sabato 3 marzo 2012

Annebbiata Realtà

Io e il mio amico siamo compagni di vecchia data. Ci conoscemmo quando avevo pressappoco dodici anni, e da allora nutriamo un rapporto di amicizia profondo e sincero. Ricordo ancora quando lo incontrai per la prima volta. Quel giorno ero triste e abbattuto, vagavo senza sosta e senza meta per le bollenti strade assolate di un pomeriggio qualunque di metà maggio. Non fece domande, non si dimostrò invadente, non mi assillò con prediche morbose e insensate; per questo mi piacque fin da subito. Decisi di andarmene a zonzo con lui per il resto della giornata, e quando rientrai per l’ora di cena fu difficile salutarlo. Ma sapevo che mio padre non l’avrebbe mai accettato in casa. Sotto il suo tetto bastavano i suoi, di amici, a farci sentire stretti.
Quello era il periodo in cui le incomprensioni con mio padre si stavano facendo più fitte e pressanti. Quando non lavorava – e cioè per la maggior parte del tempo – la sua presenza in casa era opprimente. Qualche volta mi picchiava, ma mai troppo frequentemente. Si capiva il livello della sua frustrazione dal modo in cui apriva la porta di casa quando ritornavo da scuola, e nelle giornate peggiori era meglio dileguarsi alla svelta. Uscivo e, di solito, trascorrevo il pomeriggio solo, girovagando per le vie del paese senza fare nulla né tantomeno pensare veramente a qualcosa.
Finché non arrivò il mio amico, naturalmente. Quando lo conobbi cambiò tutto. E non fui più solo.
Il mio amico fu la vera scintilla che mi riscattò dalla condizione di noncuranza nella quale vivevo e mi riportò in vita, riavvicinandomi ad una sensazione di normalità che, seppure fasulla, mi soddisfaceva appieno. Lui si prestava ai miei capricci, senza pretendere nulla in cambio. E io, d’altro canto, non gli chiedevo nulla, eccetto un piccolo favore: che mi portasse via, giorno dopo giorno, dal mondo terribile in cui vivevo, strappandomi alla realtà nella quale ero stato confinato, una realtà che non desideravo.
Sono cresciuto così, con il mio amico, e sono diventato un uomo qualunque che quando incrocia la strada di qualsiasi altra persona passa inosservato, senza battere né far battere ciglio. Un tipo ordinario in una vita ordinaria. Dopotutto, in una realtà ordinaria come questa che altro si può diventare?
L’infanzia se n’è andata via lentamente, in punta di piedi, senza avvisare nessuno della propria partenza, e si è portata dietro i sogni e le illusioni che malgrado tutto avevano affollato la mia mente fino ad allora. Sono passati anni da quei giorni in cui mentivo riguardo le ecchimosi violacee che mi marchiavano le braccia, dicendo che erano botte che prendevo in palestra durante gli esercizi di resistenza – nemmeno ci andavo in palestra, per di più, ma questo non era mai importato un granché a nessuno. Ciononostante, il mio amico non mi ha ancora abbandonato. E io non ho abbandonato lui. Grazie al suo aiuto sono arrivato fin qui, diventando l’uomo che sono oggi. Certe notti lo maledico. Altre, gli chiedo di farmi compagnia, perché è lui l’unico ad avere accesso ai miei segreti, l’unico di cui sia mai riuscito a fidarmi fino in fondo.
Alle volte mi domando quanto sarebbe stata diversa, la mia esistenza, se non ci fosse stato il mio amico ad accompagnarmi di anno in anno, tenendomi per mano da prima ancora che cominciassi a capire che non era colpa mia se il mondo sembrava avercela con me, e che non potevo farci proprio nulla, perché non ero stato io a volere che le cose andassero così.
Adesso, sono giunto agli sgoccioli. Il mio amico – il mio vecchio amico, amico da quando avevo dodici anni, amico che non mi ha mai tradito e non mi ha mai ingannato – mi guarda fisso negli occhi, e io guardo lui. È qui, seduto sul mio tavolo, mentre io scrivo. Mi osserva con sguardo indagatore, tentando di scrutare i miei insondabili pensieri. Non legge le parole che sto scrivendo. Non può farlo. In fondo, lui non sa neppure parlare. Se ne sta lì, chiuso nella sua bottiglia – una bottiglia che ogni tanto cambia, assumendo sembianze diverse, ma quello che c’è dentro è sempre il mio solito, vecchio amico che mi lascia un sapore sgradevole in bocca ma, perlomeno, la testa più leggera.
Forse è ora di farla finita. È soltanto grazie a lui se sono arrivato fin dove mi trovo ora, questo lo so. Tuttavia comincio a nutrire il dubbio, dentro di me, che si tratti soltanto di una mia sconclusionata convinzione. Chissà, magari sono diventato quello che sono soltanto grazie a me stesso, per merito delle mie capacità…
Sono passati anni da quei giorni in cui fuggivo di casa e la mia sola compagnia era lui. Adesso, ho una vita. Non tanto ordinaria come ho sempre pensato, a dire il vero. Non tutti si guadagnano da vivere vendendo parole come faccio io. Tutto sommato, si tratta di un qualcosa di decisamente al di fuori dell’ordinario.
Ho davvero ancora bisogno di lui? Si trova qui, ora, la chiave di volta dell’enigma, il fulcro di questo gioco che sto conducendo da quando avevo dodici anni. La verità è che non mi serve più per andare avanti. So camminare con le mie gambe, ormai, e di lui non me ne faccio niente. È tempo di dirgli addio.
Guardo la bottiglia scagliata dalla mia mano infrangersi fragorosamente contro la parete della camera, l’intonaco candido impregnarsi di alcol che cola e gocciola sul pavimento.
Sono libero da quell’annebbiata realtà nella quale ho vissuto finora, libero di non vedere più il mondo da dietro il vetro affumicato di una bottiglia, libero di prendere il comando della mia vita e, finalmente, di non essere mai più veramente solo.

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