Qualcuno bussò alla porta.
Era tardo pomeriggio, e il lavoro da fare era sempre troppo. Amministrare una città non era semplice, ma amministrare una città in Arkansas con almeno venti fattorie attorno che rientravano nella giurisdizione territoriale era ancora più difficile.
Eglon contava per l’esattezza ventiquattro fattorie, nei dintorni, che dal punto di vista burocratico facevano capo al Comune della città. E non c’è bisogno di dire che spesso davano parecchi grattacapi al sindaco John Donaldston, perché i contadini venivano da lui per ogni nonnulla, quando c’erano da richiedere permessi, quando erano in corso diatribe sulla proprietà di una pianta, quando un animale si infilava per l’ennesima volta nei campi del vicino e quest’ultimo non voleva più restituirlo. La gente non si sapeva arrangiare da sola. Specialmente quella di campagna, a detta del sindaco Donaldston. E per lui si trattava soltanto di un altro carico di problemi extra da risolvere.
«Avanti» accolse John Donaldston da dietro la scrivania del suo ufficio, e la porta si aprì per permettere alla snella e graziosa figura di Nancy Vaugher di entrare.
«Sindaco Donaldston, mi spiace disturbarla quando so che ha molto lavoro da fare, ma ho bisogno che dia un’occhiata ad alcuni documenti…» esordì l’addetta all’anagrafe con fare titubante. Sembrava un po’ scossa, giudicò John. Probabilmente era solo stanca.
«Di che si tratta?»
«Alcune persone arrivate in città la settimana scorsa. Ho qui le loro carte d’identità e mi sono fatta lasciare anche i passaporti, per precauzione. Mi ha detto lei di controllare accuratamente la gente che si trasferisce nella nostra città, e di accertarmi che sia innocua» spiegò la donna, e John Donaldston annuì. Sì, ricordava quel discorsetto che le aveva fatto un paio di mesi prima. Ultimamente le cose non andavano troppo bene. C’erano stati dei tizi che lo scorso inverno avevano ottenuto la residenza ad Eglon e si erano messi a spacciare cocaina nel bel mezzo del parco pubblico. Prenderli non era stato facile, e cacciarli dalla città si era rivelato un compito fin troppo dispendioso per i suoi gusti. Meglio prevenire che curare, diceva sempre suo nonno. L’aveva trasformato da banale motto in serio stile di vita.
«D’accordo. Qual è il problema?» s’informò il sindaco sbuffando lievemente.
«Ci sono dei dati che non corrispondono» sussurrò Nancy posandogli sulla scrivania un pacchetto di fogli stampati tenuti insieme con due graffette di plastica gialla. «Niente di cui preoccuparsi, molto probabilmente,» si affrettò a soggiungere, «ma la prudenza non è mai troppa.»
«Grazie, Nancy. Darò un’occhiata a queste carte domattina come prima cosa quando rientrerò in ufficio» promise il sindaco Donaldston, e l’addetta all’anagrafe oltrepassò la porta e sparì.
Nancy Vaugher era tutta un fremito. Si guardò attorno con circospezione ed entrò nel proprio angusto ufficio, chiudendosi la porta alle spalle con mano tremante e lasciandosi sfuggire un singhiozzo e l’accenno di una lacrima oltre le lenti degli occhiali.
«Brava, Nancy, ben fatto» approvò l’uomo che se ne stava tranquillamente seduto dietro la scrivania del suo piccolo ufficio, con lo schienale inclinato, le gambe accavallate sul ripiano del tavolo e una pistola provvista di silenziatore puntata in direzione dell’addetta all’anagrafe.
LE ANIME DI EGLON
PRIMA STAGIONE
EPISODIO 8
LA CITTÀ BARRICATA
«Avanti, portate qui quel pannello e posizionatelo su questo solco, è importante che combaci perfettamente con quello accanto e che le due scanalature si incastrino!» vociò uno degli addetti ai lavori disposti lungo il perimetro della città di Eglon. Stavano costruendo barricate su tutti i lati scoperti, appoggiandole e incuneandole l’una nell’altra fino agli angoli degli edifici più a margine, le cui facciate di cemento armato venivano sfruttate quali barriere preesistenti.
A poco a poco si stava tracciando un confine che escludeva le fattorie e i campi e racchiudeva soltanto il nucleo cittadino di Eglon. Oltre quarantamila persone chiuse in un cerchio fatto di pannelli di legno e pareti di edifici. La cosa funzionava, e si stava svolgendo parecchio in fretta. Per le dieci sarebbe stato tutto pronto, subito dopo il completamento della consegna delle armi e pochi istanti prima che il governo mettesse in piedi una spedizione punitiva una volta capito da dove provenisse esattamente quel treno in fiamme che verso le sette e trenta doveva aver sicuramente raggiunto la stazione di Pine Bluff.
I ribelli erano in fermento. Il loro progetto aveva avuto un ottimo avvio, ma adesso veniva la parte più difficile: non sarebbe stato semplice mantenere oscurate le comunicazioni e isolata la città, specie dopo l’arrivo degli interventi esterni. Potevano contare sulla presenza dei cittadini innocenti di Eglon per essere sicuri che l’esercito non sferrasse attacchi pesanti, ma in ogni caso dovevano fare attenzione a non essere schiacciati da entrambi i lati. I cittadini di Eglon dovevano essere tenuti a bada ad ogni costo, e all’oscuro di ciò che nel frattempo avveniva fuori.
Presto sarebbe incominciata la guerra. E nessuno avrebbe potuto rifiutarsi di prendervi parte.
Robert era parecchio sconvolto, ma Stan era riuscito nonostante l’orrore al quale aveva assistito a mantenere una parvenza di autocontrollo.
Era stato tremendo fare da spettatore a quella carneficina. I ribelli avevano circondato la squadriglia della polizia di Eglon da entrambi i lati, occludendo ogni via di fuga e stringendo gli avversari in una morsa spietata. Attanagliati su tutt’e due i fronti, i poliziotti non avevano potuto fare altro che soccombere. Invano avevano lottato. E invano erano stati dissanguati sull’asfalto all’incrocio tra Main Street e Neighbour Street, come un branco di bestie da macello.
Adesso erano quasi le nove, e Stan e Robert si trovavano soli in cucina. Sarah era andata a letto prima che loro tornassero, e aveva lasciato un sintetico biglietto sul tavolino del salotto con su scritto: Vado a dormire con i bambini. Fate poco chiasso.
Come se scrivendo qualcosa di normale potesse di colpo trasformare quella drammatica situazione in qualcos’altro di altrettanto normale. Tipico di sua moglie
(ex moglie, dannazione, quante volte me lo devo ripetere?)
Sarah, rifletté Stan. Cercava di minimizzare per far vedere che aveva tutto quanto sotto controllo. Detestava non poter padroneggiare ciò che le accadeva. Così fingeva che non ci fosse nulla fuori posto, e certe volte finiva addirittura per persuadere chi le stava attorno a credere la stessa cosa.
Ma stavolta no. Stavolta nessuno potrebbe convincermi che è tutto a posto. Nemmeno tu, Sarah.
Già. Erano precipitati in una realtà troppo aliena perché si potesse fingere di non accorgersene. Aveva visto morire trenta poliziotti davanti ai propri occhi, compreso un vicesceriffo, ed era testimone di un totale vuoto improvviso di comunicazioni che nel mondo che conosceva era da considerarsi pressoché impossibile.
Ecco un punto sul quale concentrarsi, scoprì Stan: lo smantellamento di tutti i mezzi di comunicazione. Come avevano fatto a far tacere tutto quanto, ad isolare un’intera città nel giro di qualche minuto? Era roba da film di fantascienza. Non era contemplabile nel mondo reale, e questo dettaglio gli dava particolarmente fastidio. Sopprimere le linee telefoniche era un conto: bastava seguire i tracciati dei cavi telefonici che le varie compagnie tiravano verso l’esterno della città e tagliarli uno per uno. La cosa era fattibile, anche se estremamente complicata da organizzare. Lo stesso si poteva fare con le fibre ottiche. Ma i cellulari, le radio e le tv satellitari erano tutt’altro paio di maniche.
Si sistemò meglio sulla sedia della cucina e si rese conto che Robert lo stava fissando. Gli rivolse uno sguardo interrogativo, e l’altro parve tutt’a un tratto rianimarsi.
«Vuoi del caffè?» gli domandò, da vero e cortese padrone di casa. Stan decise che non se la sarebbe presa. In fondo era lui il padrone di casa, adesso,
(naturalmente subito dopo Sarah, gerarchicamente parlando)
e doveva prenderne atto.
«Ma sì, perché no?» accettò con una vaga scrollata di spalle. Robert si alzò e andò ad accendere la macchinetta per il caffè. Macchinetta che Stan non aveva notato prima, e che ora registrò. Era nuova. A quanto pareva, Robert e Sarah non si trattavano poi tanto male, dopotutto.
«Illuminami, Robert. Sto cercando di capire come possano aver fatto a generare questo buio completo nelle comunicazioni» tentò Stan, pur sapendo che probabilmente non avrebbe cavato nulla di nuovo da quell’omino tutto tremante che si portava a letto la sua ex moglie.
«Bel dilemma, non è vero? Ma io forse un’idea ce l’ho …»
«Dici sul serio?» domandò Stan dubbioso, come per stare al gioco.
«Ma certo. Esistono degli apparecchi di disturbo chiamati jammer in grado di bloccare ogni segnale cellulare per diversi metri di raggio. Qualche anno fa, a San Francisco, un certo Andrew ha bloccato il cellulare di una ragazza in un parco che stava inviando un sms. È uscito l’articolo sul New York Times. Il suo dispositivo raggiungeva un raggio di venticinque metri, ma perfino su eBay se ne possono trovare di più potenti. Il loro utilizzo è stato dichiarato illegale da parte della Commissione Federale per la Comunicazione statunitense, ma li vendono ancora e so che parecchia gente li compra, anche se non li si potrebbe adoperare…» spiegò Robert mentre posizionava due tazzine sotto l’erogatore della macchinetta per il caffè e pazientemente controllava che si riempissero.
«D’accordo, mettiamo che le persone con le quali abbiamo a che fare se ne siano procurati di più potenti. Jammer che coprono un raggio di cento metri, facciamo. Come potrebbero oscurare tutte le comunicazioni cellulari della città?» volle sapere Stan, convinto di aver trovato il punto debole nella tesi di Robert.
«Semplice: basterebbe posizionarne parecchi in alcuni punti strategici. Prendi una cartina in scala della città di Eglon, traccia con un compasso circonferenze di raggio pari a cento metri e posizionane i centri in diversi palazzi, di modo da riuscire a coprire con le circonferenze intersecate tutta la superficie del centro abitato. E il gioco è fatto» lo stupì Robert. Stan ci pensò su un attimo, e l’idea gli parve plausibile. Anzi, era dannatamente logica! Forse Robert aveva ragione. Forse si stavano servendo di questi cosiddetti jammer per bloccare le comunicazioni in città.
«Oltretutto,» riprese Robert portando in tavola le due tazze di caffè che aveva appena preparato, «esistono jammer in grado di ostacolare anche radiofrequenze, GPS, WiFi e quant’altro. Tutti progettati per usi militari, naturalmente, ma visto che questi cosiddetti “ribelli” sono entrati in città con dei carri armati direi che non si tratta di apparecchiature fuori dalla loro portata…»
Stan era rimasto di stucco. Non aveva idea che potessero esserci aggeggi simili, in circolazione. Francamente non se ne era mai nemmeno preoccupato. Ma soprattutto non aveva idea che Robert potesse realmente tornargli utile, e questo stava a dimostrare quanto i suoi classici pregiudizi da ex marito geloso
(su avanti, ammettiamolo pure)
fossero del tutto infondati.
Così adesso aveva capito come fossero stati capaci di creare quell’impensabile blocco delle comunicazioni nell’intera città. E la questione focale si spostava su di un altro quesito: esisteva un modo per sfondare il blocco e collegarsi con l’esterno, almeno temporaneamente? E se sì, qual era la soluzione migliore e quali informazioni era assolutamente indispensabile comunicare a chi sarebbe venuto da fuori in soccorso alla città?
Lo schermo gigante piazzato sulla cima della Eglon Tower era ancora completamente nero quando scattarono le nove del mattino dell’undici settembre 2011, ma ci pensò il campanile della chiesa cittadina a rimpiazzarlo nell’avvisare la popolazione che la consegna delle armi a Main Street era ufficialmente chiusa.
C’erano ancora poche persone in fila presso i furgoni blindati sparsi per la strada principale della città. Gli uomini preposti alla raccolta delle armi prelevarono i loro fucili e le loro pistole immediatamente, li buttarono nei cassoni assieme a tutto il resto e chiusero i portelloni, facendo segno agli autisti dei veicoli di partire verso la loro sconosciuta destinazione.
Il convoglio di furgoni blindati si mise in marcia e i carri armati che avevano occupato la zona si accodarono. La gente che di nuovo affollava Main Street rimase sola ad osservarli partire, consapevole del fatto che la loro presenza non si sarebbe dissolta del tutto, ma si sarebbe semplicemente celata nell’ombra.
Uno dei carri armati si fermò ai piedi della Eglon Tower, attorno alla quale si erano radunati pochi curiosi. Ne scese l’uomo con la maschera blu e l’elmetto da soldato che durante la notte aveva lanciato il suo messaggio a Main Street attraverso un megafono. Si fece aprire la porta d’ingresso e penetrò nell’edificio senza tanti complimenti.
Il bordo del tetto della Eglon Tower era stato tappezzato di grosse casse acustiche nel corso dell’ultima mezz’ora. Fu da lì che alle nove e trenta si sprigionò una voce senza accento che la maggior parte della città aveva imparato a riconoscere, nonché a temere.
«Eglon, ascoltami» esordì la voce in tono perentorio, e il suono avvolse l’aria e le abitazioni e si insinuò in ogni anfratto. «Il nuovo undici settembre è cominciato. Il nostro messaggio è stato lanciato. È ora di rendere questa rivoluzione molto di più che una banale occupazione. Siamo pronti a dare inizio alla guerra!»
Un desolato mormorio interrogatorio percorse le strade di Eglon, saltando di bocca in bocca da un punto all’altro della città, scuotendo gli animi di una popolazione che dopo una terribile notte di sangue non era ancora pronta a sopportare il peso di altre morti.
«Un treno in fiamme proveniente da Little Rock ha raggiunto Pine Bluff alle sette e trentaquattro di questa mattina. Alle otto e dodici minuti il governatore è stato informato dell’accaduto e ha contattato il Segretario della Difesa. La telefonata è terminata alle otto e diciassette, ora in cui il Dipartimento della Difesa ha chiamato l’ufficio del Presidente degli Stati Uniti. Il Segretario della Difesa e il Presidente hanno chiacchierato tranquillamente per i venti minuti successivi, poi Obama ha indetto una riunione straordinaria del Consiglio per la Sicurezza Nazionale. Nel frattempo, è stato mandato in ricognizione un reparto dell’esercito per controllare che cosa stia succedendo ad Eglon.
«Stiamo provvedendo a rinforzare i confini della città, e l’operazione è quasi ultimata. Abbiamo costruito una barricata attorno al centro abitato che resisterà ai primi assalti, e nei punti strategici abbiamo provveduto a posizionare mortai, lanciagranate e, in caso possano tornare utili, alcuni dei nostri carri armati.
«Ricordate le immagini che avete visto in televisione delle guerriglie in Iraq e Afghanistan? Ecco, più o meno una cosa così. Solo che qui fuori sarà peggio.»
«David, perché non torniamo a casa? Vuoi?» domandò sua madre leggermente scossa.
«Non se ne parla, mamma. Non terremo chiuso il supermercato. La gente avrà bisogno di comprare la roba da mangiare» insistette David andando ad aprire le porte scorrevoli dell’ingresso. Avevano già maturato un’ora di ritardo, ma non importava. Ciò che più contava era che chi si fosse recato in supermercato per acquistare del cibo per la propria famiglia avrebbe trovato qualcuno con il sorriso sulle labbra ad accoglierlo, e non una porta sbarrata.
«Ma c’è quel tipo, là fuori, e mi sembra tutto fuorché un cliente!» sussurrò ostinatamente sua madre. Si riferiva chiaramente all’uomo con la bandana sul volto e la mitragliatrice imbracciata che piantonava l’ingresso del negozio, osservando da lì la strada e la gente confusa che passava.
«Non mi interessa. Può prendersi da mangiare anche lui qui dentro, se ha soldi per pagare» ribatté tranquillamente David.
«Ha molto di più dei soldi: ha una mitragliatrice, David, e non credo esiterebbe a puntartela contro se tu gli dicessi che da qui non si esce senza pagare!» protestò la donna sempre più intimorita.
«Ci provi pure. In ogni caso, io apro.»
«E se c’è la ressa? Se la gente viene dentro e pretende di prendere tutto quello che vuole senza pagare per poter fare il pieno di viveri in caso le cose si mettano male? Tu che cosa fai, David?»
Il ragazzo guardò negli occhi sua madre, e nello sguardo della donna scorse una profonda paura che la rendeva irrequieta. Ma era convinto che tutto sarebbe filato liscio. Non era tutto perduto, ad Eglon, e anche se si stava preparando una guerra era loro preciso dovere tenere aperto quel dannatissimo supermercato per dar da mangiare ai loro concittadini!
Amen, concluse tra sé e sé David.
«Non ti preoccupare, mamma. Me ne posso occupare io. Torna pure a casa se non te la senti. Ma io apro, e sono disposto a lavorare da solo, se necessario.»
Sua madre lo osservò per qualche istante in silenzio, e capì dalla sua espressione ferma che non sarebbe riuscita a smuoverlo in alcun modo dai propositi che si era fissato.
«D’accordo. Restiamo» cedette infine la donna, e indossò il grembiule partendo di gran carriera per raggiungere il banco della salumeria.
David sorrise. Era importante, per lui, tenere aperto il negozio. E anche per papà, che era di là in magazzino a gestire l’inventario. Era domenica, giorno di chiusura, ma sia David che suo padre si erano comunque intestarditi di voler aprire in ogni caso. La gente aveva bisogno di una sicurezza in più, aveva detto il signor Goldbert quella mattina. Tutti loro avevano bisogno della certezza di poter contare sulle abitudini e sui fondamentali pilastri della vita quotidiana, se volevano superare indenni quella brutta storia. La notte era stata scandita da spari, esplosioni, morte e sangue. Adesso basta. Si rientrava nella normalità, almeno per quanto fosse possibile farlo dopo una notte del genere, e si cercava di ripristinare l’ordine nonostante la presenza di quei carri armati, di quei soldati rivoluzionari e di quella lugubre barricata che veniva lentamente eretta attorno alla città.
Gli venne da pensare a Gabriella, la ragazza che gli piaceva. Le andava dietro dalle elementari, da quando aveva incominciato a poco a poco a capire che il sorriso di una bella ragazza era mille volte meglio di un qualsiasi videogame. Era arrivato a questa conclusione un po’ prima dei suoi coetanei, d’accordo, ma questo perché David era sempre stato un tipo parecchio precoce e riflessivo. Anche leggermente sopra la media, è vero, ma non esattamente un genio. Semplicemente più maturo degli altri, ecco. E la gente che gli stava attorno se ne accorgeva, e forse era per questo che non aveva tanti amici: era eccessivamente maturo per andare a genio ai suoi coetanei, e troppo giovane per essere frequentato volentieri dagli adulti. Un ibrido di ragazzo d’oro che tuttavia non riusciva ad individuare il proprio aggancio con le persone, così se ne stava tranquillamente per i fatti propri ed evitava di mettersi troppo in mostra o, come diceva papà, di “dare nell’occhio” più del dovuto.
Stavano succedendo cose strane, ad Eglon. Rivoluzione, l’avevano chiamata, eppure David sentiva, dentro di sé, che dietro c’era qualcosa di più. Non si trattava di una semplice sommossa, di una insolita pubblicità per attirare l’attenzione su di un tema particolare: qui si stava organizzando qualcosa di molto più dannatamente grande, e Dio solo sapeva, per adesso, di che accidenti potesse trattarsi. E forse sarebbe rimasto l’unico a saperlo ancora per un bel po’.
Raggiunse il punto della corsia riservato alla pasta, sfoderò il taglierino e aprì uno scatolone rimasto per terra. Cominciò a tirare fuori i pacchetti che conteneva ad uno ad uno e a metterli al proprio posto. Nessun camion avrebbe potuto raggiungere Eglon nei prossimi giorni, a quanto pareva. Le scorte erano parecchie, perché l’ultimo carico era arrivato venerdì e ora il magazzino era pieno, ma per quanto sarebbero durate? C’erano altri tre negozi di alimentari in città, e uno apparteneva ad una grossa catena, perciò era ben fornito. Ma per quanto tempo sarebbe andata avanti così?
Quello poteva essere il primo di una lunga serie di giorni. I ribelli avevano ragione: l’esercito non li avrebbe potuti attaccare in alcun modo senza rischiare di provocare danni tra la popolazione. E l’ONU non avrebbe approvato alcun genere di attacco, perché finché c’erano di mezzo i civili non si poteva andare troppo per il sottile. Non era come a Tripoli, in Libia, dannazione. Questa era Eglon, Arkansas, negli Stati Uniti d’America, e la sensibilizzazione delle masse sarebbe stata troppo forte. Bombardare la città per ostacolare i rivoluzionari avrebbe provocato un sommovimento implacabile nell’opinione pubblica, che avrebbe condannato duramente una presa di posizione violenta da parte del governo statunitense. No, non si sarebbero azzardati a rischiare tanto. I rivoluzionari avevano ragione anche su questo punto.
La situazione era quanto mai delicata, e David ne era francamente preoccupato. Avevano parlato già durante la notte di isolare la città, ma la costruzione di una barricata lungo tutto il perimetro del centro abitato era ben diversa da un pugno di parole gettate al vento…
Ad ogni modo stavano edificando la barriera, come una fortezza intenta a rafforzare le difese in vista di una tremenda battaglia. David non sapeva se quello che avevano detto era vero. Non aveva idea di quali fossero i loro progetti, né di che cosa la popolazione di Eglon sarebbe stata costretta a sopportare e subire nel più totale e sconfortante dei silenzi. Su una cosa era certo, però: quello era solo l’inizio, e presto avrebbero dovuto mandare giù un altro amaro assaggio di quella sconsiderata follia nella quale erano stati forzatamente trascinati.
Cathy Holmes osservava taciturna la landa di devastazione che si srotolava verso ogni dove sotto i suoi tremuli occhi annacquati. Sulla polvere che le imbrattava le guance si erano generate due righe più scure, i solchi che le lacrime le avevano lasciato colando silenziosamente dagli angoli degli occhi, e parevano quasi due profonde rughe scavate da un dolore improvviso e indescrivibile.
C’erano carcasse di aerei sparse un po’ dovunque. Resti di lamiera carbonizzati, con grossi squarci e pezzi che pendevano. Qualche frammento di plastica era volato fino a lì, all’ingresso della pista d’atterraggio del terminal, e più in là c’era un intero sedile mezzo spelacchiato che doveva essere stato catapultato in aria da una delle esplosioni.
Qualche fuoco scoppiettava ancora qua e là, dandole l’impressione di essere finita in uno di quei lugubri film di disastri aerei o, peggio ancora, nella fantomatica isola fantasma della serie televisiva Lost. Solo che non c’era mare, non c’era spiaggia, non c’erano palme né feriti da soccorrere. Qualche corpo compariva ogni tanto nella visuale, ma era talmente rovinato da sembrare un manichino di plastica colato con la fiamma ossidrica. Era una scena tremenda alla quale assistere, ma Cathy non riusciva a smuoversi da lì. Forse molta della gente che era in aeroporto la scorsa notte era riuscita a fuggire, ma in ogni caso non aveva trovato nessuno durante l’intera mattinata. Segno che chi era sopravvissuto se n’era andato, oppure che nessuno era riuscito a cavarsela.
Le piste d’atterraggio erano state disintegrate a colpi di cannone. I carri armati non c’erano più, e probabilmente dovevano essersi spostati in qualche altra zona della città. Fatto stava che Cathy capiva perché avessero demolito le piste: l’avevano fatto per renderle inservibili, per assicurarsi che nessun aereo le utilizzasse per atterrare ad Eglon. O per partire, ma, dato che di aerei intatti non ne vedeva, questa possibilità appariva quanto mai remota.
Ciò che più le faceva impressione, però, era quell’aereo là in fondo che si era schiantato contro il terminal, abbattendone completamente una parete laterale e sbriciolandone un angolo. Per fortuna che non era arrivato addosso all’edificio dalla parte in cui si trovava lei, rifletté, altrimenti quella mattina non si sarebbe risvegliata. Doveva essere precipitato durante la notte. Una delle ali, quella sinistra, non c’era, e la coda era caduta più distante dal resto del velivolo. Come se avesse avuto un incidente finché era ancora in volo e fosse venuto giù alla stregua di un uccello preso di mira dal fucile di un esperto cacciatore.
Anche quell’aereo si mostrava attraversato da piccoli incendi, ma una buona metà pareva integra. Su alcuni finestrini si allargavano macchie e spruzzi di sangue. Gente che doveva aver sbattuto la testa durante l’impatto, o che era stata centrata dalle valigie durante una caduta orribilmente verticale. Cathy nemmeno osava immaginare che cosa potesse essere successo là dentro…
«Signorina!» chiamò una voce alle sue spalle. Trasalì, colta alla sprovvista, e si voltò con il cuore che batteva a mille. Non aveva mai sofferto di tachicardia. Ma considerò di essere sul punto di avere un infarto, da quanto il cuore le palpitava freneticamente.
«Signorina, sta bene?» le domandò affabilmente l’uomo quando la ebbe raggiunta. Le cinse la vita con un braccio, con gentilezza, sospingendola via verso l’interno del terminal, inducendola a lasciarsi alle spalle quello scenario di morte e disperazione in cui si era tramutata la modesta pista d’atterraggio dell’aeroporto di Eglon.
«Credo di sì…» balbettò, parecchio scossa.
«Non si preoccupi, va tutto bene. Dobbiamo allontanarci da qui al più presto. Il terminal sta per essere demolito, per facilitare le operazioni di barricamento» le spiegò con molta naturalezza quell’uomo, accompagnandola in direzione dell’uscita.
«Barricamento?» ripeté incerta Cathy, guardando davanti a sé ma non vedendo in realtà nulla.
«Sì. Per la protezione della città, signorina» rispose tranquillamente l’uomo, e Cathy si domandò solo in quell’istante perché accidenti avesse il volto coperto da una maschera nera percorsa da fosforescenti venature bluastre.
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