sabato 17 novembre 2012

Solo andata, no ritorno - 3

La luce spettrale emessa dalla lampada al neon nello scompartimento faceva venire freddo. Si diffondeva come una cascata di corpuscoli biancastri, quasi che riversasse su di loro una specie di pulviscolo brillante che svolazzava sopra i sedili e vi si depositava in una pellicola oleosa.
Roberto guardò fuori dal vetro e incontrò l’oscurità densa e impenetrabile che stava dall’altra parte. Era come viaggiare in un piccolo sottomarino all’interno di un pozzo di petrolio e avere a disposizione un oblò per guardare fuori. Si vedeva riflesso nel vetro, circondato da quel lugubre alone di luce cerulea. E vedeva anche Francesca, che osservava l’esterno proprio come lui e si specchiava nel buio.
La porta dello scomparto si spalancò di colpo e il volto di un uomo sulla settantina fece capolino all’interno, sbirciando.
«Oh, scusate» bofonchiò il nuovo arrivato, salutando con un ampio sorriso a cui mancava una buona metà dei denti e richiudendo la porta. Scomparve, divorato dal corridoio del vagone, e Roberto e Francesca poterono tornare a concentrarsi sulle proprie immagini che comparivano nel vetro come spettri lattiginosi.
«Quanto dura questa galleria?» domandò lei finalmente, sbuffando e allungando le braccia per stiracchiarsi.
«Troppo» borbottò lui, sbadigliando e scuotendo la testa come per tenersi sveglio.
Fuori c’erano solo le tenebre, tenebre che correvano e scivolavano addosso al vetro, lungo le pareti esterne del treno, aderendovi come una melma appiccicosa e slittando via. Roberto immaginò l’oscurità come uno strato di gelatina nera e la vide ricadere sui binari dopo il passaggio del treno, afflosciarsi sul pavimento roccioso della galleria e colare dalle pareti, gocciolando dal soffitto. Quell’immagine sì che era in grado di dare l’idea di un buio denso, accidenti!
«L’hai visto?» bisbigliò tutt’a un tratto Francesca, e la sua voce si fece talmente flebile che a Roberto si accapponò la pelle.
«Visto cosa?» mormorò, seguendo lo sguardo della giovane.
Francesca fissava di nuovo il vetro. E l’oscurità dannatamente densa al di là del vetro. Roberto si concentrò sul riflesso sbiadito della sua ragazza e notò i suoi occhi strabuzzati, tremolanti… in una parola, spaventati.
«Cosa…» esordì, ma la voce gli annegò in gola. Stavolta l’aveva visto anche lui.
Francesca indietreggiò, la sua faccia fu deformata da una smorfia d’orrore.
«L’hai visto?» pigolò di nuovo, e Roberto non ebbe la forza di risponderle.
C’era qualcosa là fuori, nell’oscurità della galleria. Qualcosa immerso nella gelatina nera. Una sagoma, un’ombra candida, che si era materializzata per un istante appena oltre il vetro e poi era stata riassorbita dalla densità omogenea del buio.
«Sì» barbugliò Roberto, esaminando attentamente il finestrino alla ricerca di qualche altra traccia.
L’immagine ricomparve, come l’ologramma slavato di un fantasma sogghignante, e Francesca si lasciò sfuggire un gridolino di terrore prima di tapparsi la bocca con le mani. Roberto si voltò di scatto a controllare che non fosse il riflesso di qualche persona sulla porta dello scompartimento, ma non vide niente. Tornò a guardare il vetro e la nuvola di fumo bianco che li seguiva si era dissolta ancora.
«Ho paura» piagnucolò Francesca, alzandosi e raggiungendolo per farsi stringere da lui.
«Tranquilla, va tutto bene. Non è niente» cercò di tranquillizzarla Roberto, ma la sua voce tradiva la sua insicurezza. In realtà non sapeva davvero che cosa fosse, e la cosa lo preoccupava. Sperava solo che il treno uscisse in fretta da quell’orrenda galleria, perché davvero non ce la faceva più a sopportare quelle tenebre e quella tensione e aveva il cuore che gli martellava il petto e le tempie con l’insistenza di un fabbro intento a forgiare la lama più resistente del mondo.
La sua preghiera inespressa fu esaudita, il treno bucò l’ultimo velo di oscurità all’uscita della lunghissima galleria e forò l’aria esterna con incredibile vigore. La luce del giorno inondò lo scompartimento e annullò quella biancastra e appiccicaticcia della lampada al neon.
Roberto tirò un sospiro di sollievo e accarezzò la schiena a Francesca. Sapeva che con la luce naturale tutte le cose viste al buio riprendevano a poco a poco ad essere razionali, così aspettò che accadesse. Ma la paura non se ne andò del tutto: sfumò soltanto, come un sogno quando la sveglia suona e si aprono gli occhi all’alba. Come quel sogno rimane appena sotto la superficie lucida della coscienza, pronto a riemergere al primo richiamo, allo stesso modo la paura rimase in agguato nella mente di Roberto, pronta a balzare fuori nel momento in cui ce ne fosse stato bisogno.
Il battito del suo cuore scandiva i rintocchi di ogni secondo d’orologio, tuonando possente nella sua testa e riecheggiando tra i suoi pensieri.
È stato un effetto ottico. Solo un effetto ottico, niente di più. Stiamo andando a Firenze per risolvere alcune questioni, e va ancora tutto bene.
Per qualche assurdo motivo, cercare di rassicurare se stessi funzionava sempre troppo poco.
Sogguardò il tascabile lasciato sul sedile in disparte, chiuso, senza segnalibro perché era abituato a tenere a mente la pagina in cui interrompeva la lettura.
La luce del sole morì e il treno affondò di nuovo nel buio.
«Un’altra galleria?» singhiozzò Francesca, aggrappandosi a lui e stringendolo.
«Passerà presto» promise, sperando in cuor suo che fosse vero. Ma che cosa sta succedendo? Cosa ci succede? Sto sognando, o immagino tutto quanto?
Non era possibile, perché si sentiva perfettamente lucido. Ricordava l’istante in cui la sveglia era suonata costringendolo ad aprire gli occhi, che cosa aveva mangiato a colazione, quando erano saliti sul treno a Vicenza e quando erano scesi a Padova, quando erano montati sul secondo treno…
La luce al neon se ne andò. Non lampeggiò, non traballò, non si attenuò: semplicemente affogò nel buio, e adesso anche loro correvano sui binari, assieme al treno, in mezzo a tutta quella gelatina corposa che rallentava e dilatava all’infinito la loro fuga dalle tenebre.
Lo spettro bianco scivolò ancora accanto a loro, sfiorando il vetro, e superò il treno.
Roberto chiuse gli occhi e posò dolcemente una mano su quelli di Francesca, per coprirli. Lei lo lasciò fare. Il buio delle loro palpebre sembrava meno profondo di quello all’esterno. Più sicuro e confortevole. Un tepore li avvolse.
E Roberto si svegliò e riaprì gli occhi, osservando Francesca che leggeva tranquilla sul sedile di fronte e la pianura che ancora sfilava all’esterno, sotto una pioggerellina sottile, al di là del vetro del treno in corsa.

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