mercoledì 21 agosto 2013

Accordi nel Buio - 4

Gli accordi della chitarra elettrica si fecero più rapidi e potenti, come se un paio di mani ben più abili si fossero posate sulle corde per farle vibrare con maggiore foga. Era giunta l’ora, considerò dentro di sé, e si mise tranquillo ad attendere ciò che sarebbe avvenuto di lì a qualche istante. L’unica certezza che aveva riguardo ciò che sarebbe successo era che a lui non sarebbe capitato nulla di brutto, perché la musica lo avrebbe protetto. La musica lo proteggeva sempre.
Un botto sordo scosse la terra, fuggendo via all’istante, e le luci dei lampioni si spensero. Per qualche secondo, tutto rimase perfettamente immobile, l’aria assente, le stelle più distanti, la luna nera, e gli accordi nel buio prodotti dalla chitarra elettrica furono l’unico rumore che percepì. Poi, subito dopo, il caos si riversò nei suoi occhi come in un unico balzo.
Un’enorme crepa scura si diramò rapidamente nell’asfalto come un fulmine giù dalle nuvole di un temporale, e gli edifici attorno cominciarono a sprofondare sotto il livello della strada, risucchiati dalla terra. Un polverone immenso avvolse il quartiere stringendolo nel proprio pugno, e gli allarmi antifurto delle auto parcheggiate a lato dei marciapiedi iniziarono ad intonare un coro di acute voci stridenti. Il cavalcavia che aveva di fronte, retto da grosse travi di acciaio incrociate, si accartocciò come una scatola di cartone vuota pressata tra i grossi palmi callosi del magazziniere di un supermercato, e le macchine che vi stavano passando sopra in quel momento si slanciarono senza un minimo di indugio verso il nulla più assoluto, le luci dei fari che si spegnevano di botto al contatto dei musi con l’asfalto dissestato.
In tutta questa distruzione, lui rimase perfettamente immobile, attonito e intontito, e la chitarra smise di suonare lasciando ad aleggiare nel vento un’impercettibile eco simile a forti scariche elettriche.
Non si trattò di un terremoto. Quel quartiere della città si trovava su di un’area paludosa bonificata quasi cent’anni prima, e il terreno tutto d’un tratto, stanco di sostenere quella gravosa mole di peso, aveva ceduto. Tutto si concluse in non più di una quarantina di secondi, ma il tempo per lui, fermo spettatore della catastrofe, si dilatò fino ad avere la consistenza incorporea di una ventina d’ore abbondanti.
Tuttavia, quando i singulti del suolo si furono placati e il polverone si fu riadagiato al proprio posto, mentre gli abitanti del quartiere rimasti in vita si affacciavano alle finestre degli edifici circostanti o scendevano in strada con le mani tra i capelli e indosso solamente vestaglie e pigiami, i cupi accordi della chitarra elettrica ricominciarono, facendolo inaspettatamente sobbalzare.
Il panico gli picchiettò garbatamente sulla spalla, e non appena si voltò fu suo. Non sarebbe successo più nulla lì. Il disastro era finito. Ma la musica sussurrava che qualcos’altro stava per capitare da un’altra parte, e gli impose di seguire la direzione che gli indicava, cosa che fece, sebbene controvoglia.
Si rimise in marcia andando dietro al marciapiede, facendo attenzione alle buche e alle crepe che lo attraversavano, e in breve raggiunse un altro quartiere della città dove tutto tornava di nuovo normale, dove ogni cosa era integra e al proprio posto e dove la luce dei lampioni lungo le strade riprendeva a combattere la sua infinita guerra contro la notte, cercando di rischiararla e di avere la meglio su quell’oscurità che si divorava ogni angolo del cielo, persino la luna e tutte le stelle.
Si ritrovò inspiegabilmente a pensare a Betty, ma questa volta non sconsolatamente come prima. Non considerò che avevano vissuto insieme venticinque anni della loro esistenza, né rimpianse il fatto che lei l’aveva lasciato dopo tutto quel tempo. Pensò soltanto che l’amava ancora, e che avrebbe dato tutto quello che aveva pur di riaverla indietro.
L’aveva lasciato perché negli ultimi anni aveva smesso di parlarle e si era chiuso in se stesso. Ogni sera, quando ritornava dal lavoro, si sedeva accanto a lui sul divano, chiedendogli come fosse andata la giornata, e lui si limitava a qualche vaga parola di circostanza. A pranzo e a cena non apriva bocca, così come durante il resto della settimana. La goccia che aveva fatto traboccare il vaso era stata quando era uscito di notte, senza dirle nulla, ed era ritornato alle sei del mattino sprovvisto di una spiegazione plausibile da darle. Era stata in pensiero, gli aveva berciato contro, e a lui non interessava nulla.
In realtà, in quell’occasione era uscito ascoltando dei sonori squilli di tromba che l’avevano portato all’interno di un night club dove un killer ingaggiato dalla mafia cinese aveva freddato sei avventori del locale che stavano scommettendo forte su una partita del campionato di football, ma non aveva assolutamente potuto rivelarlo a Betty, altrimenti lo avrebbe preso per un pazzo, e non aveva avuto il tempo di architettarsi una scusa, così su due piedi, con il sonno che bussava alle porte per non aver chiuso occhio durante l’intera nottata.
Era andata in questo modo, e quella sera Betty Loghan si era fatta i bagagli e, piangendo, era uscita di casa per trasferirsi dalla sorella, che stava dall’altra parte della città, e non far più sentire alcuna notizia di sé per tutti i giorni a venire.
Gli accordi seguitavano nel buio, incessantemente, e lo guidavano attraverso le scure strade della città completamente desolate. Non sapeva dove lo stessero portando. Era stanco, ma doveva proseguire. La chitarra elettrica aveva mantenuto il suo suono potente e bruciante, ed era sicuro che ciò significasse che l’incidente al quale di lì a poco avrebbe assistito sarebbe stato terribile almeno quanto il precedente.
Finalmente la musica gli indicò che era giunto a destinazione e lo fece voltare alla propria destra, invitandolo a inoltrarsi nel giardino della casa avvolta nelle tenebre che era la sua meta.
Si affacciò alla finestra, e una luce si accese all’improvviso. Un cieco terrore lo abbrancò senza dare alcuna avvisaglia del proprio arrivo. Conosceva quella cucina, la conosceva bene!
Deglutì a fatica e appoggiò i palmi delle mani aperte sul vetro, lasciandovi le proprie impronte sudate. C’era un lungo coltello appoggiato al ripiano della credenza con il filo della lama lucida rivolto verso l’alto, e una chiazza di olio sul pavimento che era stata malamente strofinata con una spugna ma non era andata via del tutto.
Capì ogni cosa, immediatamente, e gridò, ma dall’interno sua moglie Betty non lo udì, intontita dal sonno com’era, e mosse un paio di passi incerti stropicciandosi gli occhi. Posò la pantofola di pelo rosso che loro figlio Danny le aveva regalato quasi dodici anni prima sui rimasugli della chiazza d’olio d’oliva extravergine e scivolò
(questi affari ti fregano, non dimenticartelo)
in avanti, finendo dritta contro il coltello lasciato sopra la credenza con la lama all’insù.
Da fuori chiuse gli occhi, annebbiati dalle lacrime, e si lasciò conquistare da un’ondata di singhiozzi davanti al vetro della finestra sul quale era schizzata una lunga striscia di sangue scarlatto. Nella sua mente balenarono gli occhi stupiti di Ronnie e quelli vitrei di Buddy, il cane dei vicini, di Henry Sorton, della ragazza nuda nella camera d’albergo, degli uomini nelle automobili che erano cozzate l’una contro l’altra, del tizio che si era lanciato giù dal tetto del grattacielo di fronte all’ufficio dove lavorava papà, di tutte quelle persone che aveva visto morire davanti a sé, e adesso anche quelli di sua moglie Betty, che tanto aveva amato e tanto amava, spenti ed esanimi.
Gli accordi nel buio si interruppero, dissolvendosi nella sua testa, e la chitarra elettrica che li aveva generati fino a quel momento si infranse contro il pavimento della sua scatola cranica, frantumandosi e lanciando schegge di legno per ogni dove, mentre le corde finivano di vibrare il loro ultimo sospiro di morte.

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