venerdì 21 ottobre 2011

La Stanza in cui Piovono Lacrime - Parte IV

Alla fine Matthew rinunciò. Non importava quanti sforzi potesse fare. La porta non avrebbe ceduto. Si rassegnò e tornò davanti alle finestre, per fermarsi lì impalato a fissare i vetri sporchi e incrostati di polvere. Il cielo e il verde all’esterno erano scomparsi nel nulla portando con sé le nubi ed il sentore di temporale e pioggia. Al loro posto era comparsa un’oscurità insondabile, profonda e nera come l’anima di un condannato a morte, un infinito spazio aperto dominato dalle tenebre. E l’ufficio volteggiava sospeso nell’aria in quel luogo assurdo precipitato al di là del mondo e della realtà. Matthew non riuscì a nascondere un sorriso di trionfo. Finalmente ciò per cui aveva atteso. Ed era valsa la pena di aspettare. Era addirittura meglio di quanto se lo fosse immaginato. Un potenziale unico e inespresso, e non era ancora tutto. La parte più interessante sarebbe presto cominciata.
Dalle pareti, lentamente quanto improvvisamente, cominciò a scrostarsi l’intonaco. Veniva via proprio a brandelli, separandosi dal muro come stesse tentando di sfuggirgli disperatamente. Cadeva in minuscoli frammenti sul pavimento polveroso, lasciando le proprie tracce e poi svanendo come dissolto in polvere. Una nevicata che non tralasciava alcuna impronta al suolo del proprio passaggio.
Le pareti, quindi, presero a sanguinare. Matthew si avvicinò, dapprima incredulo, successivamente meravigliato, immensamente impressionato da quel fenomeno così curioso ma decisamente reale. I muri si stavano striando di sangue, sangue scarlatto che colava e precipitava a terra in grosse gocce. Quel tessuto liquido era veramente ciò che appariva, niente trucchi. L’ufficio stava iniziando a rivelarsi per quello che era: un luogo unico in tutto il pianeta.
Cominciò ad avere freddo. Un gelo incontrollabile. Accompagnato dalla paura, una paura ancora allo stato primordiale, ma che iniziava a risvegliare i suoi istinti. Sapeva che un terrore come quello che stava per provare mai lo aveva dovuto sperimentare prima di allora. Questo era notevole, considerò, e si preparò a dover affrontare una battaglia a tu per tu con la propria mente, perché era certo che l’essenza sovrannaturale di quell’ufficio avrebbe cercato di attaccarlo proprio nella parte in realtà più vulnerabile e scoperta dell’essere umano: i suoi ricordi, i suoi pensieri, le sue emozioni, in particolare giocando sulla paura e sulla sofferenza.
Sapeva tutto questo grazie a diversi studi condotti da lui e alcuni colleghi al riguardo. A dire il vero, erano secoli che gli esperti del settore ci lavoravano sopra, tuttavia i dati che lui stesso aveva raccolto lo rendevano più fiducioso riguardo le conclusioni tratte. Prendendo ad esempio il caso trentasette, uno di quelli che gli avevano dato più filo da torcere, denominato anche Fascicolo Joseph Cunnighel, si poteva notare come il punto preferito su cui si avventavano gli esseri sovrannaturali che l’ASSFP andava a studiare fosse proprio la mente umana che cercava di fermarli o di farli ragionare. Joseph Cunnighel era un ragazzo di ventisei anni compiuti, un tipo solitario e taciturno, a sentire gli amici, che ogni tanto frequentava sedute spiritiche in cui le persone cercavano di mettersi in contatto con spettri, morti e via dicendo. L’unico particolare che rendeva Joseph Cunnighel unico e inimitabile, in confronto a tutti gli altri che si impegnavano in queste pratiche, perlopiù ciarlatani che tentavano guadagni facili e cospicui, era che lui riusciva davvero a sentire le voci dei defunti nella propria testa.
Aveva raccontato a Matthew, una volta, dopo che era stato rinchiuso in isolamento in un edificio di controllo e protezione dell’ASSFP, di aver chiacchierato a lungo con un certo Alec Duhlander, suo intimo amico da diversi anni. In seguito ad un’accurata ricerca, Matthew era riuscito a scoprire che quel tale era uno degli incaricati agli esperimenti sugli esseri umani nei campi di concentramento tedeschi durante la Seconda Guerra Mondiale, morto nel 1964 dopo una lunga permanenza in carcere per crimini di guerra e contro i diritti umani. Ricordava ancora le sensazioni che aveva provato nel leggere questi dati sullo schermo del proprio computer. Come un tetro, primitivo terrore che si impadroniva del suo corpo, scorrendo nel suo sangue alla stregua di un veleno che lentamente si mescolava al tessuto liquido nel sistema circolatorio per andare a colpire tutti gli organi raggiungibili. E questo terrore era stato legato ad un gelido senso di vertigini e smarrimento.
Gli erano bastati non più di quaranta secondi per rimettere in ordine la confusione che si era creata nella sua mente, ma per quegli interminabili quaranta secondi gli era sembrato che tutto ciò che stava facendo fosse inutile quanto la sua stessa esistenza nel mondo. Una fredda sensazione di abbandono e solitudine, come se i suoi pensieri e le sue emozioni fossero costantemente esposti agli occhi di chiunque. Ma poi era rientrato in sé e, con ponderata razionalità, aveva sistemato tutto quanto e si era preparato al colloquio con Joseph Cunnighel del giorno dopo.
Nello stato in cui si trovava adesso, dopo anni di esperienza e arduo lavoro nel campo, Matthew non avrebbe avuto problemi ad affrontare un dialogo come quello che ebbe quel giorno con Joseph Cunnighel. Ma allora la situazione era diversa. Completamente diversa, rispetto a quella nella quale si trovava ora.
Chiuse gli occhi e lasciò che la sua mente si liberasse del tutto. Aveva bisogno di poter ragionare rapidamente, e di lasciare spazio alla voce di quell’ufficio che presto si sarebbe diffusa nella sua scatola cranica, amplificata dal rimbombo del suo stesso flusso di pensieri. Strinse i pugni e si sforzò di sorridere. Riaprì gli occhi e il suo cuore prese ad accelerare.
Non si trovava più nell’ufficio 074. Le pareti, dissanguate, si erano totalmente dissolte, lasciando spazio al vuoto più assoluto. Si trovava in un prato verde, in un luogo da favola, con un cielo limpido e sereno. Il sole gli scaldava piacevolmente la faccia. La brezza, leggera, gli sfiorava la pelle. Il ticchettio della pioggia, che non riusciva a vedere, raggiungeva impetuoso le sue orecchie.
Spalancò per davvero gli occhi, dopo essersi creato nella mente quest’immagine serena e rassicurante. Aveva bisogno di quanti più appigli gli fosse possibile con la realtà. Non avrebbe dovuto cedere terreno un solo istante. Lo aspettava un’intensa battaglia.
Fuori diluviava. La pioggia, che udiva picchiettare insistentemente contro le finestre, stava effettivamente sferzando i vetri con una furia inaudita, sospinta e pilotata da rapide e mutevoli folate di vento più violente del normale. Le gocce scivolavano silenziose lungo la superficie liscia e trasparente del vetro, sulla parte esterna, in quell’insondabile oscurità che aveva avvolto il mondo al di fuori dell’ufficio 074. Matthew non mancò di notare come i muri sanguinolenti, accanto alle finestre e tutto attorno a lui, pulsassero minacciosamente, simili ad un cuore palpitante appena estratto dal petto di una vittima sacrificale.
Non aveva paura. Sapeva che presto sarebbe stato attaccato, probabilmente in maniera aperta, senza tanti sotterfugi, direttamente nei ricordi che più gli avrebbero fatto male. Ma era pronto a resistere con ogni mezzo a disposizione. D’altro canto, stava solamente svolgendo il proprio lavoro, no? Gli bastava resistere il tempo necessario ad analizzare bene il potere di quella stanza, quell’ufficio così apparentemente usuale e monotono, ma altrettanto pericoloso e terribilmente vivo nel profondo.
In ogni caso, già sapeva che ciò che gli stava accadendo poteva essere tranquillamente etichettato quale fenomeno paranormale, sicché il suo incarico, in un certo senso, era stato portato a termine. Ma il nuovo obiettivo era uscire sano e salvo da quelle quattro pareti insanguinate e pulsanti. E l’unica via d’uscita era affrontare quello spirito, quel fantasma, quell’anima o qualunque cosa fosse, che controllava l’ufficio 074 e che stava per mostrargli tutta la propria intrinseca, spaventosamente inafferrabile potenza.
«Matthew Sunstrike. Finalmente ci rivediamo, eh?» chiamò allegramente una voce disinvolta, la voce di un uomo che conosceva, che ricordava di aver archiviato nella propria mente ma che al momento, senza poterlo vedere, non era in grado di associare ad alcun nome.
«Qui dietro, Matthew, non riconosci nemmeno più il tuo vecchio amico Bob?» insistette la voce, e lo sguardo assorto e disorientato di Matthew lasciò spazio ad un sorriso amichevole quando l’uomo si voltò e vide di fronte a sé un ragazzo che conosceva fin troppo bene. Il ventiduenne Bob Cleck, il suo vecchio compagno di stanza all’università.

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