lunedì 12 agosto 2013

Accordi nel Buio - 1

La notte scura risplendeva delle mille luci della città. Era una visione mozzafiato, un panorama da far perdere la testa. Torreggianti e imponenti edifici si innalzavano come offerte votive dedicate al cielo e alle stelle, accolti con un pallido sogghigno dalla luna piena che sorvegliava e presiedeva dal suo lontano trono posizionato al centro del firmamento.
L’uomo vestito di un abito bianco candido percorreva il marciapiede facendo risuonare dei propri passi l’immobile silenzio della notte. Sorrideva, ma non perché fosse contento. Sorrideva, ma dentro percepiva una profonda tristezza. Sorrideva, sorrideva e camminava senza parlare, senza vedere ciò che aveva davanti, senza udire il rumore ritmico dei propri passi sull’asfalto, senza percepire il terreno solido che aveva sotto di sé. Gli pareva di muoversi nel nulla, in una totale assenza di spazio o gravità, al di fuori di ogni regola naturale esistente. Lui poteva tutto, era libero di fare ciò che gli pareva. Allo stesso tempo, però, era vincolato, non poteva agire secondo la propria volontà, avvertiva di essere manovrato da qualcosa che stava al di sopra di lui, come un’inanimata marionetta mossa da fili invisibili, un semplice pezzo di legno intagliato e colorato che veniva reso vivo dai giochi delle dita di una mano.
Il battito d’ali di una farfalla e il mondo viene sconvolto. Così ruotano i freddi ingranaggi dell’esistenza divorati dalla ruggine.
Gli sembrava di aver letto questa frase da qualche parte, in un libro di filosofia o qualcosa del genere. O magari l’aveva sentita altrove? Poteva anche trattarsi di una citazione. Non ne era sicuro, perciò preferiva non ipotizzarne la provenienza troppo alla leggera. In ogni caso, la trovava quanto mai veritiera. Esprimeva non soltanto la sua condizione personale, ma quella dell’intera umanità pensante.
Avvertiva degli accordi nel buio. Accordi di una chitarra elettrica, una mano che correva veloce sulle corde e spandeva un’armonia antica come il mondo, che appagava la sua mente per tutti gli sforzi che aveva dovuto affrontare fino ad allora. Chiuse gli occhi e ascoltò in silenzio, fermo in mezzo al marciapiede. Lo sapeva che quella musica non era nell’aria. Quegli accordi si trovavano solo dentro di lui. Nelle tenebre della sua mente.
Osservò le stelle. Distingueva, tra quei mille occhi che lo guardavano luccicando dal profondo dello spazio, le principali costellazioni. Le aveva studiate per conto proprio, perché i segreti dell’universo lo avevano sempre affascinato. Sapeva che quella sera non si sarebbe verificato niente di particolare nella volta celeste, ma voleva starsene lì a guardare le stelle ugualmente. Peccato soltanto per tutte le luci della città che impedivano di scorgere bene l’intima immensità di quella cupola scura e punteggiata di astri che sovrastava il mondo – ma, dopotutto, anche quelle luci gli piacevano.
Gli accordi di chitarra erano cominciati quella sera subito dopo cena, e aveva immediatamente capito che volevano che lui uscisse. Ormai il linguaggio della musica non celava in sé più nulla di incomprensibile ai suoi pensieri. Non sapeva perché li avvertisse, ma comprendeva che cosa volessero da lui. Le note, lentamente, lo guidavano fin dove volevano che arrivasse, e lì succedeva sempre qualcosa di imprevisto. Non sarebbe capitato nulla nella volta celeste, ma lì, al centro della città, invece… Be’, questa era tutta un’altra storia.
Gli capitava da quando aveva quattro anni, suppergiù. Ricordava quando una volta, in terza elementare, durante una lezione di storia aveva interrotto la maestra domandandole che cosa fosse quella musica e da dove venisse. La maestra, con sguardo interrogativo, gli aveva chiesto di spiegarsi, e lui le aveva risposto di mettersi in ascolto. Siccome nessuno aveva udito nulla, la maestra si era preoccupata e gli aveva detto di andare in bagno a sciacquarsi il viso. E quando lui si era ritrovato davanti allo specchio, in bagno, era accaduta una cosa impensabile: all’improvviso, si era reso conto che la musica nella sua testa aveva assunto un’intonazione vittoriosa, come se venisse eseguita una marcia trionfale. La musica lo voleva lì per assistere a qualcosa. E, infatti, un attimo dopo, il suo compagno di classe Ronnie, che quel giorno nel registro figurava assente, se ne era uscito in tutta tranquillità da uno dei bagni, completamente bagnato fradicio da capo a piedi.
«Ronnie, cos’è successo?» gli aveva domandato sorpreso con la sua voce da ragazzino. Si era sporto oltre la figura dell’amico e aveva intravisto che l’interno del bagno era tutto allagato, persino le pareti, addirittura il soffitto.
«Il bagno è esploso» si era limitato a biascicare confuso Ronnie, con gli occhi stralunati e lo sguardo stranito. Ricordava che quella volta era scoppiato a ridere, e non gli era importato poi molto se era stato mandato dal preside, il quale aveva immediatamente convocato i suoi genitori. Non era stato lui a far esplodere il bagno. Il bagno era semplicemente esploso per conto proprio, e lui era arrivato lì giusto in tempo per godersi la scena.
Alla fine era stato scagionato, perché si era scoperto che lo scoppio era stato causato da un problema con le tubature, e lui non poteva assolutamente averci niente a che fare. Si era risparmiato una bella ramanzina da parte dei genitori, che non aveva tuttavia tardato ad arrivare quando la settimana successiva, alzatosi da tavola durante il pranzo e corso prontamente fuori in giardino, spinto dagli accordi di una canzone sconosciuta che lo faceva fremere, aveva ritrovato il cane dei vicini con la bocca sporca di sangue riverso sul loro giardino, evidentemente vittima di qualcuno che l’aveva sadicamente bastonato a morte.
In quell’occasione papà e mamma avevano davvero pensato che fosse stato lui, perché quando erano usciti dieci minuti dopo lo avevano trovato accucciato accanto alla bestia, e lì di fianco c’era un bastone insanguinato, l’arma del delitto, che guarda caso veniva proprio dal loro garage. Aveva spiegato di averlo lasciato fuori la sera prima, che non era stato lui ad uccidere il cane. Aveva anche pianto, ma non era servito a nulla. Alla fine avevano deciso di far sparire il bastone, assieme a tutte le prove che potessero incriminarlo, e di dire ai vicini che non avevano idea di chi fosse stato. Ma sarebbe stata l’ultima volta che l’avrebbero coperto, aveva soggiunto papà con severa espressione ammonitrice.
Adesso, osservava le stelle, e aspettava che di nuovo accadesse qualcosa. La musica l’aveva avvertito: di lì a poco si sarebbe verificato un avvenimento assolutamente inaspettato, del tutto impensabile, che a giudicare dagli accordi di quella chitarra elettrica solitaria gli sarebbe rimasto impresso nella memoria per tutta la vita.
Era incredibile. Non riusciva a definire bene le sensazioni che provava, eppure quella musica sembrava sussurrargliele direttamente nelle orecchie, come se non vi fosse nulla di più ovvio al mondo. Era terribile, con quella tristezza dentro, osservare ciò che lo circondava e pensare che il mondo, nonostante tutto, andava avanti. E avrebbe continuato ad andare avanti anche senza di lui, in fin dei conti, ma restava il fatto che lui c’era, e non se ne sarebbe andato, malgrado un’insistente voce cupa che dentro la sua scatola cranica gli suggeriva: falla finita.
In mezzo agli accordi della chitarra si mescolarono le strazianti urla di alcuni cani, che abbaiavano da uno dei cancelli delle tante abitazioni che gli sfilavano vicino. Erano pastori tedeschi, dalla voce cava e inflessibile. Latravano e gridavano, inserendosi perfettamente nelle note che le corde pronunciavano con un tono più cristallino e infinitamente puro.
Osservò con aria assente tutto ciò che aveva attorno, per non dire addosso: la strada, le auto che passavano, con le gomme perfettamente aderenti all’asfalto, i volti che sfrecciavano al di là dei parabrezza, i sospiri del vento che gli accarezzavano la pelle, gli alberi che li assecondavano piegando le foglie e i rami al loro volere, gli edifici che si susseguivano tutti uguali, opere di centinaia di uomini che li avevano costruiti dando loro forma dalla materia che la natura aveva messo a disposizione. Sì, tutte le cose che vedeva erano concrete. Ma anche la musica era concreta. E quel senso di claustrofobia che provava, una morsa al cuore che gli adombrava la mente e lo stordiva, non poteva che essere reale. Gli accordi gli facevano provare la sensazione di un piacevole, tiepido, soffuso alito di vita. Ma forse era solo un’emozione passeggera, che presto si sarebbe dissolta.
Gli faceva male vedere che tutto il mondo andava avanti, perché il suo, di universo, quello che si trasformava incessantemente dentro la sua testa, era stato sconvolto. Non dalla musica. No, quella musica che sentiva era l’unica amica alla quale potesse affidarsi in un momento tanto carico di tensione e di sofferenza. La musica lo stava portando dove nuove sensazioni avrebbero sostituito per un po’ quelle tenebrose che lo stavano soffocando. Il suo universo era stato distrutto da un’altra compagna che credeva gli sarebbe rimasta accanto per il resto della vita.
Venticinque anni. Venticinque, maledizione! Non erano roba da niente, anzi, al contrario, erano alla lunga una buona metà della sua vita. Venticinque. Avrebbe voluto piangere, ma l’aveva già fatto, e le lacrime che aveva versato non l’avevano aiutato a stare meglio. C’erano solo quegli accordi che si protraevano nel buio a dargli veramente una mano. Le lacrime, perciò, era meglio tenersele da parte.
Eh già, qualcosa sarebbe successo di lì a poco, e francamente non vedeva l’ora di scoprire di che cosa si trattasse. La chitarra suonava, suonava e suonava, e lui sorrideva, sorrideva e sorrideva, falsamente, tristemente, con un volto segnato dall’amarezza e, forse, anche dal rimpianto.
Non posso più farcela ad andare avanti così. Non posso e non voglio farlo.
Queste parole racchiudevano un significato ben più intimo di quanto le sue lacrime potessero esprimere. Erano forse le ultime parole che ricordava di lei. Tutto quello che era venuto dopo, immancabilmente, si era diradato, sciogliendosi in un’uniforme nuvola purpurea che gli aleggiava nel cervello senza posarsi da nessuna parte. Non posso e non voglio…

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