sabato 10 novembre 2012

Solo andata, no ritorno - 2

Il viaggio proseguì poco turbolento per un bel pezzo, finché fuori non cominciò a piovigginare.
Le raffiche di vento che sferzavano i vagoni erano violente, tanto che le si poteva quasi percepire dall’interno. Gocce di pioggia si stampavano come monetine d’argento sui vetri dei finestrini, per poi scivolare via a causa della velocità. Nonostante tutto, si stava bene là dentro. Se non altro, era abbastanza caldo e asciutto da non destare alcuna invidia nei riguardi dei passanti che lottavano per non farsi strappare via l’ombrello dalle mani.
Era bello osservare la pianura che si srotolava pigramente appena al di là del vetro, come all’interno dello schermo di un computer, in un video fin troppo realistico. Il cielo era plumbeo, con qualche ematoma violaceo qua e là. Sembrava che un gigante avesse deciso di prenderlo a pugni.
E poi c’erano i paesi in lontananza. I tetti delle abitazioni, i profili dei caseggiati, le ombre dei campanili che troneggiavano su tutto il resto. Ogni cosa compariva e se ne andava con la stessa fretta, mentre il treno passava oltre. Mentre loro passavano oltre, lasciando dietro di sé un mondo pullulante di vite e di problemi che continuavano a intrecciarsi nonostante tutto.
Erano pensieri tristi. Troppo profondi per quel misero vagone di Trenitalia. E non gli permettevano di concentrarsi sul libro che stava leggendo, così lo richiuse, tenendo il segno con un dito tra le pagine, e tornò a guardare fuori.
Francesca gli lanciò un’occhiata fugace. Lui la registrò con la coda dell’occhio e finse di non accorgersene. La ragazza riabbassò lo sguardo sul proprio tascabile e non parlò.
Ma non c’era silenzio, in quel treno. Dal resto del vagone giungevano chiacchiericci ovattati, che si facevano sovrastare soltanto dall’instancabile sferragliare del convoglio. I binari si snodavano nella campagna e parevano interminabili, come un giorno di sei mesi ai poli in cui il sole non tramonta mai. Era difficile accettare tutto questo. Non tanto per il treno, né per i rumori o per la lunghezza del viaggio. Ma più che altro perché Roberto conosceva il motivo di quella fuga di tre giorni a Firenze, e sapeva anche che le settantadue ore successive si sarebbero rivelate cruciali per entrambi. Per la loro storia, per il loro rapporto. E anche per il loro futuro.
«A cosa stai pensando?» lo riscosse la voce di Francesca, riportandolo in quel vagone con uno strattone deciso. Lo stava osservando. Probabilmente lo fissava già da un po’. Aveva un’espressione malinconica in viso. Un’espressione fragile, come un calice di cristallo sul bordo estremo di un tavolo inclinato. L’equilibrio si stava smorzando, la base del calice non poggiava più su un piano sicuro. Scivolava. Scivolava via, tra le dita, a discapito di qualsiasi tentativo di salvataggio.
Roberto si chiese se fossero davvero queste le emozioni che provava Francesca. La sensazione di essere perduta. La preoccupazione di non poter essere salvata. Cercò di sorriderle, ma stavolta non ne fu capace. Si pentì di averci provato, ma lei parve apprezzare lo sforzo.
«Penso a noi» confessò, sentendosi improvvisamente meglio dopo averlo detto. Era di questo che aveva bisogno, in fondo. Di parlare con lei. Ma non era ancora il momento.
Lei guardò fuori. Stava smettendo di piovere. Le nuvole scure che si erano addensate sopra di loro sembravano aver deciso di accordarsi per una tregua. Sarebbe stato un po’ più fresco, fuori, considerò Roberto, ma non così tanto da scoraggiare i fan del gelato.
«Abbiamo tempo per parlarne. Ce lo siamo presi apposta» gli ricordò la ragazza, senza riportare gli occhi su di lui.
Roberto si limitò ad annuire in silenzio, certo che lei lo avrebbe visto. Non c’era bisogno di dire altro, per il momento. Gli bastava farle sapere che non aveva intenzione di sottovalutare la situazione, perché a lei ci teneva. Francesca dava l’impressione di averlo capito, ma di non essere ancora del tutto pronta ad accettare il suo aiuto.
Quei tre giorni a Firenze sarebbero stati difficili. Ma adesso sentiva che l’avrebbero risolta, in un modo o nell’altro. Fuori aveva smesso di piovere, ed era un buon segno.
Il treno rallentò e si fermò in una stazione. Roberto ne approfittò per riaprire il libro e rimettersi a leggere, e dopo meno di cinque minuti ripartirono, acquistando di nuovo velocità e lasciandosi alle spalle l’ennesimo paese dal nome improbabile.
Era quasi riuscito a rientrare nel vivo della storia quando la luce esterna di colpo scomparve, inghiottita in un sol boccone dalle tenebre di un traforo.
Posò il libro sospirando sconsolato e vide che Francesca aveva richiuso un’altra volta il proprio. La luce biancastra installata sul soffitto dello scompartimento era troppo debole per permettere di leggere, ma abbastanza decisa da non cancellare le loro ombre. Si potevano guardare negli occhi, ma allo stesso tempo non riuscivano a distinguere completamente i lineamenti l’uno dell’altra.
Roberto aprì la bocca per parlare e la richiuse.
Il treno sbucò fuori dalla galleria e la luce naturale tornò a invadere lo scompartimento. La pianura ricomparve là fuori con i suoi campi, le sue fattorie e i suoi mucchietti di abitazioni e condomini.
E poi il treno si gettò nelle fauci di una seconda galleria come un pesce suicida nella bocca di uno squalo, e fu tutto buio un’altra volta.

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