento all’altro. L’opinione pubblica mondiale si chiedeva come mai l’Esercito degli Stati Uniti avesse aperto il fuoco sulla città di Eglon, condannando a morte Dio solo sapeva quante decine di innocenti. L’assalto non era stato approvato, e questo significava che qualcuno aveva disobbedito agli ordini. Stando così le cose, lui era l’imputato numero uno. E se la verità non fosse venuta a galla se la sarebbero presa solo ed esclusivamente con lui per quello che era successo la scorsa notte.
«Comandante!» lo richiamò alla realtà uno dei suoi sottoposti. Il comandante Smith si voltò di scatto, colto di sorpresa, e gli scoccò un’occhiata interrogativa.
«Comandante, deve venire immediatamente!» esclamò il militare con fare concitato, tradendo una certa agitazione.
«Che cosa c’è?» domandò, avvertendo il battito cardiaco farsi più accelerato.
«Il vicecomandante Gray è tornato.»

LE ANIME DI EGLON
PRIMA STAGIONE
EPISODIO 17
IL GIORNO DOPO

Le prime luci del giorno dopo l’attacco si sparsero sulle strade di una Eglon scossa dalla disperazione. I bombardamenti della notte appena superata avevano dilaniato palazzi, mutilato vie e devastato abitazioni. Le barricate attorno alla città erano rimaste totalmente intatte. I ribelli si stavano dando da fare per aiutare le ambulanze a soccorrere i feriti, lanciando a folle velocità i loro furgoni blindati neri da un angolo all’altro del centro abitato. La gente gridava richieste di aiuto, le armi tacevano. Il silenzio di una nuova alba grigia pesava su tutta Eglon.
Il dottor Larry Mason si concesse un breve istante di respiro per guardare fuori dalla finestra del suo ufficio, accanto alla sala operatoria lorda di sangue che per tutta la notte aveva visto morire uomini e donne innocenti feriti dalle bombe.
Un attacco inaspettato, perpetrato nottetempo ai danni di una città che aveva già sofferto fin troppo. Correva voce che fosse stato l’esercito a metterlo in atto, ma ancora non si sapeva niente di assolutamente preciso. Chi lo avesse approvato restava un mistero. Le notizie non viaggiavano ad Eglon, perché i mezzi di informazione erano oscurati. Si andava avanti più che altro a voci e dicerie, per cui non vi era mai nulla di sicuro.
Nessun rivoluzionario era stato ferito, e di questo il dottor Mason fu immensamente grato alla sorte. La croce dipinta sulla facciata dell’ospedale ammiccava al suo indirizzo ogni qualvolta usciva o entrava dall’ingresso principale. Adoperava la porta sul retro per non doverla vedere, e ogni volta che non poteva fare a meno di passare davanti a quella croce si sentiva male. La minaccia dei ribelli gravava sulle sue spalle come la lama di una ghigliottina tenuta su da un pezzetto di corda sempre più sottile e sfilacciato.
Le vittime di quella notte ammontavano attualmente a quattro, ma i feriti gravi erano ancora due. Tutti gli altri pazienti si sarebbero salvati, ma era assai probabile che vi fossero altre persone intrappolate sotto le macerie delle abitazioni distrutte.
I rivoluzionari avevano abbattuto un Black Hawk prima che lo stormo di elicotteri oltrepassasse la città e scomparisse oltre le nuvole dell’orizzonte scuro della notte. Uno solo, su quella dozzina che aveva sorvolato Eglon sganciando bombe come fossero caramelle. Il pilota si era sganciato prima che il missile lanciato dalla cima della Eglon Tower lo colpisse; aveva aperto il paracadute in prossimità delle barricate ad est ed era atterrato sul tetto di una delle fabbriche chiuse della periferia, dove un manipolo di Sorveglianti lo aveva attorniato, arrestato e fatto svanire all’interno di un anonimo furgoncino blindato.
Larry Mason sapeva tutto questo perché glielo avevano raccontato alcuni suoi pazienti che avevano visto tutto mentre aspettavano che le ambulanze arrivassero. C’erano volute delle ore prima che tutti i morti e i feriti immediatamente recuperabili fossero caricati nelle ambulanze e trasportati fino all’ospedale cittadino. I dispersi erano in pochi, e pochi di loro si sarebbero salvati. Ma i sopravissuti arrivati in ospedale avevano raccontato storie da far accapponare la pelle.
Come l’Esercito e il Governo degli Stati Uniti d’America avessero potuto approvare un simile massacro di civili indifesi rimaneva un vero e proprio dilemma. Tutti, quel giorno, si ponevano questo interrogativo ad Eglon. E l’opinione pubblica globale avrebbe avuto senza ombra di dubbio molto da ridire, nelle prossime ore.
L’unico dettaglio che al dottor Mason suonava strano era il fatto che quegli elicotteri fossero riusciti non solo ad avvicinarsi alla città, ma addirittura a sorvolarla rimanendo quasi del tutto illesi. Non era normale, perché quei tre Black Hawk che all’arrivo dell’esercito avevano tentato di ispezionare la zona erano stati abbattuti dai ribelli prima ancora di riuscire a posare l’occhio su Main Street. Come mai questa volta erano stati capaci di superare la sorveglianza dei rivoluzionari? Che avessero escogitato una maniera per evitare i loro controlli? Oppure c’era qualcos’altro, sotto, che Larry Mason non riusciva a cogliere?

«Gerald! Oddio, come sono contenta di rivederti!» esclamò Cathy gettandosi al collo dell’uomo con la maschera che aveva appena oltrepassato la soglia della stanza. Il ribelle rimase un attimo interdetto, quindi rispose all’abbraccio e strinse la ragazza. «Avevo paura che fossi stato coinvolto nelle esplosioni!» svelò la giovane donna, facendo emergere tutta l’ansia che la abbrancava.
«Va tutto bene» la rassicurò l’uomo, sciogliendosi dall’abbraccio e allontanandosi di quel poco che gli consentì di guardarla negli occhi. «Ma non mi devi chiamare per nome. Te l’ho già detto. Nessuno dovrebbe sapere il mio nome. Nemmeno tu, Cathy.»
«Mi dispiace…» barbugliò la ragazza, sinceramente mortificata. «Ero così preoccupata per te che non ci ho neppure pensato…»
«Non importa. Ma te lo dico per il tuo bene, Cathy: non pronunciare mai più il mio nome. Perché se qualcun altro ti sentirà, non mi potrai vedere mai più.»
Cathy annuì e si strinse nuovamente a lui, affondando il viso sul suo petto.
«Anch’io sono felice di rivederti, Cathy» mormorò Gerald sottovoce.
«Che cos’è successo? Perché tutte quelle esplosioni? Qui nessuno ha voluto dirmi niente!»
«La città è stata bombardata. Una squadriglia di elicotteri dell’esercito ha sorvolato Eglon intorno alle undici e ha sganciato una dozzina di cariche, colpendo palazzi, case e strade. Ci sono state decine di feriti. Qualche vittima. Nelle ultime ore abbiamo avuto un sacco di lavoro da fare per sgombrare le strade dalle macerie e salvare le persone intrappolate sotto i crolli. Adesso la situazione si è pressoché stabilizzata, così alla maggior parte di noi è stato consentito di tornare a casa a riposare…» narrò l’uomo accomodandosi assieme a Cathy sul divanetto addossato ad una delle pareti.
«Dici che è stato l’esercito?» farfugliò sconcertata Cathy.
«Erano Black Hawk americani, ne sono sicuro. Li ho visti con i miei occhi» confermò Gerald.
«E perché l’attacco è stato approvato? Voglio dire: nessuno ha mosso un dito per tutta la settimana. Chi ha dato il via libera ad aprire il fuoco contro i civili?»
«Ancora non lo sappiamo. Ma abbiamo catturato uno dei piloti, dopo aver abbattuto il suo elicottero. In questo momento lo stanno interrogando.»
«Credi che il Governo si sia stancato di aspettare? E se avessero intenzione di radere al suolo la città?» volle sapere Cathy, impaurita.
«Faremo qualsiasi cosa per impedire che ci riescano» sentenziò Gerald con una certa sicurezza.
Qualcuno bussò alla porta.
«Sto arrivando!» rispose Gerald. «Sta’ qui e non ti preoccupare. Tornerò il prima possibile» sussurrò rivolto a Cathy, alzandosi dal divano e avviandosi.
«Ti aspetto…» bisbigliò Cathy, e la figura di Gerald sparì oltre la soglia un istante prima che la porta si richiudesse alle sue spalle.

«Quand’è che tutto tornerà come prima?» sussurrò Betty sconvolta.
«Non lo so, amore. Non lo so» asserì Daniel stringendola più forte a sé.
«Ho paura…»
«Non ti preoccupare, tesoro. Andrà tutto bene, vedrai.»
Rebecca stava seduta accanto a loro, con lo sguardo fisso sulla parete di fronte e le dita intrecciate sulle gambe. La sala d’aspetto era gremita di gente. Bianca e anonima come ogni sala d’aspetto di un qualsiasi ospedale, solo che non c’erano tavolini sui quali appoggiare le borsette né tantomeno riviste da sfogliare nell’ozio dell’attesa. C’erano persone che piangevano e persone che stavano in silenzio ad esaminare il vuoto; niente vie di mezzo, eccetto l’inquieto senso di tensione che distingueva gli occhi di Daniel e Betty. Ma, d’altro canto, loro due erano gli unici, lì dentro, a non avere un parente o un amico in sala operatoria. Tutti gli altri erano dunque giustificati nelle loro opposte prese di posizione nei confronti delle tragedie che si stavano consumando segretamente dentro ciascuno dei loro animi.
Un’infermiera uscì dalla porta scorrevole che separava la sala d’attesa da quella operatoria. Aveva i guanti color cremisi, gocciolanti. Fu circondata da uno stuolo di persone agitate che liquidò con un’occhiata desolante, passando oltre e dileguandosi dietro l’angolo di un corridoio.
Rebecca non si mosse. Continuò a fissare la parete e a giocherellare con le proprie dita, apparentemente spenta.
«No che non andrà bene» balbettò Betty con voce tremolante. «Non andrà bene per niente. Finché staremo in questa città, saremo sempre in pericolo. Lo sai? Dobbiamo andarcene da Eglon, Daniel. Prendere la macchina e andare via, prima che una bomba capiti in cima alla nostra casa!»
«Non possiamo andarcene, Betty, e lo sai benissimo» la rimproverò Daniel con fare lievemente seccato.
«Però…» esordì Betty, ma fu interrotta dall’improvvisa apparizione di un medico all’interno della sala d’aspetto. Anche lui aveva camice e guanti imbrattati di sangue, e i suoi occhi sembravano immensamente stanchi. Scarichi, più che altro. Come batterie la cui energia fosse stata succhiata fino all’ultima goccia da un telecomando.
«La signorina Rebecca Mitchell?» chiamò il dottore con fare spossato.
«Sì, sono io!» si alzò in piedi di scatto la ragazza, facendo trasalire parte dei presenti. Gli occhi le luccicavano e Daniel, guardandola, non poté che sentire dentro di sé un certo istinto di protezione nei suoi riguardi. Per un attimo si dimenticò di Betty che gli tamburellava sulla spalla per farlo alzare in piedi. Poi si voltò e fece segno alla sua ragazza che era meglio lasciare Rebecca da sola.
«Venga con me, signorina. Suo cugino si è svegliato.»

David distolse lo sguardo e lo riportò sulla strada. Aveva gli occhi lucidi e le guance solcate dai segni di lacrime che avevano seguitato a scorrere per intere ore. Gabriella stava in piedi dietro di lui, ferma e in silenzio, senza sapere con esattezza che cosa fare o che cosa dire. Era semplicemente scioccata. Devastata, per quello che era successo a David. E in cuor proprio si malediva per averlo convinto ad andare in chiesa con lei la sera prima, ma allo stesso tempo era contenta di averlo fatto perché sapeva che così facendo lo aveva salvato.
Neighbour Street era affollata di gente che si spostava da una parte all’altra in cerca di qualcosa da fare. Era come se il bombardamento della scorsa notte avesse risvegliato l’intera città sonnolenta dal torpore nel quale era precipitata nel corso degli ultimi giorni. Adesso quasi tutti i cittadini si trovavano fuori casa, affaccendati di qua o di là, pronti a dare una mano a chi era stato colpito. Ma forse, più che per aiutare, erano usciti soprattutto per soddisfare la propria curiosità. Molti passavano e guardavano in silenzio, poi si allontanavano furtivamente senza rivolgere la parola a nessuno. Il tutto sotto gli occhi attenti dei ribelli, ormai ritornati ad essere statuari e impassibili come di consueto.
David si avvicinò al cumulo di macerie carbonizzate che aveva davanti a sé, si chinò e afferrò un pugno di polvere incenerita, lasciandola poi ricadere sul terreno quasi con noncuranza. Era tutto quello che gli rimaneva della sua casa. Della sua famiglia ormai distrutta. E le lacrime che ricominciarono a traboccare dai suoi occhi spenti non furono abbastanza per colmare il vuoto che gli si impresse nell’anima dilaniata dalla morte inattesa dei suoi genitori.
Una delle bombe aveva colpito casa sua. E i corpi di mamma e papà erano stati tirati fuori dalle rovine dell’abitazione quattro ore dopo l’attacco, ormai cadaveri. David non aveva fortunatamente assistito alla scena. Ma quando era arrivato a casa, accompagnato da Gabriella, aveva trovato quella distruzione terribile e quel vuoto che ora lo assillava. E nient’altro.
Uno dei rivoluzionari era venuto a parlargli, gli aveva chiesto se fosse lui David Goldbert e gli aveva riferito che i suoi genitori erano stati trasportati in ospedale a bordo di un’ambulanza, ma che ormai non c’era più niente da fare. Avevano scortato lui e Rebecca fino in ospedale per vederli. Poi, quando David li aveva salutati, li avevano riportati lì e se n’erano andati.
Adesso non c’era più niente da fare. L’animo e la mente di David erano sconquassati da emozioni forti e contrastanti. Se fosse stato con loro, sarebbe morto anche lui. Ma in questo modo se n’erano andati senza che lui potesse salutarli, e forse, in fondo, avrebbe preferito fare la loro stessa fine…
Si girò e vide l’espressione compunta di Gabriella, e guardandola negli occhi si rese conto di essere felice, dentro di sé, per non essere morto. Ora gli rimaneva soltanto lei.
«Sei David Goldbert?» mormorò una voce dietro di lui, attutita dalle pareti di una maschera bianca e rossa che gli pareva famigliare. Era il ribelle che aveva impedito a Gary Hullman di ammazzare suo padre, intuì David con quella porzione del suo cervello che ancora era in grado di ragionare in maniera coerente e sensata. E si stava rivolgendo proprio a lui.
«Sì…» farfugliò, come interdetto.
«Puoi venire con me, David? Ti devo parlare» disse l’uomo dal volto imperscrutabile.
«A proposito di cosa?» volle sapere il ragazzo, cercando di non far sembrare le proprie parole venate da un tono di sfida ma accorgendosi di non esserne del tutto capace.
«Del tuo supermercato, e del futuro della città di Eglon.»

Stan Payton guardò fuori dalla finestra e subito si sentì costretto a distogliere lo sguardo. La casa di fronte alla loro era stata sventrata da una delle bombe sganciate la scorsa notte. Qualche metro di differenza e anche loro, in quello stesso momento, avrebbero potuto essere cadaveri carbonizzati sepolti sotto lo scheletro incenerito di una villetta distrutta.
I furgoncini blindati sparpagliati lungo la strada avevano vomitato fuori dozzine di uomini mascherati che correvano indaffarati da una parte all’altra. Cercavano di salvare le persone intrappolate sotto le macerie, e questo fatto stupì enormemente Stan. Perché adesso si impegnavano per salvare i feriti, se la notte del primo attacco avevano essi stessi ammazzato decine di persone? Forse cercavano di comprarsi la simpatia degli abitanti di Eglon, dimostrandosi disposti a dare loro una mano. In questo modo si sarebbero potuti garantire la loro piena collaborazione. Ma anche con le minacce avevano finora ottenuto lo stesso effetto… Per quale motivo avevano scelto proprio ora di cambiare tattica?
I punti della città colpiti dall’assalto notturno dei Black Hawk dell’esercito erano numerosi. L’aveva sentito dire ad alcune persone fuori, quando era andato a fare un giro per Main Street a vedere che cosa fosse capitato. La città era in fibrillazione. Molti avevano imprecato contro l’Esercito Americano, chiedendosi chi accidenti avesse approvato un attacco diretto contro i civili di Eglon. Era un avvenimento inconcepibile, e la gente si faceva domande. Troppe domande.
I ribelli erano passati lungo le strade a tranquillizzare la popolazione, in mattinata. Avevano assicurato che si sarebbero prodigati per portare ai civili ogni genere di aiuto possibile, mostrandosi gentili e presenti. Una mossa abile, non c’era che dire. Se avvicinare la popolazione alla propria causa era nelle loro intenzioni, probabilmente ci stavano a poco a poco riuscendo.
Da quando avevano iniziato a circolare i manifesti contro la polizia non era ancora stato catturato alcun poliziotto. Il che era strano, perché Stan sapeva che ce ne dovevano essere parecchi in giro. La situazione stava inesorabilmente degenerando. Forse i poliziotti sopravvissuti si stavano radunando da qualche parte. Magari cercavano di mettere in piedi un gruppo di resistenza, una controreazione alla Rivoluzione… Se davvero era così, allora doveva scoprirlo il prima possibile.
Sarah era in cucina a preparare da mangiare. Robert era uscito a vedere se poteva dare una mano in qualche modo alle persone colpite dalle bombe. Christine e Michael erano di sopra a giocare, ognuno nella propria camera. Stan guardava fuori dalla finestra e aspettava che succedesse qualcosa. Qualsiasi cosa. Non si poteva andare avanti così, era poco ma sicuro. Gli attacchi della notte passata lo stavano a testimoniare: l’esercito aveva deciso di intraprendere una strada pericolosa per entrambi gli schieramenti, e finché non avesse avuto degli obbiettivi ai quali puntare avrebbe continuato con ogni probabilità a colpire i civili, sperando di avere la fortuna di indebolire i ribelli. La situazione doveva essere stroncata al più presto, prima che le cose andassero ancora peggio. L’unica soluzione era comunicare con l’esercito e informarlo dei punti caldi da colpire. Ma come potevano riuscire a contattare l’esterno, se tutti i mezzi di comunicazione erano stati soppressi?
«Stan… Tutto a posto?» gli chiese Sarah facendo capolino dalla porta della cucina. Stan quasi sobbalzò per la sorpresa. Si girò e assorbì in un solo respiro l’immagine della sua ex moglie dall’espressione preoccupata che veniva verso di lui con le mani appoggiate ai fianchi. Le rivolse un fievole tentativo di sorriso e annuì.
«Certo, certo. Tutto okay» rispose tranquillamente, riprendendo fiato.
«Ti vedo pensieroso…»
«E in effetti lo sono» confermò Stan, ritornando a guardare fuori dalla finestra mentre con la coda dell’occhio vedeva Sarah avvicinarsi e fermarsi di fronte al vetro accanto a lui.
«Ti capisco» confidò Sarah, sospirando. «Lo sono anch’io. Penso che i nostri figli non dovrebbero essere esposti a tutto questo. Siamo in pericolo ogni giorno, Stan. Le nostre vite sono in pericolo, e non trovo giusto che dei bambini come Michael e Christine debbano essere sottoposti a simili rischi.» Si prese un istante per raccogliere le idee, squadrando Main Street con uno sguardo che probabilmente non coglieva che qualche metro di asfalto qua e là, concentrata com’era sui propri pensieri. «Una qualsiasi di quelle bombe avrebbe potuto colpire questa casa e uccidere i nostri bambini. Non è naturale che debbano vivere così. Non è naturale che noi siamo costretti a vivere così. Eglon è diventata un luogo troppo pericoloso per le nostre esistenze. Eppure siamo intrappolati in questa realtà, e non vedo alcuna via d’uscita…»
Stan annuì gravemente, restando in silenzio e aspettando che Sarah riprendesse.
«Siamo precipitati in una guerra alla quale non apparteniamo. E ci siamo stati trascinati contro la nostra stessa volontà. Ma il fatto che il nostro Paese ci abbia voltato le spalle, attaccando i civili per fermare la Rivoluzione… Non lo so, è sconcertante. E incomprensibile, per di più.»
«Già. Lo penso anch’io» approvò Stan con un filo di voce, riflettendo sulle parole della sua ex moglie. Aveva ragione, su tutta la linea. E la parte peggiore era che anche i loro bambini, innocenti e indifesi, si trovavano nella loro stessa identica situazione senza via d’uscita.
«Michael e Christine sono felici che tu sia qui, Stan…» farfugliò Sarah, cambiando discorso come se finalmente se la sentisse di dire ciò di cui aveva intenzione di parlare fin dall’inizio.
«Già, me ne sono accorto. Michael un po’ più di Christine, ma forse è solo perché Christine è più grande e non è ancora del tutto sicura di potersi fidare della mia presenza qui. Cerca di tenersi indietro il più possibile, al contrario di Michael. Ma quando Michael viene da me per qualsiasi motivo, lei c’è sempre e vuole sempre esserci» disse semplicemente Stan. «Non lo so come si comportassero normalmente assieme a te e a Robert, ma mi sembrano più sollevati di quando mi venivano a trovare a Little Rock, nel mio appartamento. Come se avermi qui li rendesse più tranquilli…»
«Vederti seduto a tavola con loro e con me, averti qui la mattina quando si svegliano, poterti parlare o anche solo scorgere da una stanza all’altra… Per loro è importante. Non me ne ero mai resa conto prima, forse perché ero troppo impegnata a rimettere insieme i pezzi della mia vita. Non ho mai chiesto loro che cosa facessero nei weekend, quando passavano il tempo da te. Non mi sono mai preoccupata di chiederti se mangiassero a sufficienza, se dormissero senza fare storie o se avessero nostalgia di casa. Probabilmente, vista da questa prospettiva, per alcuni versi sono stata molto più assente di te nelle loro vite, ultimamente. E questo mi dispiace molto.»
Stan la fissò senza parlare, incoraggiandola con lo sguardo a proseguire.
«Ma devi capire che per loro è strano averti qui, in questa casa, di nuovo dopo tutto questo tempo. Non ci sono abituati, ecco tutto. E anche per me è una cosa insolita. Mi sento… Non lo so come mi sento, ecco. Però, allo stesso tempo, sono felice che tu sia qui con noi. In un certo senso, la tua famiglia ha sempre bisogno di te…» sussurrò, volgendo lo sguardo su di lui finché i loro occhi non si incrociarono.
«Sai, dopo il divorzio è stata dura rimettere in ordine la nostra famiglia. Tu te ne sei andato a Little Rock, troppo lontano per potermi aiutare ogni giorno, e Michael e Christine si sono chiusi in un loro spazio speciale, dandosi manforte in ogni situazione e organizzandosi in una specie di coalizione della quale non potevo far parte. Erano soltanto loro, e io li vedevo crescere assieme, loro due soli, separati da me. Non è stato facile riprendermi, Stan. Ci sono voluti dei mesi…»
«L’ho passata anch’io. Non sei l’unica ad aver vissuto questo dramma, Sarah» le ricordò Stan con una certa dolcezza. La donna gli sorrise debolmente, ritornando a guardare fuori.
«Ne sono consapevole. Nel contempo, però, credo anche che non avremmo potuto continuare a vivere come stavamo vivendo prima della separazione. Dividerci è stato inevitabile. Doloroso, lo so. Non soltanto per noi due, ma anche per Michael e Christine. Ma inevitabile» considerò Sarah, quasi parlando tra sé e sé.
«Ed ora, eccoci qua…» farfugliò Stan. «A parlarne dopo averla superata entrambi, ognuno a modo suo. Siamo stati forti, vero?»
«Sì. Lo siamo stati» annuì Sarah con un mezzo sorriso. I suoi occhi erano diventati scintillanti, come se una stella spenta da un miliardo di anni si fosse di colpo riaccesa nelle tenebre infinite dello spazio siderale.
La porta si spalancò e si richiuse dietro la silhouette piegata in due di Robert, il cui respiro affannato fece da preludio a tutto ciò che sarebbe accaduto in seguito.
«Robert!» lo salutò Stan, andandogli incontro con fare incerto. «Tutto okay?»
«No… assolutamente… no!» esclamò Robert, infilando tra una parola e l’altra pause enormi per riprendere fiato. «I rivoluzionari… stanno… passando… di casa in casa… Hanno iniziato… i controlli… per le armi!»Che cosa sta succedendo in cittò, signor Grau?»

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