lunedì 6 febbraio 2012

Le Anime di Eglon - Episodio 22 - Blackout

«Se la situazione non fosse così drastica, naturalmente eviteremmo più che volentieri di prendere simili provvedimenti. Ma a questo punto pare che non rimanga altra scelta. Mi capisce, non è vero?» lo interrogò la voce al telefono, a mo’ di domanda retorica.
«Certo, certo. Capisco» borbottò il comandante Smith, impotente. Stringeva la cornetta nella mano con troppa forza, tanto che le nocche gli si erano completamente sbiancate. Stava perdendo sensibilità, le dita gli facevano male. Se avesse premuto un po’ di più, pensò per qualche secondo di silenzio, forse avrebbe potuto addirittura distruggere quel giocattolo di plastica attraverso il quale le voci dei suoi superiori lo tenevano aggiornato sulle ultime decisioni.
Gli era stata tolta la libertà di manovra che inizialmente gli avevano accordato. Dopo l’incidente di quel bombardamento notturno, che non era stato lui ad autorizzare e che tuttora rimaneva avvolto dal mistero, i suoi superiori volevano essere informati ad ogni ora. Il comandante Smith restava al suo posto, al vertice gerarchico di quella fetta di esercito che si era appostata a pochi passi dalle barricate della città di Eglon, ma di fatto non era più lui a prendere le decisioni. Gli ordini arrivavano dall’alto, e lui non poteva fare altro che obbedire, senza controbattere alcunché.
«Il Segretario della Difesa ha incontrato il Presidente a Washington questo pomeriggio, in via del tutto eccezionale, per un colloquio privato. Sembra che l’opinione pubblica internazionale non stia vedendo molto di buon occhio questa situazione. I giornali di mezzo mondo l’hanno soprannominata rivoluzione terroristica, e ancora non si sa a chi attribuire la colpa. Di certo, il fatto che l’esercito non sia capace di reagire ha insospettito molti Paesi. Ma d’altro canto sanno benissimo che ci sono troppi civili, di mezzo. L’importante, ora come ora, è non compiere passi falsi» spiegò per l’ennesima volta la voce telefonica, arrochita dai chilometri di cavi che era costretta a percorrere per poter giungere all’orecchio del comandante Smith.
«Me ne rendo conto, signore. Per adesso stiamo semplicemente qui. Aspettiamo.»
«E aspetterete ancora per poco, comandante. Stiamo organizzando un piano per infiltrare alcune unità all’interno delle barricate. L’unico punto debole, per adesso, è la completa assenza di informazioni sulle quali basarci. Ci occorrerebbero notizie dall’interno, ma le comunicazioni continuano ad essere impedite. Ci stiamo lavorando.»
«Pensate davvero che tagliare le risorse possa servire a qualcosa?» domandò il comandante Smith, ancora lievemente perplesso.
«Senz’altro. Ne abbiamo discusso con il Segretario della Difesa, e il progetto è stato approvato. Entro poche ore sarà tagliato tutto quanto. Senza cibo, acqua, carburante, medicinali, gas ed elettricità i ribelli non potranno fare altro che arrendersi. Forse resisteranno una settimana, magari anche due. Dopodiché, però, getteranno a terra le loro armi in cambio di una sorsata d’acqua. Glielo garantisco, comandante.»
«E per quanto riguarda la popolazione civile?»
Dall’altra parte ci fu una breve esitazione. Il silenzio riempì la linea per qualche istante. Poi, la voce telefonica lo neutralizzò: «Dovranno fare dei sacrifici anche loro, per il bene del Paese. Dopotutto, hanno già pagato un terribile prezzo. Un leggero aumento, a questo punto, risulterà quasi del tutto ininfluente.»
«Sta parlando di vite umane, signore» gli fece notare Smith, trattenendosi.
«Lo so. Ma in questo momento è come se anche loro fossero contro di noi.»

LE ANIME DI EGLON
PRIMA STAGIONE
EPISODIO 22
BLACKOUT

«Sai per caso chi ha trovato il cadavere di Hullman?» domandò il tizio con la faccia da teschio, un uomo dall’accento meridionale che sembrava essere in tutto e per tutto un autentico americano. Se solo avesse potuto intravedere il suo volto, dietro quella maschera enigmatica di gomma, David sarebbe probabilmente riuscito a capire con più precisione da dove venisse. Ma in questo modo, soltanto attraverso la voce, era pressoché impossibile.
«Da quello che ho sentito dire, sembra sia stato un suo vicino di casa. Non ho approfondito» confessò, serenamente. La notizia della morte di Gary Hullman non era stata poi così drammatica, per lui. In fondo, si trattava di un piantagrane. Un buono a nulla che non sarebbe mancato probabilmente a nessuno. Certo, però, che si trattava di una vicenda che faceva sorgere molte domande…
«Che cosa ne pensi, ragazzo? C’era qualcuno che avrebbe potuto avercela con lui?» gli chiese ancora il ribelle, con fare inquisitorio.
«Molta gente, suppongo» restò sul vago David Goldbert, mostrandosi disinteressato.
«So che tuo padre ha avuto da ridire con lui, qualche giorno fa… Per questo sono venuto a parlarti.»
David tirò su la testa. Gabriella, accanto a lui, si voltò dall’altra parte e finse di essere stata distratta da qualcos’altro. Il rivoluzionario rimase immobile, impassibile, in attesa di una risposta.
«Mio padre è morto» replicò freddamente David, in tono secco.
«Infatti. Perciò, magari hai voluto vendicarti per quella mattina…»
«Ci sono problemi?» intervenne all’improvviso una terza voce, comparendo alle spalle di David e facendosi avanti. Il ragazzo si girò e vide sopravanzare una maschera bianca e rossa. La riconobbe immediatamente, e l’ombra di un sorriso gli attraversò il volto come il bagliore di un lampo. «Il ragazzo è con me, amico. Non ha fatto niente.»
«Il compito dei Sorveglianti è quello di impedire che vengano commessi dei crimini, come ben sai…» ribatté l’altro, quello con la maschera da teschio.
«E quello dei Soldati è portare avanti la baracca. Come ben sai. Questo ragazzo mi serve, ed è sotto la mia protezione. Intesi?»
«D’accordo» concluse il Sorvegliante, con un pizzico di riluttanza. Lanciò un ultimo sguardo dai fori circondati da occhiaie nere e spesse e si allontanò, portandosi appresso la sua carica di enigmatica tensione elettrica che gli circondava l’intero corpo come un inspiegabile campo magnetico.
«Tutto bene, David?» s’informò il ribelle con la maschera bianca e rossa. Era stato lui ad impedire che il padre di David venisse accoltellato da Hullman, quella mattina di pochi giorni prima. Il ragazzo se ne ricordò e sorrise all’indirizzo del suo protettore, annuendo.
«Okay allora, adiamo. C’è tanto da fare. Dobbiamo rimettere in sesto gli scaffali e le vetrine, sistemare i banchi e preparare il magazzino» riprese il rivoluzionario, con decisione. «Tu ci darai una mano, vero?» domandò poi, rivolgendosi a Gabriella.
David si volse a guardare la giovane, che posò gli occhi su di lui. Quant’era bella… E si trovava lì assieme a lui, adesso. Non l’aveva mai lasciato da quella notte in cui i suoi genitori erano morti sotto le macerie di casa, sepolti dal bombardamento notturno di quei Black Hawk dell’esercito americano. E David le era immensamente grato per essersi presa cura di lui.
«Certamente!» rispose la ragazza, e il suo bel viso affogò lo sguardo e i pensieri di David in un’espressione ammaliante.

«Siamo nella merda, amico…» bofonchiò Stu, sogguardando la vallata di tenebra che si stendeva impassibile dinanzi al loro sguardo meravigliato.
«Nella merda…» ripeté Danny, come un disco incantato, seguendo lo sguardo del compagno in direzione di quella distesa di oscurità che sembrava inghiottire i palazzi di Eglon in una feroce cucchiaiata di follia.
«Sai che cosa ti dico? Che almeno fa caldo…» considerò Stu, cercando di tirare fuori il lato positivo della faccenda.
«Sì, ma che caldo… Non è che mi vada a genio, tutto questo caldo. Sai, Stu… Sai?»
«Lo so. Cosa?»
«Bo. Tutto. Non mi ricordo di preciso, se devo essere sincero» ammise Danny dopo qualche attimo di esitazione, strappato al dialogo per raccogliere i pochi pensieri che gli gironzolavano per la testa e setacciarli in cerca di qualche lampadina luccicante.
«Nemmeno io» lo appoggiò Stu, mettendosi a braccia conserte mentre se ne stava in adorata contemplazione.
Emily Cooper passò loro accanto e, dopo averli osservati a lungo, decise che non le interessavano e proseguì oltre. Quei due ragazzi erano messi proprio male, valutò mentre attraversava la strada dopo aver lasciato passare una vecchia automobile sgangherata con la marmitta che quasi strisciava sull’asfalto freddo. Già, erano messi male davvero. Non osava neppure chiedersi di che cosa si fossero fatti. Ma, d’altro canto, la loro presenza era importante: significava che girava ancora della droga, per le strade di Eglon. Roba pesante, a giudicare dallo stato in cui si erano ridotti Stu e Danny, dei quali non conosceva nient’altro che il nome. Di conseguenza, poteva ancora sperare che qualcuno avesse del tabacco o qualche sigaretta. Anzi, più che altro doveva sperarlo. Perché se fosse tornata in albergo a mani vuote…
Inizialmente aveva pensato che non avrebbe mai pagato una cifra esorbitante per qualche misera sigaretta: poteva anche rimanere senza tabacco e resistere senza problemi, si era detta, e così aveva fatto per un paio di giorni. Non erano indispensabili, le sigarette. Alla reception dell’albergo un giovanotto piuttosto simpatico le aveva rivelato che in quella zona della città che stava attraversando ora, nei pressi della periferia, c’erano ancora dei contrabbandieri ben forniti, ma i prezzi erano spaventosamente alti. Gli aveva risposto che non le importava, che non era dipendente dalle sigarette, lei. Invece, eccola lì ad attraversare la strada.
Stupida, si disse, inoltrandosi in un vicolo stretto e abbastanza scuro. Sei proprio una stupida. Smetti di mentire a te stessa: sei dipendente da quando andavi al liceo, e ogni Capodanno ti sei ripromessa di smettere e poi non ci hai nemmeno provato. Stupida.
«Ehi, signorinna» la richiamò una voce di lato, destandola dai suoi pensieri. Si fermò e cercò qualcuno ad altezza d’uomo, ma non scorse nulla. Allora un movimento attirò la sua attenzione più in basso, in un piccolo antro scavato tra due cassonetti, e registrò la presenza di un uomo accucciato sulla strada, avvolto da vecchi fogli di giornale puzzolenti. «Signorinna, me li dai due spiccioli?»
«Mi dispiace. Non ne ho…» rispose Emily, riprendendo a camminare.
«Ehi, signorinna!» insistette l’uomo, facendo leva con le braccia sui cassonetti per tirarsi in piedi. Emily affrettò il passo. Quella doppia enne non le piaceva affatto. Sembrava la parlata di un ubriaco. O, peggio ancora, di un drogato. Forse avrebbe fatto meglio a rimanere in albergo, a non superare Stu e Danny, i due ragazzi strafatti. E a smettere di fumare.
«Signorinna, sto parlando con te! Se non mi dai due spiccioli allora voglio qualcos’altro, e ti avverto che non si tratta di così poco!» Si mise in piedi e si lanciò all’inseguimento, barcollando leggermente lungo il vicolo ma guadagnando terreno. Emily iniziò a correre, tentando di seminarlo, ma l’uomo le teneva dietro senza difficoltà, senza perderla, quasi che stesse giocando con lei.
«Signorinna, sei mia! Se ti prendo ti faccio pentire di non avermi dato quei due spiccioli! Mi prendo qualcos’altro, e al posto dei miei pantaloni mi riporto a casa i soldi che hai nelle mutandine!» sbraitò felice il suo inseguitore, facendola rabbrividire. Perché accidenti si era andata a cacciare in quell’orrenda situazione? Per un dito di tabacco, dannazione! Per una cazzo di sigaretta che non l’avrebbe fatta stare meglio nemmeno per scherzo!
«Ferma…» mormorò una voce piatta e soffusa accanto a lei, affiorando dalle tenebre. Emily trattenne un grido e si sentì acchiappare da un braccio che le cinse la vita e la immobilizzò, impedendole di continuare a correre. Ansimante, si bloccò e restò senza fiato.
«Signorinna, il centone che hai tra le gambe è mio!» esultò l’ubriacone alle sue spalle. Ma l’ultima parola fu strozzata sulla vocale finale da un conato di sorpresa. Emily tirò su gli occhi e cercò di guardare, ma era troppo buio in quel vicolo per riuscire a distinguere il volto dell’uomo che l’aveva bloccata. L’unica cosa che riusciva a vedere era la silhouette confusa del suo inseguitore maledetto, che ora stava fermo a meno di mezzo passo da lei, come in attesa di qualcosa.
«Sparisci. Levati dalle palle» ordinò in tono inflessibile la stessa voce che pochi istanti prima aveva comandato ad Emily di fermarsi. Proveniva dalla figura che quasi le si stringeva contro. L’ombra di un uomo che non riusciva a vedere, che le cingeva la vita con un braccio e teneva l’altro proteso verso il maniaco della doppia enne.
«Ma… Io…»
«Non lo ripeterò, Roger» ammonì lo sconosciuto, e il clic metallico che seguì era quello inconfondibile di una pistola che veniva armata.
Sono tra le braccia di uno dei ribelli, pensò Emily. Non lo vedrei in faccia nemmeno se fosse giorno. Ha la maschera sul volto, e una pistola impugnata. Ha appena salvato molto di più della mia vita…
«D’accordo, d’accordo…» bofonchiò Doppia Enne, ritirandosi e svanendo nell’oscurità del vicolo come un filo di nebbia fantasma. Emily trattenne il sospiro di sollievo che stava per lasciarsi scappare. Immobile, incollata a quello sconosciuto che ancora la stringeva a sé tenendole un braccio attorno alla vita. Per un attimo si chiese se l’avrebbe baciata. Poi lo sentì allentare la presa e mettere via la pistola, in silenzio.
«Grazie» balbettò, come se non le venisse in mente nient’altro da dire. In effetti, era proprio così: non sapeva che altro dire, in una circostanza del genere. Ringraziare quello sconosciuto le parve la prima cosa logica da fare, così si affrettò a rispondere all’istinto.
«Non dovrebbe passeggiare da sola in queste zone della città, signorina. Specie a quest’ora» le fece notare l’uomo con una certa gentilezza. Non sembrava affatto che la stesse rimproverando. Pareva quasi divertito, ed Emily si sentì improvvisamente più leggera.
«Lo so. Stavo cercando qualcuno che mi potesse vendere delle…» Rifletté un momento, chiedendosi se fosse saggio parlarne con un ribelle. Quindi decise di sì. In fondo, non aveva fatto nulla di male. E non credeva che i rivoluzionari avessero qualcosa da ridire riguardo al contrabbando di sigarette. Finché non si trattava di armi… «Cercavo delle sigarette, ecco.»
«Sigarette, dice? Nessun problema. Ho quello che fa al caso suo, signorina» svelò affabilmente lo sconosciuto, e la sua voce stregò Emily che si lasciò scivolare in una risatina nervosa.
«Emily. Mi chiamo Emily» ribatté, sorridendo. Non poteva vedere la maschera di quell’uomo, né tantomeno scorgere il profilo del suo viso. Ma a giudicare dalla voce doveva essere bello. E anche dai modi, perché nemmeno George si era mai rivolto a lei con tanta cortesia e amorevolezza.
«Piacere di conoscerti, Emily» pronunciò la voce pacata dello sconosciuto. Emily sentì qualcosa premerle sulle labbra. Le socchiuse e accolse il filtro di una sigaretta, riconoscendolo immediatamente e ringraziandolo mentalmente di esistere. «Stasera ho solo un pacchetto di Chesterfield, con me. Spero siano di tuo gradimento» soggiunse, facendo scaturire una fiammella nelle tenebre che andò ad illuminare le sue mani. Emily vide l’accendino avvicinarsi all’estremità della sigaretta che le penzolava tra le labbra, e nell’istante in cui trasse la prima boccata e il fumo le invase i polmoni si sentì come rinascere.
«Ti faccio compagnia, Emily, se non ti spiace» annunciò il ribelle, e portandosi una sigaretta alle labbra resuscitò la fiammella dell’accendino e se la avvicinò al viso, illuminando un’espressione che non poteva assolutamente essere una maschera.
Emily quasi trasalì. Si levò la Chesterfield di bocca e squadrò esterrefatta il suo salvatore, che era tornato ad essere una sagoma scura e indistinta che si muoveva all’unisono con la brace ammiccante della sigaretta accesa. «Non hai la maschera…» farfugliò, lasciando il tono a metà strada tra un’affermazione e un punto interrogativo.
«Maschera?» domandò l’uomo divertito, sghignazzando quasi tra sé e sé. «No, nessuna maschera. Non sono un rivoluzionario.»
«Ah…» gloglottò Emily, turbata.
«Joey Goode» si presentò lo sconosciuto, porgendo la mano alla ragazza, e lei gliela strinse e tornò a sorridere, disarmata da quell’espressione gentile e allo stesso tempo amorevole che oramai l’aveva incantata.

«Chi accidenti sei?» domandò per primo Patrick Wieler, appena l’uomo li ebbe raggiunti nello spiazzo di Neighbour Street lungo il quale si erano fermati. Dopo essersi allontanati in mezzo alla folla dalla piazza del municipio avevano avuto paura di perdersi di vista: la calca era fitta e si muoveva spingendo da tutte le parti, premendo sui vicoli secondari per uscire da Main Street. Avevano dovuto chiamarsi l’un l’altro in continuazione. E solo per nome, perché altrimenti avrebbero potuto farsi notare o riconoscere dai ribelli appostati lungo le vie.
«Gregory Donington. Agente speciale dell’FBI, incaricato dal Bureau di seguire la questione Eglon dopo che la pista dell’incidente ferroviario è stata abbandonata dalle cellule terroristiche. Carriera brillante, tutto sommato. Se l’è sempre cavata bene nel corso di tutte le sue missioni, riportando grossi successi. Adesso, aspettiamo soltanto sue indicazioni, signor Donington» prese la parola Brian Jones, parlando con estrema calma e affabilità nel suo accento spiccatamente aristocratico condito con un abbondante retrogusto inglese.
Greg Donington lo squadrò torvamente, mostrandosi sospettoso. Annuì con un lieve cenno del capo e si rivolse ai poliziotti, chiamandoli per nome: «Phil Callback. Jeremy Barton. Il vicesceriffo Patrick Wieler. Finalmente vi ho trovati. Avrò bisogno di voi poliziotti, per coordinare le operazioni dall’interno. Dovrò sfruttarvi per ricavare il maggior numero di informazioni possibile, per incominciare a strutturare un piano.»
«Ve lo dicevo, io, che l’agente Donington avrebbe saputo come muoversi…» replicò Brian Jones, sorridendo compiaciuto.
«Tu, piuttosto: chi sei?» volle sapere Greg, con un pizzico di diffidenza.
«Brian Jones, agente sotto copertura dell’FBI. Sono qui per la sua stessa ragione, signor Donington: per cercare di capirci qualcosa» illustrò Brian, molto tranquillamente.
«Allora perché io non so niente di lei, signor Jones?»
«Naturale: la copertura concessami dal Bureau è totale. Sono stato mandato ad Eglon pochi giorni prima dell’attacco. Il mio obbiettivo primario era sventare l’attentato, cercando di localizzare la cellula terroristica responsabile, individuare le linee principali del progetto e impedire che venisse attuato. Come potrà intuire, signor Donington, la missione è fallita. Le informazioni a disposizione del Bureau erano troppo scarse, e così ci siamo giocati la possibilità di agire in tempo.»
Greg parve pensarci su un momento. I poliziotti rimasero in silenzio ad osservare il conflitto muto che si combatteva negli occhi dell’agente, assorbiti dal dialogo.
«La cosa non mi piace. Perché il Bureau avrebbe dovuto fare a meno di informarmi?» domandò finalmente Gregory, spezzando di nuovo l’assenza di parole.
«Per una questione di copertura, come dicevo. Pochi elementi sono stati informati della mia presenza ad Eglon, per evitare che i terroristi potessero localizzarmi facilmente. Sono convinto che ti hanno cercato, non è vero?»
Gregory parve titubante. Alla fine, dopo averci riflettuto su qualche istante, annuì.
«Ecco, lo immaginavo. Questo perché ti trovavi nelle loro liste. In base a quello che ho capito e ai dati che mi sono stati trasmessi prima che le comunicazioni saltassero, sembra che prima di sferrare l’attacco abbiano raccolto informazioni su tutti gli individui potenzialmente pericolosi della città: agenti dell’FBI, della sicurezza interna, poliziotti… Nomi e cognomi di tutti, indirizzi, gradi e responsabilità. Hanno costruito un archivio dettagliato sugli interessati e lo hanno distribuito a tutti i ribelli in gioco, facendolo memorizzare ai capigruppo.»
«Quindi, hanno il mio nome ma non il tuo. È questo che stai cercando di dirmi?» chiese Greg, che pian piano sembrava iniziare a comprendere e a ricostruire il quadro della situazione.
«Proprio così» approvò Brian, soddisfatto.
«E adesso? Dovresti essere tu ad avere un piano, da quello che ho capito. Ormai io sono compromesso. Sono entrati in casa mia e ho dovuto nascondere la mia famiglia. Ma tu continui ad essere un fantasma, qui ad Eglon, e credo sia un privilegio da non sottovalutare» considerò allora Gregory, abbassando la voce per non farsi sentire dai passanti che li osservavano dall’altro lato della carreggiata.
Un furgone blindato nero, di quelli che adoperavano i rivoluzionari per spostarsi in città, passò loro davanti con un’andatura blanda e svoltò alla curva appena successiva.
«Per adesso mi sono nascosto assieme ai poliziotti, ma prendere un’iniziativa a questo punto è estremamente complicato. Non so come abbiano fatto a mettere fuori uso le comunicazioni, ma ripristinarle sarebbe una buona mossa, tanto per cominciare.»
«L’ho pensato anch’io» confermò Greg, pensieroso.
«Come hai fatto a riconoscerci, oggi in piazza?» intervenne allora Patrick Wieler.
«Diciamo che non siete del tutto invisibili. Anch’io mi sono preso la briga di analizzare i vostri dati e le vostre fisionomie, appena mi è stata confermata la missione ad Eglon. Pensavo che avrebbero potuto tornarmi utili i vostri nomi, e infatti credo proprio che il vostro aiuto sarà prezioso» spiegò Gregory Donington, scrutandoli ad uno ad uno assumendo un’aria d’importanza.
«Per quale motivo in particolare?» s’informò Jeremy, curioso.
«Perché voi poliziotti siete gli unici abitanti di Eglon a possedere ancora delle armi. E se dovremo compiere un’azione contro i ribelli, niente più delle pistole potrà servirci per raggiungere i nostri scopi.»
«A questo punto, se è di armi che abbiamo bisogno, la cosa più conveniente da fare sarebbe trovare gli altri poliziotti» azzardò Phil, emergendo con voce rauca.
«Infatti, proprio così. Ed è anche per questo che vi ho cercati, stamattina. Devo farvi parlare con una persona» riprese, restando sul vago.
«Chi?» volle sapere Brian, interessato.
«Steve Corall. Il vicesceriffo che ho incontrato stamattina prima di arrivare in piazza» rivelò Gregory Donington, lasciando tutti i presenti a bocca completamente asciutta.

Cathy Holmes, seduta sul divanetto di una sala interrata, all’interno dell’appartamento nel quale viveva dal giorno in cui il terminal aeroportuale di Eglon era stato raso al suolo, leggeva senza preoccupazioni l’ultimo romanzo della serie che le era stata consigliata da Gerald.
Le cose andavano bene, lì dentro. Gli uomini mascherati erano gentili con lei, e Gerald lo era naturalmente più di tutti gli altri. Faceva in modo che le dessero sempre porzioni abbondanti ed era riuscito persino ad ottenere una camera più spaziosa tutta solamente per lei. Era l’unica, in quell’appartamento, ad essere autorizzata a girare senza maschera. Non conosceva i nomi di tutti gli altri. Soltanto quello di Gerald. E non aveva mai visto nessuno di loro in faccia, ma la cosa non la intimoriva. In fondo, finché c’era Gerald poteva stare tranquilla.
Fuori erano già calate le tenebre, e le luci nell’appartamento erano state accese ormai da un paio d’ore. Non si accendevano subito, le avevano spiegato, perché solitamente adoperavano un generatore. Ultimamente, però, le era stato detto che l’appartamento sotterraneo era stato allacciato alla rete elettrica cittadina e che perciò non c’erano più problemi di sorta nell’uso della corrente.
Comodamente rilassata sul divano, Cathy leggeva e divorava le pagine una dietro l’altra, sfogliando il romanzo alla velocità con la quale certi nuotatori professionisti si lanciano in acqua e rimbalzano sui bordi della piscina, quasi fluttuando per raggiungere le sponde opposte.
Le lampade posizionate sopra il divano, applicate alla parete, davano l’impressione di essere recenti acquisti dell’Ikea. Facevano parecchia luce, e a Cathy non dispiaceva affatto perché in questa maniera non doveva sforzare troppo gli occhi. Ancora una decina di minuti, si disse, e poi si sarebbe preparata per la cena. Gerald doveva essere ormai di ritorno. Di solito arrivava a quell’ora lì, la sera, fatta eccezione per alcuni casi straordinari in cui aveva faccende aggiuntive da sbrigare.
Finisco il capitolo e chiudo, decise, e quando riprese a leggere dopo aver voltato pagina si ritrovò a non vedere più niente. La luce si era spenta. Improvvisamente, Cathy percepiva soltanto la solida consistenza del libro tra le mani, della carta sottile sulle dita, ma non riusciva più a scorgere nemmeno la sagoma delle pagine. Era tutto buio. Come se la corrente fosse stata interrotta.

Il comandate Smith, dalla sommità della bassa collinetta che troneggiava sull’accampamento, osservava la pianura scura in direzione della città di Eglon. Sembrava tutto tranquillo, e l’aria quella sera era particolarmente fredda. Più del solito, perlomeno. Il che significava che l’inverno cominciava ad avanzare, e che le prime linee dell’estate stavano a poco a poco retrocedendo sotto i colpi dell’avanguardia autunnale.
D’un tratto, le mille luci della città di Eglon in lontananza si spensero all’unisono, facendosi inglobare dall’oscurità. Ecco fatto: l’erogazione della corrente elettrica era stata troncata. Adesso, Eglon avrebbe cominciato a vivere un blackout infinito.

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