venerdì 31 ottobre 2014

Lacrime di Cenere - Prologo

Camminava da solo.
La strada era stretta. Deserta. Una fila di alberi la accompagnava sulla sinistra, le foglie che cadevano ad una ad una come lacrime d’autunno insanguinate. A destra un fosso poco profondo, con la superficie ricoperta da un’impalpabile pellicola di muschio verde.
Si fermò per un istante ad ascoltare. C’era un silenzio meraviglioso, che regnava incontrastato su quella strada. Sentirlo era piacevole. Era come un compagno di viaggio dalle poche parole. Uno di quelli che non si rifiutano mai al proprio fianco, specie quando il morale tende a scivolare sotto le suole delle scarpe.
Il sole splendeva in mezzo a un cielo completamente sgombro, quasi che i suoi raggi avessero fugato ogni residuo di nuvole. Il tepore sulla pelle era gradevole. L’aria si era fatta più calda, come se l’estate cercasse in ogni modo di rimettersi sul trono dal quale l’autunno l’aveva spodestata.
Assaporò ancora per un attimo quel grazioso ritaglio di quiete, cercando di fissarselo nella memoria quasi con forza, di seppellirlo da qualche parte, in qualche angolo di terra battuta dal quale potesse poi recuperarlo, come una capsula del tempo. Quindi riprese a camminare, e il suono dei suoi passi infranse nuovamente il silenzio.
Udì il cinguettio di un uccello. Lo cercò con lo sguardo fra i rami degli alberi alla sua sinistra, ma non riuscì a vederlo. Il suo sguardo spaziò sui campi che si stendevano a perdita d’occhio dietro i tronchi malaticci, infine ritornò sulla strada e si soffermò a studiarne le crepe.
L’asfalto era sbiadito, le strisce segnaletiche erano scomparse. Era una piccola stradicciola di campagna, abbandonata a se stessa da Dio solo sapeva quanto tempo.
Si avvicinò al ciglio sulla destra, accanto al fosso, perché gli era parso di aver percepito un leggero sciacquio. Di nuovo si fermò, di nuovo il silenzio gli riempì le orecchie.
Sogguardò la strada alle proprie spalle, quella che si era lasciato indietro fin lì. Spostò gli occhi sulla superficie verdastra del fosso e la percorse lentamente. C’era un’automobile mezza sommersa, con una chiazza di sangue raggrumato sul parabrezza che pareva una macchia di ruggine. Stava distesa su un lato, e il muschio aveva cominciato lentamente ad arrampicarsi sulla lamiera.
Risalì lungo il corso d’acqua con lo sguardo. Sorvolò un corpo che galleggiava sulla pancia, con il viso immerso e il muschio che gli invadeva la schiena. Più in là c’era una mano che emergeva solitaria dal tappeto verdastro, le dite contratte e le unghie che parevano rasoi. Un’anatra le passò accanto con noncuranza, affondando il becco per catturare qualche preda succulenta e riemergendo subito dopo per allontanarsi furtiva.
Era stata l’anatra a produrre il flebile sciacquio che aveva ridestato i suoi sensi poco prima. Annuì fra sé e sé e ricominciò ancora una volta a camminare lungo la strada, riprendendo il ritmo e ascoltando i vaghi rumori della natura che facevano da sottofondo ai suoi passi leggeri.
Avvertì un dolore pungente alla gamba sinistra e abbassò lo sguardo per controllare. La fasciatura di fortuna, imbevuta di sangue, si era staccata dalla pelle e lasciava scoperta la ferita pulsante. Non era un buon segno. Soprattutto, non era prudente stare allo scoperto in quelle condizioni. Avrebbe potuto attirare l’attenzione di visitatori poco desiderabili.
Si chinò per sistemare le bende, appoggiando un ginocchio sull’asfalto slavato, e si rese conto di avere ormai le punte delle scarpe completamente consumate. Sorrise tristemente e strinse più forte i lacci della scarpa destra, che si stavano allentando.
Un fruscio fugace. Un movimento alla sua sinistra, un’ombra che arrancava sotto il sole.
Alzò gli occhi e schermò la luce con una mano per poter mettere a fuoco. Era la sagoma di un uomo, un contadino che avanzava verso di lui percorrendo il campo quasi di corsa. L’erba alta, ormai giallognola per la carenza d’acqua, lo rallentava. C’era tutto il tempo per potersi occupare di lui.
Sospirò e si portò una mano dietro la schiena, all’altezza della cintura. Afferrò con fermezza il pezzo di ferro freddo che gli premeva contro la pelle, come se fosse stato l’ultimo piolo di una scala a penzoloni su un baratro infinito.
L’uomo emerse dall’erba dorata a pochi metri da lui, la bocca spalancata e lorda di sangue che già pareva tuffarsi in avanti. I capelli incrostati di terriccio gli cadevano sulla fronte pallida e a tratti gli coprivano gli occhi spenti. Protendeva le mani nella sua direzione, come per supplicarlo di farsi afferrare.
Estrasse la pistola senza emettere un fiato, consapevole del fatto che la ferita alla gamba e le bende insanguinate costituivano un’esca più che appetibile.
Puntò la bocca da fuoco della nove millimetri, una voragine nera come l’inferno, in direzione delle fauci digrignate del contadino morto, sussurrandogli uno sbrigativo addio, e premette il grilletto senza esitare.

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