lunedì 27 ottobre 2014

Le Anime di Eglon - Prima Stagione - Episodio 4

«David, puoi venire qui un momento?»
«Arrivo, mamma» rispose il ragazzo lasciandosi cadere il taglierino nella spaziosa tasca del grembiule e dirigendosi verso le casse in fondo al supermercato.
«Puoi darmi il cambio un secondo? Devo andare a prendere altro denaro in cassaforte» gli sussurrò la madre nell’orecchio, e David annuì andandosi a posizionare dietro la cassa e rivolgendo un classico sorriso da bravo commesso (così lo definiva suo padre, il “sorriso da bravo commesso”) alla signora McField, che aveva letteralmente ricoperto il nastro trasportatore di scatolette di cibo per gatti.
«Buongiorno signora McField, come sta oggi?» domandò David mentre sua madre si allontanava di gran carriera, scoccando sorrisi e ammiccamenti a destra e a manca da brava proprietaria.
«Oh, molto bene, grazie David. E tu?» ripropose la signora McField, con quei capelli tutti grigi e impomatati e le rughe inefficacemente sepolte sotto uno spesso strato di fondotinta, che le lasciava un alone più chiaro di pelle naturale ai margini dell’ovale del viso.
«Non c’è male. Fa piuttosto caldo, e almeno qui dentro c’è l’aria condizionata» ironizzò David con una strizzatina d’occhio. A dirla tutta avrebbe preferito dover sopportare l’afa ed essere libero di uscire come i suoi amici, invece di stare lì a dare una mano a mamma e papà. In fondo, però, non aveva scelta. Se intendeva mettersi da parte un po’ di denaro prima che ricominciasse la scuola, le alternative si riducevano a una quantità schifosamente esigua.
«Grazie, David» lo salutò la donna sollevando a fatica la propria borsa della spesa e incamminandosi con lo scontrino in mano verso l’uscita del negozio.
«Grazie a lei signora McField, e arrivederci!» rispose cortesemente David, voltandosi verso la cliente successiva in fila alla cassa.
Si immobilizzò, pietrificato. Gabriella lo squadrò con un ampio sorriso e ridacchiò sommessamente, con un contegno che, in mancanza di una vena descrittiva più spiccata, David si sarebbe limitato a definire semplicemente regale. Eppure era così avvenente che nessuna sovrana avrebbe potuto eguagliarla. Il suo viso era perfetto, limpido e luminoso. I suoi capelli dorati erano raccolti in una coda di cavallo. Aveva gli occhi grandi e rotondi, di un blu così intenso da sembrare addirittura irreale, e la pelle liscia con un accenno di abbronzatura. Indossava una canottiera piuttosto sobria, con una scollatura magistrale che lasciava scorgere le spalline rosa del reggiseno, e una minigonna in jeans che nascondeva a malapena la metà delle sue belle cosce.
«Ciao, David» mormorò Gabriella Higgins radiosa. David deglutì a vuoto. Non si aspettava di trovarsela lì davanti, così, di punto in bianco. Aveva in mano una confezione da sei lattine di Pepsi e una tavoletta di cioccolato al latte. Le sue unghie erano limate e smaltate di fresco, rosa come le spalline del reggiseno che indossava. David dovette compiere uno sforzo immane per non perdere i sensi.
Gabriella gli piaceva. Era dalle elementari, a dire il vero, che gli piaceva. E non aveva mai avuto il coraggio di dirle nulla. Lei pareva saperlo già, ma non gli aveva mai rivolto la parola. E non si era mai trovato a doverla servire alla cassa, impreparato come in questo momento.
«Ho solo queste» gli disse mostrandogli con un cenno della mano la Pepsi e la tavoletta di cioccolato. Gli sorrise di nuovo, ma David la fissava imbambolato.
Fuori, al di là della vetrata, passò un furgone blindato nero, la targa scintillante. David stava per risponderle, quando ci fu un’esplosione. Il botto sordo della detonazione rimbombò all’interno del supermercato, e la gente incominciò a urlare.
Gabriella lasciò lì la sua Pepsi e la tavoletta di cioccolato e si precipitò fuori a vedere.
Veniva dal municipio, all’altro lato della strada. Una delle finestre era avviluppata dalle fiamme e rigurgitava nell’aria una nuvola di fumo scuro e denso come una colata di catrame.

LE ANIME DI EGLON
PRIMA STAGIONE
EPISODIO 4
TUTTE LE ARMI A MAIN STREET

«Stanno per radere al suolo la centrale di polizia di Eglon?» ripeté allibito Jeremy Barton.
«Sì, e non abbiamo più di tre minuti per battercela, prima che quei due lì per terra vengano raggiunti dai rinforzi» replicò Brian Jones accennando ai due uomini col volto coperto che si dibattevano sull’asfalto. Quello con la maschera verde sulla faccia stava strisciando lentamente in direzione della propria mitragliatrice. «Non ci provare, tu!» lo fermò Brian, sferrandogli un calcio sulle costole. «Andiamo!»
Si misero a correre. La via era completamente buia, e le case attorno sembravano deserte. Non una luce a una finestra, non una lampadina fuori da una veranda. Niente di niente, quasi che l’intero quartiere fosse stato risucchiato da un buco nero e rigettato fuori in un universo parallelo in cui gli abitanti venivano automaticamente trasformati in mansueti soprammobili.
«Com’è che hai quella pistola, tu?» domandò Jeremy mentre svoltavano a sinistra e si immettevano nell’ennesima stradicciola secondaria. Aveva il fiatone, ma doveva porgli quell’interrogativo adesso, prima che gli sfuggisse e se ne volasse in quella specie di deposito mentale dove le curiosità inespresse vanno sempre a ficcarsi quando è il momento più adatto per poterle soddisfare.
«Se te lo dicessi, non mi crederesti…» rispose Brian scavalcando con un balzo il muretto di un’abitazione e percorrendo il giardino in tutta fretta, preparandosi a saltare il cancello d’ingresso per ritornare sulla strada.
«Mettimi alla prova» lo sfidò Jeremy. «Sono un poliziotto» aggiunse quasi di riflesso, come se questo piccolo particolare potesse in qualche modo cambiare le carte in tavola.
«Sì, lo so. D’accordo. Io sono dell’FBI
«FBI?» pronunciò Jeremy come per assimilare il concetto. «Abiti qui? Sei di Eglon?»
«Nossignore. Sono qui da una settimana. Al distaccamento di Little Rock correva voce di un possibile attentato in Arkansas. La notizia ci era arrivata da New York, dove sembra fossero state intercettate dall’NSA alcune comunicazioni tra cellule terroristiche. Sai, si prevedeva un attacco in stile undici settembre, se capisci cosa intendo.
«Quando Bin Laden è stato catturato, i giornali di tutto il mondo hanno riportato la notizia che al-Qaeda aveva in mente di organizzare il più grosso disastro ferroviario di tutti i tempi. Il progetto è stato accantonato, dopo che ne sono emerse le informazioni dal computer di Bin Laden. Adesso, a quanto pare, abbiamo appena scoperto quali fossero le loro nuove intenzioni» spiegò Brian abbastanza laconicamente.
Jeremy si fermò. Brian proseguì per un paio di metri, e non sentendolo arrivare si bloccò a sua volta in mezzo alla strada e si girò a guardarlo.
«Vuoi dire che questo è un attacco terroristico?» volle sapere Jeremy, e le parole gli uscirono dalla bocca in un lamento che aveva un che di petulante.
«In caso non te ne fossi ancora reso conto, benvenuto nel Magico Cerchio della Consapevolezza» ribatté Brian Jones sollevando le braccia per indicare tutto ciò che gli stava attorno.
Jeremy inarcò le sopracciglia e aggrottò la fronte, perplesso. C’era una strana luce, negli occhi di Brian. Una luce calda e troppo, troppo baluginante. Una luce che non poteva appartenere a un paio di occhi del tutto normali.
Si voltò e il bagliore delle torce lo accecò, costringendolo a coprirsi il volto con un braccio.

Daniel Green, affacciato alla finestra del bagno, stringeva a sé Betty più forte che poteva, cingendole la vita e cercando di non dare a vedere la propria agitazione.
La finestra era spalancata, e loro due avevano avuto modo di ascoltare l’intero messaggio appena comunicato alla città, amplificato da un megafono che da quella postazione non avevano potuto vedere. Era sconcertante, ma Daniel si era accorto di una cosa: la voce non era una sola. C’erano più voci, che vagavano nell’aria. Daniel ne aveva contate almeno tre, e quando aveva chiesto a Betty se anche lei avesse quell’impressione la ragazza aveva confermato con un cenno del capo, senza aggiungere nient’altro.
Questo significava che almeno tre persone, con altrettanti megafoni, avevano ripetuto all’unisono lo stesso identico messaggio in tre diverse zone di Eglon. Probabilmente, rifletté Daniel, l’avevano fatto perché volevano che tutti sentissero forte e chiaro quel che avevano da dire.
Tutte le armi a Main Street…
Che cos’era, un’invasione? Erano stati attaccati da qualche potenza straniera che si era impadronita nottetempo della città sotto il loro stesso naso? Come avevano fatto a far entrare a Eglon, nel cuore dell’Arkansas, dei carri armati, e soprattutto in che modo erano riusciti a bloccare tutte le comunicazioni?
Ma prima ancora di tutto questo c’è un’altra domanda da porre, la più importante: chi sono?
«Penso che dovremmo ritornare di là…» bisbigliò Betty, richiamando la sua attenzione. Daniel le posò un bacio sulla fronte e annuì, chiudendo la finestra e riaccompagnandola in salotto.
Si sedettero sul divano. A Daniel batteva fortissimo il cuore. Stava cercando di richiamare i pensieri che gli svolazzavano nella testa, ma non ci riusciva. Non era in grado di acchiapparli tutti quanti per metterli insieme. Doveva prenderli uno alla volta, e sviscerarli senza fretta.
Quegli uomini laggiù avevano dato l’ordine di consegnare tutte le armi presso i furgoni blindati che si trovavano a Main Street. Adesso che ci ripensava, quel pomeriggio gli era parso di scorgere uno di quei furgoni passare per Neighbour Street, quando era andato a farsi fare una ricarica al cellulare. Non ci aveva fatto tanto caso, anche se il veicolo era sospetto. Aveva pensato potesse trattarsi di uno di quei furgoni che adoperava la banca per il trasporto valori. Ce n’erano di simili, in circolazione, e non era raro trovarsene uno davanti quando si stava incolonnati per ore in attesa del semaforo per andare al lavoro.
Tutte le armi a Main Street…
Papà aveva un’arma in casa? Sì, si rispose meccanicamente. Anzi, ne aveva due. Una pistola che teneva in camera da letto per protezione personale e una carabina di là in garage, che si portava appresso quando andava a caccia con qualche amico durante le domeniche o nei weekend estivi.
Che cosa doveva fare? Cercare di contattare papà per sentire se sapesse qualcosa? Molto probabilmente era asserragliato nel suo ufficio, in municipio, sommerso da una miriade di carte. Doveva aver sentito l’esplosione, e sicuramente aveva assistito all’annuncio che sembrava provenire innanzitutto da Main Street. Chissà se aveva visto i carri armati anche lui. Chissà se per caso si era già messo in contatto con l’esterno, per chiedere rinforzi.
Poteva anche essere stato catturato, considerò Daniel. Se i tizi che stavano occupando la città erano responsabili dell’attentato di quella mattina al sindaco Donaldston, molto probabilmente era così. D’altro canto, tolto di mezzo John Donaldston era lui, Thomas Green, vicesindaco di Eglon, il principale referente della città. Il capo sostitutivo, per così dire, in ordine gerarchico. Quello a cui spettavano le decisioni più importanti.
E questa era indubbiamente una situazione che richiedeva decisioni importanti.
«Devo andare a cercare mio padre» sentenziò, alzandosi dal divano e recandosi in direzione della camera da letto dei genitori. Chissà dov’era mamma. Stava bene? Sapeva che cosa stava succedendo a casa, oppure era all’oscuro di tutto?
«Sei impazzito?» lo attaccò Betty, il volto distorto in una raccapricciante espressione d’orrore.
«Devo capirci qualcosa. Lui di sicuro saprà che cosa sta succedendo» rispose la voce di Daniel raggiungendola dal corridoio.
«Non puoi andare là fuori» piagnucolò Betty agitata. «Non sai che cosa sta succedendo. Vuoi lasciarmi qui da sola?»
«Sarai più al sicuro se rimarrai qui dentro. Non ti succederà niente» cercò di tranquillizzarla Daniel. Le sue parole venivano da distante, come da un luogo remoto e privo di eco.
«E tu? Tu sarai al sicuro?» ribatté Betty, la voce rotta dalle lacrime.
Daniel riemerse dalla semioscurità del corridoio. Teneva in mano una pistola, e ne stringeva l’impugnatura talmente forte che le nocche erano sbiancate. La guardò e pensò, dentro di sé, che tutto stava capitando troppo in fretta. Fino a quindici minuti prima, stava solo pensando a quanta voglia aveva di scopare con lei. Adesso, la stava implorando di lasciarlo uscire a dare un’occhiata, e di starsene buona in casa ad aspettare il suo ritorno. Buffo, valutò. Ma la verità è che non c’era niente di buffo in tutto questo. Grottesco, rettificò. E, visto che questa etichetta gli parve più appropriata, si avvicinò a Betty, si infilò la pistola nella cintura, le prese la testa tra le mani e la baciò.
«Non mi succederà nulla. Tornerò presto. Sta’ tranquilla.» Detto questo, si allontanò e varcò la soglia di casa.

«Brett!» gridò Susi Donington con le lacrime che le rigavano le guance. Si portò le mani ai lati della bocca per tentare di amplificare il suono della propria voce e riprovò. «Breett!»
Niente. Nessuna risposta. Dov’era finito?
Avvertì un piagnucolio in lontananza, un flebile pigolio che poteva anche essere una risata. Si fiondò in cucina.
«Oddio, Brett, mi hai fatto prendere uno spavento terribile!» esclamò riprendendo fiato. Il bambino era seduto ai piedi della credenza, con le mani protese verso l’alto e grosse gocce scintillanti che pendevano in bilico agli angoli degli occhietti. Lo raggiunse e lo prese tra le braccia, stringendolo forte a sé e facendogli posare la faccia sull’incavo della propria spalla, cullandolo.
«Sssshh, non piangere piccolino mio. Va tutto bene. È tutto a posto.»
Greg aveva passato l’intera giornata chiuso nel suo studio, a scrivere chissà cosa sul suo portatile. Gli aveva portato il pranzo e lui lo aveva consumato sulla scrivania, senza degnarla di uno sguardo. Si era tolto gli occhiali e l’aveva fissata con occhi biechi, quella sera, quando era rientrata nello studio e gli aveva detto che se non veniva di là a mangiare con lei e Brett, be’, quella notte avrebbe anche potuto dormire sul divano.
«C’è qualcosa che non va, Susi, e io sto cercando di capire cosa» le aveva detto semplicemente, e poi aveva inforcato di nuovo gli occhiali e si era rimesso a scrivere al portatile, dandole le spalle.
Era uscito verso le dieci, per aiutarla a mettere a letto Brett. Non si erano rivolti la parola per tutto il tempo, ma quando il bimbo si era addormentato Greg l’aveva presa da parte, in cucina, le aveva dato un bacio sulla fronte e le aveva sussurrato: «Lo sai che non priverei della mia presenza la mia famiglia se non si trattasse di qualcosa di veramente importante. Cerca di capire…»
In quel momento c’era stata l’esplosione. La prima, quella che aveva fatto tremare il pavimento della casa e aveva svegliato il piccolo Brett. Lei si era messa a strillare, correndo in direzione della cameretta del figlio. Aveva solo due anni e non capiva, ma il rumore l’aveva sconvolto e ora urlava a squarciagola, reclamando protezione e dolcezza.
Greg si era barricato di nuovo nel proprio studio e non ne era più uscito. Nemmeno quando c’era stata quella tremenda serie di esplosioni pochi minuti dopo la prima. Susi non sapeva che cosa stesse facendo, ma aveva capito che non voleva essere disturbato. E, per quanto difficile fosse sentirsi sola e indifesa in quella delicata situazione, avrebbe soddisfatto questa sua volontà.
«Sta’ tranquillo Brett, è tutto passato. Papà è qui e ci proteggerà» mormorò all’orecchio del bimbo mentre lo cullava. Si avvicinò alla porta chiusa dello studio di Greg e si sedette sul pavimento del corridoio, accanto al rettangolo di solido legno verniciato dal quale scaturiva l’ossessivo picchiettio di una tastiera al lavoro.
Qualcuno bussò alla porta di casa.
Susi si guardò attorno irrequieta. Aveva abbassato le persiane e serrato ogni finestra, per impedire che qualche malintenzionato potesse entrare. Non aveva idea di che cosa stesse capitando là fuori, ma si rendeva conto che non doveva essere nulla di piacevole. Era in corso un conflitto armato, molto probabilmente. Aveva udito degli spari, alcuni minuti prima. Spari che echeggiavano nella notte, subito dopo una catastrofica serie di esplosioni. Su suggerimento del proprio istinto aveva spento tutte le luci di casa, per evitare che attirassero qualcuno verso la loro abitazione in cerca di un riparo.
La persona che si trovava fuori dalla porta bussò ancora, e stavolta batté le nocche sul legno con più decisione, come a dire che sapeva che c’era qualcuno, lì dentro.
Susi scandagliò disperatamente la porta chiusa dello studio del marito, alla ricerca di qualche segnale che le preannunciasse il suo arrivo in corridoio. Ma non accadde nulla. Non poteva disturbarlo, se la sarebbe presa con lei. Stava facendo qualcosa di veramente importante, le aveva detto, e quando si trattava di una cosa così maledettamente importante lo capiva anche lei che non era il caso di procurargli ulteriore fastidio.
Si avvicinò alla porta d’ingresso silenziosamente, tenendo il piccolo Brett ancora tra le braccia, e sbirciò dallo spioncino applicandovi un occhio spalancato.
Fuori era tutto grigio e indistinto, come lì dentro, ma Susi riuscì comunque a individuare grazie alla luce dei lampioni la figura di un uomo piegato in due, con un rivoletto di sangue che colava dalla bocca e l’espressione sofferente. Si tratteneva la pancia con una mano e teneva sollevata l’altra in direzione dell’uscio, pronto a bussare un’altra volta in caso non gli avesse risposto nessuno. La giacca che indossava era in gran parte intrisa di sangue, e anche la mano che si premeva contro lo stomaco ne era ricoperta.
Susi sussultò di fronte alla visione spettrale, inorridita, e strinse ancora più forte Brett contro di sé. Non riuscì a contenere un singhiozzo sopraggiunto inaspettatamente, e l’uomo di fuori parve accorgersene perché tirò su la testa in direzione dello spioncino e soffocò un gridolino di stupore.
«Signora Donington, mi apra la prego. Sono dell’FBI, lavoro con suo marito. Mi hanno sparato, ho bisogno di parlare con Greg. La prego…» gorgogliò l’uomo oltre la soglia di casa Donington, sfilandosi con la mano libera da una tasca interna della giacca una specie di custodia in pelle simile a un portafoglio ed esibendo di fronte allo spioncino un distintivo dell’FBI con allegato il rispettivo tesserino di riconoscimento.
FBI, già. Ne sapeva qualcosa. Quell’acronimo di tre lettere rappresentava tutto ciò che Susi maggiormente detestava. Era il lavoro di suo marito. Quel lavoro che gli portava via quasi tutto il tempo che avrebbe altrimenti potuto trascorrere con lei e Brett. Quel lavoro che lo teneva distante da lei per ore e ore, piantato davanti a quel dannato computer a ticchettare chissà quali diavolerie sulla tastiera. Se non ci fosse stata di mezzo l’FBI, le veniva da pensare qualche volta, forse la sua famiglia avrebbe potuto essere più serena. Più felice, ecco. Ma purtroppo non era così.
Susi esaminò il volto dell’uomo piegato in due fuori dalla porta e quello della fotografia appiccicata al tesserino che protendeva verso di lei: combaciavano.
«D’accordo» concesse dopo aver gettato un’ultima occhiata alla porta chiusa dello studio di Greg in fondo al corridoio semibuio, quindi fece fare quattro giri in senso orario al mazzo di chiavi appeso alla serratura e aprì la porta, lasciando passare l’uomo agonizzante e richiudendo immediatamente l’uscio, sprangandolo con altri quattro giri di chiave in senso opposto.
«La ringrazio…» tartagliò stentatamente l’agente dell’FBI con la mano ancora premuta sulla pancia, passandole accanto e lasciando cadere un paio di gocce di sangue sul pavimento. Si volse a osservarla e puntò lo sguardo sul bambino che teneva in braccio. Le sorrise.
«Il figlio di Greg?» s’informò, con fare amichevole nonostante la sofferenza che trapelava dal suo sguardo spaventato.
«Sì» confermò Susi, spostando istintivamente Brett dall’altra parte e coprendogli la testa con una mano, quasi che non volesse che suo figlio vedesse quell’uomo ridotto in stato pietoso.
«Dov’è suo marito, signora Donington? Ho bisogno di parlargli… immediatamente» disse con un certo sforzo. Le parole faticavano a uscirgli di bocca, e d’altronde era naturale: con tutto il sangue che doveva aver perso fin lì, era un miracolo che si reggesse ancora in piedi sulle proprie gambe. Susi era infermiera, e queste cose le sapeva. Quell’uomo era davvero molto fortunato ad essere ancora vivo.
«È di là, nel suo studio» rispose indicandogli la porta chiusa in fondo al corridoio. L’uomo le rivolse uno sguardo di riconoscenza e si avviò a passi strascicati in quella direzione, avanzando adagio e continuando a tenersi la pancia come se rischiasse da un momento all’altro di versare tutti i visceri ancora fumanti sul pavimento del corridoio.
Sì, è davvero molto fortunato ad essere ancora vivo. O molto bugiardo…
Questo pensiero le solcò la mente all’ultimo istante, quando l’uomo aveva già posato le dita sulla maniglia della porta dello studio di Greg. E ormai era troppo tardi.
Lo sconosciuto spalancò la porta dello studio, lasciandosi andare la pancia
(oh mio Dio gli usciranno fuori tutte le budella)
e facendosi comparire in mano una pistola spianata, pronto a far fuoco e ad ammazzare a sangue freddo suo marito.
Gregory, scappaaa!!!
Un sibilo spaventoso invase l’intera abitazione silenziosa, espugnandone le stanze, e Brett fu il primo a mettersi a urlare, perché la voce di Susi era ancora intrappolata tra le sue corde vocali come una tigre trattenuta dalle sbarre di una gabbia, incapace di trovare una via d’uscita per districarsi e traboccare.
L’uomo sporco di sangue che aveva appena mostrato a Susi il proprio distintivo dell’FBI si abbatté a terra morto, con gli occhi sbarrati, senza esalare alcun ultimo respiro, imbrattando di sangue il pavimento sulla soglia dello studio di Greg.
Susi restò immobile, esterrefatta. Greg uscì piano piano dal corridoio grigio, avvicinandosi a lei e a Brett senza proferire parola, facendo scomparire la pistola con silenziatore che stava impugnando all’interno di una fondina legata al fianco.
Era arrivato a pochi passi da lei quando Susi cedette e scoppiò in lacrime, facendosi scuotere il corpo da un’aggressiva scarica di singulti irreprimibili.
«Va tutto bene tesoro, è tutto okay» mormorò Greg accogliendo lei e Brett tra le braccia e cingendoli amorevolmente, ricoprendoli di baci.
«Credevo che ti avesse ucciso…» farfugliò Susi con voce insolitamente acuta, infilando abilmente le parole tra un singhiozzo e l’altro.
«No, non è successo nulla amore. Sono qui. Sto bene» la rassicurò Greg, continuando ad abbracciarla con delicatezza e ad accarezzarle la schiena per placarla, sorridendo nel contempo a Brett che a poco a poco stava smettendo di piangere.
«Non era dell’FBI, vero?» domandò Susi con un filo di voce ancora incrinata.
«No, non credo» convenne Greg accompagnandola sul divano e facendola sedere.
«Come facevi a sapere che non era un tuo collega, allora? Voglio dire, non l’hai visto, puoi solo averlo sentito parlare…» replicò con calma la moglie, lasciandosi posare un altro bacio sulle labbra e, questa volta, rispondendo.
Greg esitò. La fissò a lungo e intensamente, indeciso se dirle la verità. Optò per raccontarle tutto, e quando ebbe finito si sentì improvvisamente meglio, quasi che si fosse svuotato di un veleno che gli inquinava il sangue e lo faceva inesorabilmente morire. Il mondo che conoscevano era finito in un batter d’occhio, e non c’era più spazio per la menzogna, se volevano continuare a sopravvivere.
«Non poteva essere un mio collega semplicemente perché io non lavoro per l’FBI, Susi» esordì, e l’espressione desolata sul viso di sua moglie si tramutò in uno sguardo incredulo.

Stan Payton era ancora fermo sul bordo di Main Street, quando vide i quattro furgoni blindati neri parcheggiati all’altro lato della strada aprire i grossi portelloni sul retro. Alcuni uomini con le maschere sui volti si avvicinarono ai veicoli e si piazzarono lì, con le armi imbracciate, pronti probabilmente ad aprire il fuoco contro chiunque intendesse opporsi al comando appena ricevuto.
Chissà se avrebbero avuto il coraggio di sparare sulla folla, nel caso in cui qualcuno avesse protestato. Stan si pose questo interrogativo, e automaticamente si rispose che molto probabilmente l’avrebbero fatto. Eccome, se l’avrebbero fatto. Ci voleva fegato per organizzare una cosa del genere. Ed essendoci riusciti, quei tipi dovevano avere del fegato da vendere.
A poco a poco gli uomini che costituivano la folla iniziarono ad allontanarsi e a disperdersi in direzione delle abitazioni. Alcuni rimasero immobili in mezzo alla strada, proprio come lui, ma la maggior parte entrò in casa e uscì poco dopo tenendo in mano un fucile, una pistola o, in alcuni casi, sia l’uno che l’altra.
Si formarono alcune file bene ordinate di fronte ai portelloni aperti dei furgoni blindati, su istruzione degli uomini mascherati preposti al monitoraggio dell’operazione, e a poco a poco i cassoni incominciarono ad essere riempiti di armi ammassate, metallo e scatolette di proiettili che venivano accatastati come denaro contante all’interno di voluminose casseforti.
La città di Eglon si stava disarmando, abbassando il capo e consegnandosi al nemico.

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