giovedì 5 settembre 2013

Solo andata, no ritorno - 10

Roberto, seduto al posto di guida, abbassò fino in fondo la frizione e girò la chiave di accensione. Il motore si avviò senza protestare. Ascoltò il suo borbottio sommesso provenire da sotto il cofano. Poi spense e scese, infilandosi le chiavi in tasca.
«Quindi l’auto non è in panne. Funziona. Perché qualcuno avrebbe dovuto lasciare su le chiavi?» lo interrogò il controllore, con le mani affondate nelle tasche dei pantaloni.
«Non ne ho la più vaga idea» confessò il ragazzo, confuso.
«Antonio De Franceschi. Nato a Venezia il quindici maggio millenovecentosessantaquattro. Nel portafoglio ci sono due biglietti Trenitalia. Uno andata e uno ritorno. La meta era Firenze. E quello di ritorno è stato convalidato alla stazione di Firenze giusto stamattina» li informò Francesca con in mano i documenti del proprietario dell’auto. «Qui dentro ci sono anche trentacinque euro in banconote. Più spiccioli.»
«Stava rimontando in macchina per tornare a casa» propose il controllore, camminando avanti e indietro attorno alla portiera aperta. «Originario di Venezia, sì, ma il nome del paese segnato sull’indirizzo mi pare di queste parti. Forse si è trasferito qui dopo essersi sposato…»
«O per lavoro» soggiunse Nicola, dopo essersi sonoramente schiarito la voce.
«Comunque è salito in auto e ha appoggiato il portafoglio sul sedile laterale. Ha infilato le chiavi e, sempre se non si era scordato di inserirlo prima di prendere il treno per Firenze, ha tolto il freno a mano. Probabilmente stava per chiudere la portiera e allacciarsi la cintura, quando è successo… qualcosa» andò avanti Roberto, la fronte aggrottata e lo sguardo immerso in un flusso di pensieri impenetrabile.
«Non ci vedo niente di buono» ammise il controllore, sospirando per l’ennesima volta con rassegnazione. «Comunque, sarà meglio tornare al treno. Siamo fuori da un bel pezzo, i passeggeri si staranno preoccupando.»
Nascosero il portafoglio nel cruscotto e serrarono la portiera. Poi Roberto chiuse a chiave. Se il proprietario della vettura fosse saltato fuori avrebbe di sicuro cercato le proprie chiavi in stazione, e così li avrebbe trovati.
Attraversarono di nuovo il salone silenzioso della stazione, con i passi che rimbalzavano contro le pareti bianche scrostate dall’umidità. Quando giunsero in vista dei vagoni trovarono la folla di passeggeri assiepata addosso al portellone automatico del vagone uno. Molti altri si erano affacciati ai finestrini per guardarli tornare. Uno, che sembrava aver preso in mano la situazione in loro assenza, impediva ai curiosi di scendere attraverso l’unica apertura spalancata.
«Grazie al cielo siete qui. La gente non ne può più, ho fatto una fatica pazzesca a impedire loro di scendere. A quest’ora saremmo dovuti arrivare a Firenze, ormai. C’è molta tensione.»
«Grazie per l’aiuto. Come ti chiami?» volle sapere il controllore. Era bravo a celare l’inquietudine, osservò Roberto.
«Carlo» rispose l’altro. Aveva i capelli neri a spazzola e gli occhi marroni. Il volto appariva coriaceo, tutto d’un pezzo, come intagliato in un ceppo di legno. «Sono un poliziotto. In ferie per due settimane con la mia famiglia, ci tengo ad aggiungere. Tutti noi vorremmo sapere quando si potrà ripartire.»
Il controllore distolse lo sguardo e lanciò un’occhiata fugace alla stazione, soffermandosi sulla porta ancora aperta. Poi esaminò i binari in entrambe le direzioni, come se aspettasse che un treno facesse la sua comparsa trionfale da un momento all’altro.
«Vogliamo scendere!» gridò qualcuno dall’interno del vagone. Carlo non si scompose. Teneva le braccia allargate per bloccare l’ingresso, e nel frattempo fissava il controllore in attesa di una risposta soddisfacente.
«Lascia che vengano fuori, Carlo. Ma nessuno si allontani troppo. Voglio che stiano tutti qui, attorno allo sportello del primo vagone. Prendano aria, si sgranchiscano pure le gambe. Ma nessuno si sogni di prendere armi e bagagli e filarsela, siamo intesi?»
«Perché mai? Se il treno sostitutivo non arriva, ognuno è libero di decidere da sé come proseguire il viaggio…» lo contraddisse Carlo, ma il controllore gli faceva già cenno di no con la testa.
«Prima dobbiamo vederci chiaro» spiegò, in tono grave. Si morse delicatamente il labbro superiore, quasi in un moto di distrazione. «Ci sono alcune cose da capire, prima di lasciare che ognuno si prenda la libertà di decidere dove andare. I telefoni della stazione non funzionano. E qui attorno i cellulari non prendono, nemmeno sul tetto dell’edificio. Inoltre… Ci sono altri dettagli di cui preferirei discutere con te in disparte, se puoi.»
Carlo notò l’agitazione negli occhi del controllore e annuì, serio.
Roberto si avvicinò. Nicola mosse un paio di passi più in là, come se non volesse prendere parte alla conversazione. Quasi che preferisse tapparsi le orecchie e cantare a squarciagola, piuttosto che essere costretto a riprendere in esame le informazioni che già gli affollavano la mente.
Il poliziotto annunciò ai passeggeri che potevano scendere dal vagone, ma che dovevano rimanere lì attorno. «Nessuno si avvicini alla stazione, per ora» aggiunse, e poi si scansò per permettere al vagone di vomitare fuori il suo carico di persone ansiose.
«Adesso parliamo» concluse Carlo avvicinandosi al controllore, e quest’ultimo scambiò un’occhiata irrequieta con Roberto e accettò, cominciando a raccontare innanzitutto del macchinista e della cabina di guida vuota, poi dell’automobile aperta con le chiavi inserite e il portafoglio sul sedile del passeggero. Narrò tutto a bassa voce, per non farsi sentire, e lasciò che anche Roberto descrivesse quello che aveva visto nel parcheggio. Francesca li ascoltò in silenzio.
Carlo, quando ebbero finito, mostrò loro un’espressione terribilmente indifesa e impaurita. «Mi sa che abbiamo un problema, allora. Perché uno dei passeggeri dice di aver visto una persona qua fuori, dopo che il treno si è fermato.»

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