venerdì 21 settembre 2012

Digitale Purpurea -Remake-

Sedevano in silenzio, guardando il proprio riflesso l’una negli occhi dell’altra.
Maria era una figura esile, talmente esile da apparire quasi tenue. Aveva i capelli biondi e vestiva in maniera semplice. Anche i suoi occhi erano semplici. Genuini, si sarebbe potuto dire.
Anche Rachele era una figura esile, ma bruna di capelli. E i suoi occhi erano… diversi da quelli di Maria. Come se ardessero. Occhi che avevano visto qualcosa in più, che per un attimo si erano tuffati in un pozzo più profondo dell’universo e ne erano riemersi cambiati.
«Non ci sei mai più tornata?» affiorò la voce di Rachele, lievemente appuntita.
«Mai» confermò la voce di Maria, più morbida.
«Io sì» rispose Rachele. «Ci sono tornata, e le ho riviste le nostre suore, e per un momento ho rivissuto i dolci anni che abbiamo trascorso assieme… Quei piccoli anni che ancora oggi appaiono così dolci al mio cuore…»
Lo sguardo di Maria si animò e sul suo volto si dipinse un sorriso. «E hai rivisto anche il giardino? Quel bellissimo giardino chiuso, che frequentavamo tanto volentieri, dove c’erano i rovi con le more? Hai sentito ancora quel canto misterioso che lo animava? E hai visto quel fiore, il fiore della…»
«…morte. Sì, cara: l’ho visto» la interruppe Rachele, distogliendo lo sguardo.
«Ed era vero, secondo te, quello che si diceva?» insisté Maria, senza accorgersi dell’esitazione che si era insinuata nell’altra donna. «Io ci ho sempre creduto, Rachele. Ci ho sempre creduto, tanto che non ho mai avuto il coraggio di passare accanto a quel fiore. Dicevano che versasse nell’aria una specie di nettare che la inebriava, che il suo profumo bagnasse l’anima di chi lo annusava d’un oblio terribilmente dolce e terribilmente crudele allo stesso tempo… Come lo ricordo bene, quel vecchio convento fra le montagne!»
Mentre parlava, Maria posò una mano su quelle raccolte di Rachele. Adesso guardavano entrambe lontano, verso un orizzonte indefinito. Vedevano cose che nessun altro avrebbe potuto scorgere da quella posizione. Non vedevano più nello spazio, bensì nel tempo.
E d’un tratto furono entrambe laggiù. Di nuovo. Insieme. Le mura del monastero si stagliavano contro l’azzurro uniforme di un cielo di maggio, assediate dalle litanie, avvolte nell’aroma d’incenso. Le loro menti a poco a poco si inzupparono nel profumo delle rose e delle viole, in una dolce sensazione che aveva il sapore dell’innocenza e del mistero. Melodie che credevano di aver dimenticato per sempre stavano ora ronzando nelle loro orecchie, e le loro bocche le scandivano senza pronunciarle, ma come se desiderassero farlo più d’ogni altra cosa al mondo.
Erano nel giardino, adesso. Nel giardino del convento, imbiancato qua e là dalle vesti delle suore che si spostavano chiacchierando. Vesti candide che frusciavano come vele mosse dal vento.
E in disparte, laggiù vicino alle mura, una spiga di fiori che parevano dita umane spruzzate di sangue, e che davano l’impressione di riversare nell’aria il misterioso alito della vita.
Si chiamarono sottovoce, come bambine ancora intrappolate nella ragnatela di un sogno. Le loro mani si avvinghiavano l’una all’altra, alla ricerca di un appiglio sul quale fare leva per rientrare nella realtà. La visione sfumò lentamente, come le rovine di un castello di neve farinosa divorate dal vento delle montagne. Piangevano, adesso, senza sapere esattamente perché. E Rachele bisbigliò, con le lacrime che scivolavano sulla pelle del viso: «Addio…»
A Maria rivolse le sue parole, ma non i suoi occhi neri quando decise di riaprire bocca dopo un istante di silenzio sospeso: «Io ho sentito quel fiore, Maria. L’ho sentito. Ero sola nel giardino del convento, e l’aria profumava di rose e viole… e di… qualcos’altro. Le mie emozioni erano ancora imprigionate nell’ardore di un sogno notturno che all’alba si era spento. Ricordo quella dannata sera, Maria. L’aria che soffiava verso di me la luce dei lampi lontani, zittendo il loro fragore. L’erba sembrava voler sorreggere i miei piedi. E all’improvviso mi sentii chiamare: “Vieni! Vieni!” E la dolcezza fu talmente tanta che…» Si girò a guardare l’amica, e Maria si sentì percorrere da un lungo brivido che le graffiò la pelle. Rachele piangeva, e il suo volto non era più quello di prima. I suoi occhi erano opachi, adesso. Spenti. E la faccia marciva, si decomponeva davanti a lei, si sgretolava e si dissolveva sotto il suo sguardo. «…talmente tanta che, ecco, vedi: si muore!»

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