sabato 18 febbraio 2012

Senza Titolo - Parte 3

La stanza era stretta e a malapena rischiarata dalla poca luce che pioveva dalle finestre. Il cielo, fuori, era plumbeo e sembrava promettere una nuova bufera di neve.
Ubaldo stava sdraiato su di un letto stretto e apparentemente scomodo, avvolto dalle coperte. Tre cuscini lo aiutavano a tenere alzate le spalle e la testa, e il suo viso rabbuiato era scosso da tremiti continui.
«Signor Gianese, come si sente oggi?» lo interrogò con voce flebile il giovanotto, prendendo posto sulla sedia accanto a lui e sfilandosi di dosso il cappello e il cappotto che aveva indossato per raggiungere la casa in cui il pittore stava riposando.
«Non molto diverso da ieri, lo ammetto» rispose tranquillamente, posando uno sguardo paterno sul giovane preoccupato. «Ho paura che queste saranno le mie ultime ore, purtroppo.»
«Non dica così…» mormorò il ragazzo, cercando di rasserenare il suo maestro di bottega. Ma il pittore sorrise tristemente e annuì, con fare rassegnato.
Il dottore entrò senza annunciarsi, semplicemente comparendo alle spalle del ragazzo e avvicinandosi al suo paziente, domandandogli se avesse bisogno di qualcosa.
«Sa, dottore, mi servirebbe proprio una…» Ma la richiesta fu troncata a metà da un accesso di tosse che lo investì fulmineo, spezzandogli il respiro e annegandogli le parole in gola. Il medico gli passò un fazzoletto di stoffa bianco e Ubaldo se lo premette sulla bocca, aspettando che passasse. Quando ebbe smesso di tossire restituì il fazzoletto al medico e il ragazzo notò che era abbondantemente macchiato di sangue.
«Nutro seri timori per la prossima notte, signor Gianese…» biascicò quasi distrattamente il dottore, quindi scomparve al di là della soglia della stanza senza aggiungere altro.
«La prossima notte?» ripeté il giovanotto in un sussurro, con gli occhi che già si facevano lucidi.
«Ehi, ragazzo mio. Che cosa c’è?» volle sapere affabilmente il pittore, accorgendosi delle lacrime imminenti.
«Lei sta per morire, signore…» barbugliò il giovane, confuso.
«Lo so» confermò Ubaldo, serenamente. «Ormai era ora che questa vecchia carcassa smettesse di funzionare. L’avevo già intuito da qualche mese, ma solo adesso mi rendo pienamente conto che i miei giorni sono stati consumati. Tutti, dal primo all’ultimo. Non me ne rimangono altri, in tasca.»
Il giovanotto lasciò che le lacrime gli inumidissero gli angoli degli occhi. Poi, a mano a mano che i secondi defluivano via dalla stanza, presero a rigargli le guance, scivolando senza fretta.
«Non piangere. Va così. Lo sapevamo entrambi, che prima o poi sarebbe arrivato questo momento. Tutto ciò che ha un inizio deve avere in qualche modo anche una fine.
«Non mi resta ancora molto tempo da spendere in questo mondo. Ma tu hai la vita davanti, ragazzo mio. La vita intera. E la reggi sul palmo della mano, ti accarezza la pelle e ti promette sogni, speranze, bellezza. È tutta tua, adesso.
«Se vuoi ascoltare i consigli di un povero vecchio sull’orlo della fossa, non trattarla come ho fatto io. Ho passato i miei giorni a dipingere, ho trascorso le mie ore ad immaginare, dimenticandomi di vivere le ore che avevo a disposizione. Ho scialacquato il mio tempo lontano dagli affetti, dall’amore, dalla felicità. Non lasciarti sfuggire ciò che io ho perduto. Impara a dare valore alla tua esistenza, e lei ti ripagherà nel migliore dei modi.
«Ormai, la mia opera aurea sta per essere conclusa: la mia vita, come la luce di un tramonto, si sta esaurendo.»
«Come la vuole chiamare, questa?» balbettò il ragazzo tra le lacrime, soffocando i singhiozzi e sforzandosi di sorridere a quell’uomo che per lui era stato più di un padre.
Ubaldo Gianese parve pensarci per un momento. Quindi, con le lacrime agli occhi e un sorriso malinconico dipinto sul volto, bisbigliò: «Senza Titolo. Perché la vita è un’opera d’arte troppo incomprensibile e preziosa per essere imprigionata in un nome.»

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