C’erano davvero poche persone, in paese, che fossero in
grado di ricordare l’origine di quel piccolo agglomerato di case sgangherate.
Una di queste era Antonio, proprietario, gestore, amministratore e unico
cameriere di una tavola calda dal caratteristico nomignolo di “Luna Storta”,
che attirava una clientela la cui età media sfiorava quella del leggendario
Matusalemme. Ad Antonio l’aveva raccontata suo nonno quand’era bambino, e anche
se ogni tanto gli capitava di dimenticarsi le cose – Alzheimer, aveva
diagnosticato con aria severa il dottore, ma Antonio non aveva mai capito fino
in fondo che cosa diamine volesse dire quella parola tedesca; mica era crucco,
d’altro canto – questa non se l’era mai lasciata sfuggire di mente. La conservava
in un angolo apposito nella sua scatola cranica, sopra una mensola che di tanto
in tanto, fatto carburare il secondo bicchierino di rosso intorno alle dieci
del mattino, si prendeva la briga di spolverare con paziente cura.
Il paese era più che altro un modesto condensato di
vecchie fattorie in aperta campagna successivamente riconvertite ad abitazioni,
come rimasugli di carne e verdura compattati in un minuscolo dado da brodo. Il
cuore pulsante del centro abitato era una chiesetta di pietra, accompagnata
come una dama all’altare da un alto campanile moderno con il tetto spiovente –
un pugno su un occhio, lo giudicavano i più, ma visto da lontano non si poteva
certo dire che non facesse il suo effetto – che era stato progettato e messo in
piedi dalla ditta del figlio di Gilberto, il quale era invece un semplice
contadino con le tasche bucate e la passione per il tabacco da masticare.
Pochi dunque, tra i quali figurava per l’appunto Antonio,
sapevano che il paese era storicamente sorto – o, forse, sarebbe stato meglio
dire sbucato – in prossimità di una
vecchia pista di atterraggio per gli aeroplani che in tempo di guerra era
servita ai tedeschi per tenere sotto controllo il traffico dei rifornimenti, ma
sui resti della quale si coltivava ormai granoturco da almeno mezzo secolo. La
pista, in passato, era costituita essenzialmente da un lungo tratto rettilineo
di terra battuta sulla quale si facevano atterrare e decollare gli aerei
carichi di vettovaglie, mentre la torre di controllo – se così la si poteva effettivamente
definire – era rappresentata da un casotto di legno senza tetto e con una sola
finestra affacciata sulla pista, che alla fine della guerra era arso in un rogo
tanto fulmineo da essere stato acceso al tramonto e aver smesso di fumare verso
l’alba.
Ma la storia più interessante, a conti fatti, non era
quella dell’aeroporto – nome un po’ troppo altisonante, per quel campo seccato
dal sole – in sé, bensì quella dell’aereo scomparso.
L’aereo scomparso era un banalissimo velivolo di trasporto
tedesco con una stiva tanto piccola da poter invidiare il bagagliaio di una Porsche. Trasportava generi di prima
necessità quali liquori, polvere da sparo e sigarette e si era volatilizzato prima
di arrivare a destinazione il 19 febbraio del ’44, o forse il 20 o magari
persino il 21. L’ultima segnalazione di avvistamento era avvenuta circa quindici
chilometri prima dell’aeroporto, e poi più niente. Quella volta i tedeschi si
erano incazzati a morte, convinti che fossero stati quei cani dei partigiani a
farglielo fuori, per rubargli alcol e cicche e per fabbricare armi di
distruzione di massa con il mezzo chilo di polvere da sparo sottratto. Avevano
tenuto prigionieri un paio di contadini prelevati dai dintorni per interrogarli
e alla fine li avevano ammazzati, ma dell’aereo non si era scoperto nulla.
Fino al 18 marzo del 2013, in circostanze quanto mai
inspiegabili. Accadde verso le due di notte, forse le due e mezza, e a narrare
la storia completa in paese fu l’indomani Carlo. Carlo era il nipote di
Filiberto, che ci aveva lasciato le penne, assieme a mezzo campo con una
vecchia fattoria diroccata, l’anno prima, consegnando tutto in eredità al
figlio Emanuele, che dopo tre mesi era andato d’infarto. Seduto al tavolo della
locanda di Antonio, raccontò che era fuori a fumarsi una cicca perché non
riusciva a dormire per il trambusto del figlioletto che piangeva – aveva sei
mesi e per poco aveva mancato l’occasione di conoscere quel beone del nonno.
Aveva sentito tutto su un colpo il rombo del motore di un aereo, e un attimo
dopo eccolo lì, come materializzato dal nulla, cozzare contro la vecchia
fattoria diroccata di Filiberto che si trovava mezzo miglio più in là tra i
campi.
La fattoria aveva preso fuoco. Non c’erano corpi, il
mattino dopo, tra le macerie, e neppure resti di un aereo. Solo un vecchio
diario mezzo bruciacchiato e scritto in tedesco, che riportava fedelmente le
quantità di liquori, polvere da sparo e sigarette trasportati da un aeroplano
nel lontano ’44.
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