giovedì 22 agosto 2013

Solo andata, no ritorno - 8

«Dove state andando con questo treno, ragazzi?» s’informò il controllore mentre salivano la strettissima scalinata interna nascosta dietro la biglietteria.
«Firenze» rispose prontamente Roberto, notando che Francesca non aveva per niente voglia di parlare.
«A trovare alcuni amici o per farvi un giro da soli?»
«Da soli. Diciamo che l’idea è quella di risolvere alcune questioni in sospeso» spiegò Roberto con una certa cautela, evitando di lasciare che il problema vero e proprio trasparisse attraverso le sue parole o il tono di voce.
«Hm hm» mugugnò il controllore, per far intendere che aveva capito. «Be’, spero che questa sosta imprevista sia breve. Quanto rimarrete a Firenze?»
«Tre giorni.»
«Cerchiamo di non farvi perdere il primo, allora» concluse, e aprì la porticina in cima alle scale, rivelando di nuovo il cielo livido.
Uscirono sul tetto della stazione e Roberto ebbe così modo di guardarsi rapidamente attorno. Era un posto dimenticato da Dio, spoglio e isolato. Attorno vedeva solo distese di campagna a perdita d’occhio. Il profilo di un campanile lontano, seminascosto dagli alberi. La stradicciola che abbandonava il parcheggio della stazione e si immergeva nel verde, soffocando in mezzo alla vegetazione e ricomparendo a tratti un po’ più in là. Non riusciva a scorgere alcun incrocio, il che significava che la strada principale doveva essere distante. E lo stesso valeva per il paese più vicino. Probabilmente quello del campanile sullo sfondo, troppo piccolo per essere a meno di una mezza dozzina di chilometri di distanza.
«È una piccola fermata» disse il controllore, come se avesse letto i pensieri di Roberto. «Non ci sono grossi centri abitati qui intorno. Ma le stazioni si trovano tutte a distanze più o meno regolari, e quella precedente era troppo distante dalla prossima per poter coprire la zona in cui ci troviamo. Così è stata aggiunta questa stazione. La stradicciola che va dal parcheggio si ricongiunge alla strada principale a un paio di chilometri da qui. La strada principale, a sua volta, mette in collegamento una decina di paesi che altrimenti non avrebbero potuto usufruire in alcun modo della linea ferroviaria.»
«Conosci bene questo posto» notò Roberto, mentre guardava Francesca avvicinarsi pian piano al bordo del tetto e accendere il cellulare.
«È solo perché questa è una stazione particolare, ecco tutto. Mi piace sapere dove vado, quando salgo in treno, e conoscere le fermate di una tratta può essere utile anche nel caso in cui i passeggeri chiedano informazioni su dove scendere. Faccio il mio lavoro.»
«Voglio chiederti una cosa» esordì Roberto, senza guardare il controllore negli occhi. Finse di ammirare il panorama, anche se in realtà c’era ben poco da guardare.
«Vediamo se posso risponderti.»
«Penso che tu non ci abbia detto tutto, mentre eravamo in treno» affermò, con un tono di voce molto controllato. Percepì l’ansia sul volto e nel respiro del controllore. Era stato diretto, ma andava bene così. Era meglio che girarci intorno senza concludere niente.
«È vero, è così» rispose l’uomo dopo qualche istante di esitazione. Lo disse con un velo di amarezza e un pizzico di titubanza.
Roberto per un momento si sentì gelare. Ma non parlò.
«Cerca di capire, però. Non potevo dirlo là dentro, in quel vagone affollato. Non davanti a tutte quelle persone preoccupate. Certe volte è meglio tacere, piuttosto che creare allarmismi inutili. Lo sappiamo solo io e Nicola, e preferirei che tu non lo dicessi a nessuno, quando torneremo sul treno.»
«Sicuro» lo tranquillizzò Roberto, sentendo di essere a un passo da una verità estremamente difficile da digerire.
«Quando il treno si è fermato in questa stazione, io mi trovato nel vagone sei. Stavo seduto ad aspettare che ripartissimo, e dopo che sono passati cinque minuti ho pensato fosse meglio andare a controllare se il macchinista stesse bene.»
Roberto ascoltava. Ascoltava ma aveva paura di sentire ciò che sarebbe seguito. L’espressione del controllore non prometteva niente di buono. Aveva la fronte aggrottata nella grottesca caricatura di un cane bastonato, e una goccia di sudore gli rotolava lungo la tempia malgrado il freddo.
«Ho attraversato i vagoni lentamente, rassicurando i passeggeri che mi chiedevano se fosse tutto quanto in ordine. Di solito non ci si ferma a lungo, nelle stazioni piccole. Un paio di minuti e si riprende la corsa. I passeggeri abituali sollevavano già alcune perplessità, e mi hanno fatto perdere un po’ di tempo. Sono arrivato in fondo quando ormai eravamo fermi da dieci minuti, e ho trovato il signor Nicola che mi fissava con aria sconcertata.
«Gli ho chiesto se fosse tutto a posto. Non lo conoscevo, e mi ha detto di essere un ex dipendente di Trenitalia. Gli ho domandato di nuovo se ci fosse qualche problema, e mi ha risposto di guardare io stesso. Così ho guardato.
«La cabina di guida era vuota. Chiusa dall’interno, ma vuota. Nessuno sul sedile, nessuno a terra. Ho guardato attraverso il vetro di quella porta per quasi cinque minuti interi, prima di convincermi del fatto che il macchinista non c’era più. Che era sparito, e che per questo motivo il treno non sarebbe potuto ripartire.»

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