sabato 11 febbraio 2012

Senza Titolo - Parte 2

Faceva stranamente caldo, dentro la chiesa, sebbene fuori stessero incominciando a fioccare i primi batuffoli di neve da un cielo livido che aveva minacciato rovesci per tutta la giornata. Forse, valutò il giovane, era per via della grossa candela accesa che reggeva in mano senza sosta da almeno quattro ore. Tenerla sollevata in alto per rischiarare la parete non era difficile, non per i primi cinque minuti. Poi, però, la candela si faceva sempre più pesante, i muscoli delle braccia iniziavano a protestare e a poco a poco un fastidioso formicolio si diffondeva dai polsi fino alle spalle, scendendo lungo tutto il busto.
Adesso sentiva alcune gocce di sudore corrergli sulla fronte e giù per le guance, in direzione del collo. Non poteva fermarle, perché aveva entrambe le mani impegnate a reggere la candela. Se non avesse fatto luce sulla parete, in equilibrio con il signor Gianese sugli ultimi pioli di quella scala pericolante, come sarebbe riuscito il pittore a finire di dipingere l’arco della navata centrale?
Quel pomeriggio, in Municipio, ad Ubaldo Gianese era stato intimato di concludere i lavori entro la fine della prossima settimana. La chiesa doveva essere assolutamente pronta per le cerimonie natalizie, che non sarebbero naturalmente state ritardate nemmeno di un’ora. Perciò, avevano soggiunto quelli del Comune, era meglio che ultimasse la sua opera, prima che la ricompensa pattuita si assottigliasse magicamente.
Il signor Gianese era rimasto molto amareggiato da quelle parole, ma sapeva che gli mancava poco per finire e non aveva sollevato obiezioni. Adesso stava dando gli ultimi ritocchi alle scene affrescate lungo la navata centrale e sulla superficie interna della cupola che sovrastava l’altare. Lavorava di notte, com’era sua abitudine, e sembrava fosse più concentrato del solito.
Come di consueto, il giovanotto gli reggeva la candela per fare luce sui tratti che doveva dipingere. Sapeva che il signor Gianese non dipingeva mai con la luce del sole. Preferiva il buio, per lavorare ai suoi capolavori. «Col favore delle tenebre,» gli spiegava di tanto in tanto, «la mia percezione dei colori si acuisce e la mia immaginazione trova terreno fertile per coltivare la creatività.»
«Ecco fatto!» disse finalmente Ubaldo staccando le setole del pennello dall’intonaco dell’arco. Era il segnale che non gli occorreva più la luce della candela, e il ragazzo fu immensamente grato di poter abbassare le braccia e scendere dalla scala. Lasciò il cero ancora acceso su uno degli appositi sostegni accanto all’altare e si pose in contemplazione a qualche metro di distanza dall’opera appena terminata, aspettando che l’autore di quella meravigliosa creazione rimuovesse la scala e gli si avvicinasse.
Conscio della mania del suo maestro di bottega di dare un titolo a qualunque lavoro avesse compiuto fino ad allora, timidamente il giovanotto chiese: «Come la vuole chiamare, questa?»
Ubaldo Gianese si piazzò accanto a lui con le braccia incrociate, pensoso. Ci rifletté su per qualche istante, dopodiché sentenziò con assoluta decisione: «Opera Pia.» E scoppiò a ridere a crepapelle.

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