Estratto di un articolo mai pubblicato indirizzato al New York Times, datato 12 settembre 2001:
«[…] Sconvolta dal terrore, l’America è rimasta senza parole. Perché questo orrore? Perché questa follia? Che cosa significa tutto questo sangue che sporca le strade di New York, quest’unico grido che si è levato all’unisono da una città martoriata?
«Gli aerei dirottati trasportavano passeggeri innocenti. Le Torri erano piene di persone innocenti. Il Pentagono, altro bersaglio dell’attacco terroristico, ha perso uomini innocenti.
«Era tutta gente libera! Tutta gente libera che non aveva colpa, se non quella di trovarsi nel posto sbagliato al momento sbagliato. E ha dovuto pagare, per questo, pagare a caro prezzo, versando una moneta di scambio dal valore inestimabile che nessuno potrà mai restituire: il proprio sangue, le proprie vite di cittadini liberi!
«Il conto che ieri, 11 settembre 2001, è stato presentato agli Stati Uniti riporta una cifra troppo salata perché possa essere saldata. Il mondo ha un debito con queste persone e con le loro famiglie. Tutte vittime di un gioco di potere immenso, al quale si erano rifiutate di prendere parte.
«E adesso, che cosa rimane di tutti loro? Nient’altro che cenere…
«Cenere che fiocca sulle strade di New York come in una macabra nevicata fuori stagione.
«Che cosa possiamo chiedere noi, a questo punto? Possiamo rendere grazie a qualcuno? Dobbiamo puntare il dito e imbronciarci, pretendendo che venga fatta giustizia? Giustizia… Che cosa significa giustizia, quando quasi tremila cittadini liberi e innocenti perdono la loro vita inutilmente? Quale valore assume quest’unica parola, dinnanzi agli eventi che ieri hanno violato brutalmente i nostri occhi e gettato un’ombra incancellabile sopra i nostri pensieri?
«Non esiste giustizia. Non c’è niente di giusto in ciò a cui le strade di New York sono state obbligate ad assistere. Non rimangono parole in grado di descrivere lo stato di panico raccapricciante in cui la città è precipitata immediatamente dopo l’attacco.
«Che cosa possiamo augurarci, allora, se non resta orizzonte di giustizia in grado di consolarci? Possiamo forse pregare che quelle anime libere e innocenti finiscano in un posto migliore? Possiamo sperare che le loro famiglie siano ancora capaci di dormire sonni tranquilli, e di svegliarsi la mattina senza versare una sola lacrima e di tirarsi in piedi senza maledire se stessi, senza ricadere nei rimorsi e nelle recriminazioni? No. Tutto questo non è più auspicabile. E chi ha partorito questa strage, questo attentato alla libertà umana, diretto al cuore pulsante della vita, lo sa meglio di tutti quanti noi.
«Che cosa ci resta da fare a questo punto, dunque? Permettetemi di concludere dicendo che io, in fondo, un’idea ce l’avrei.
«Possiamo desiderare, in cuor nostro, che chi ha rubato paghi. Possiamo anelare alla cancellazione dei nostri terribili ricordi. Possiamo mirare ad una giustizia terrena che, per quanto inconsistente, ci faccia sentire appagati. Oppure, e questa a mio avviso è la strada migliore, possiamo prometterci di fare tutto ciò che in nostro potere per difendere la libertà e l’innocenza del popolo umano, e per far sì che questo 11 settembre, orrendo e devastante oltre ogni naturale concezione, non si ripeta.»
LE ANIME DI EGLON
PRIMA STAGIONE
EPISODIO 7
L’ALBA DEL NUOVO 11 SETTEMBRE
«Che cosa sa di tutto questo, signor Jones?» interrogò il vicesceriffo Patrick Wieler in tono autoritario, e Brian Jones si guardò attorno, passò in rassegna ciascuno dei volti di quei trenta poliziotti che si erano radunati attorno al tavolo di una cucina piuttosto sobria e posò infine gli occhi su Jeremy Barton.
«L’NSA, ossia l’Agenzia per la Sicurezza Nazionale, stava tenendo sotto controllo alcuni contatti piuttosto scabrosi, di recente. Contatti bollenti, per così dire. Che comunicavano con alcune cellule isolatamente presenti all’interno del territorio, a loro volta in relazione con gruppi terroristici esterni.
«Pochi di voi sapranno che fra il 2002 e il 2003 gli Stati Uniti hanno rischiato di subire quello che fu definito il secondo attacco, sponsorizzato ad opera di un certo Saifullah Paracha, un pachistano ora imprigionato a Guantanamo, proprietario di un’agenzia di viaggi newyorkese e di un network tv del suo Paese natale. Quest’uomo aveva incontrato Bin Laden già due volte, nel ’99 e nel 2000, e in queste occasioni aveva offerto uno spazio nel proprio network ad al-Qaeda.
«Dopo l’undici settembre si rifece vivo, proponendo a Khalid Shaykh Muhammad, l’architetto del primo attacco, una nuova offerta allettante: la propria presenza in territorio statunitense e la copertura della propria agenzia viaggi per l’introduzione illegale in America di sostanze radioattive e non convenzionali allo scopo di produrre armi nucleari.
«Gli organizzatori del secondo attacco furono catturati in tempo, ma la paura che tutto questo potesse ripetersi non svanì mai del tutto.
«L’FBI entrò in gioco circa sei mesi fa, verso fine marzo. Una telefonata dell’NSA al nostro dipartimento ci informava di un contatto localizzato nei pressi di Memphis. A quanto pare, qualcun altro stava tentando di far entrare alcune testate nucleari illegalmente in territorio statunitense attraverso una fitta rete di amicizie.
«Ci muovemmo in maniera rapida ed efficace. Raggiungemmo Memphis senza dare nell’occhio, cercando di informare il minor numero di agenti possibile per evitare che gli organizzatori del nuovo complotto fossero avvertiti. C’erano parecchi cittadini americani, di mezzo. Un accordo molto più complesso di quanto potesse apparire, una rete talmente vasta e talmente fitta da rendere risibile persino l’implicazione della stessa al-Qaeda.
«L’operazione andò storta fin dall’inizio. Malgrado la notizia fosse stata diffusa solo tra i pochi elementi coinvolti, quando giungemmo al magazzino di Memphis dal quale erano partite le telefonate verso il Colorado riguardanti l’arrivo di una testata nucleare rubata lo trovammo vuoto. Ci avevano preceduti, e se l’erano svignata da poco. Ad ogni modo, fallimmo.
«Il programma cambiò. L’idea di organizzare un incidente ferroviario trapelò, e al-Qaeda, stando alle nostre fonti, non se la sentiva di rischiare un altro massiccio dirottamento aereo. Riemerse a inizio giugno il proposito di introdurre armi nucleari nell’Arkansas, grazie ad alcuni messaggi di posta elettronica intercettati dall’NSA e provenienti dal Nebraska. L’FBI fu nuovamente messa al corrente degli sviluppi, e finalmente ci fu un arresto.
«Saeed bin Rashid, nel Nebraska, da tempo stava intrattenendo rapporti virtuali con alcune cellule disperse nel territorio e tramite una connessione satellitare protetta riceveva istruzioni direttamente da una fascia non meglio precisata del Medio Oriente, da un membro tuttora ignoto appartenente con ogni probabilità alla rete di al-Qaeda. Dal suo computer emerse di tutto: informazioni, fascicoli, progetti, nomi di un certo spessore appartenenti alla CIA, all’NSA e alla stessa FBI, nonché di esponenti di parecchi partiti politici.
«Alcuni, naturalmente, erano segnalati in quel computer soltanto perché presi di mira dall’organizzazione. Altri, però, ne facevano parte, e in breve tempo il Bureau riuscì a ricostruire la metà inferiore di una piramide mostruosamente ampia di contatti tra estremisti islamici, anarchici, politici, agenti federali americani e terroristi di varia provenienza.
«Si cercava di far luce sui vertici più alti di questa nuova organizzazione terroristica, una piramide all’interno della quale al-Qaeda non occupava che uno degli ultimi gradoni, quando saltò fuori il nome Eglon.»
La cucina era silenziosa e buia, e nessuno aveva il coraggio di emettere un fiato. Brian Jones raccontava i fatti con una certa scioltezza, tuttavia era scuro in volto e i suoi ascoltatori si stavano facendo sempre più cupi. Sapere che un complotto di tale portata era stato favorito da politici ed esponenti dei più importanti dipartimenti per la sicurezza nazionale non era cosa facile da digerire. Patrick Wieler e Jeremy Barton, più degli altri, sapevano che cosa tutto questo volesse dire: erano in trappola. Erano stati immolati dal loro stesso Paese per rovesciare il governo e gettare l’Occidente nel caos, e non erano certi che potesse esistere una qualche via d’uscita, giunti a questo punto.
«Mi mandarono qui la settimana scorsa sotto copertura, per capire che cosa stesse succedendo. Non sapevamo che cosa si stesse organizzando, ma eravamo convinti che il fulcro dell’intera operazione si trovasse qui, ad Eglon, dove presumevamo fosse al lavoro la cellula terroristica più rilevante, quella più attiva e pericolosa dell’intero sistema.
«Non ho avuto tempo per chiarire meglio la situazione. Sono rimasto in contatto con il Bureau fino a ieri sera, e non erano ancora stati capaci di raccattare ulteriori informazioni. Brancoliamo nel buio, a quanto sembra. Conosciamo solo pochi degli elementi che hanno preso parte a questa nuova operazione terroristica, e non sappiamo esattamente quali siano i loro scopi e le loro intenzioni» concluse Brian Jones tirando un sospiro.
«Questo vuol dire che non sappiamo che cosa dobbiamo aspettarci» commentò laconico il vicesceriffo Patrick Wieler, e quando ebbe pronunciato queste parole il vetro della finestra della cucina nella quale si erano radunati fu investito da un abbagliante raggio di sole rossastro.
Cathy Holmes sollevò le palpebre e fu costretta a tenerle socchiuse, perché c’era una luce troppo forte e troppo penetrante che le inondava il viso. Sembrava la luce emanata dalle fiamme di un immenso focolare, ma non sentiva scoppiettii, né tantomeno calore sulla propria pelle. Anzi. Aveva freddo. Avvertiva un gelo radente che le rosicchiava le ossa. Fermo, muto, privo di vento. Eppure difficile da sopportare.
Spostò di poco la testa per inquadrare la fonte di quel bagliore infuocato che le faceva lacrimare gli occhi, e si rese conto che non c’era nessun incendio. Erano le luci dell’alba, raggi di sole color del sangue che le bagnavano la faccia e tutto il corpo.
Dove si trovava? Ci mise un po’ a rispondere a questa domanda. Non era certa di essere in un posto famigliare, conosciuto, sicuro. Si sentiva terribilmente esposta, e un vago sentore di pericolo aleggiava tutt’intorno a lei come la cupa e annebbiante presenza di un’armata di spettri evanescenti.
Un pavimento bianco, non molto pulito. La percezione dura e ruvida sotto le braccia, mattonelle sporche di polvere. Era sdraiata a terra, e doveva aver perso i sensi. Non ricordava molto. Doveva fare qualcosa tipo… prendere l’aereo, già. Un aereo per New York, e la sua valigia era imbarcata, e il check-in era stato fatto e, chissà per quale motivo, stavolta lo scanner non aveva suonato quando era passata tra le barre rilevatrici. Forse perché non indossava lo stesso reggiseno dell’altra volta, quello con il ferretto un po’ più spesso…
Ma non era questo il punto. Il punto era capire che cosa fosse successo dopo la brusca interruzione dei ricordi, per quale motivo fosse sdraiata sul pavimento sudicio di un aeroporto e perché nessuno fosse ancora venuto a soccorrerla. Non era naturale, tutto questo. Nel mondo reale che lei conosceva non poteva accadere nulla di simile, per questo motivo si sentiva sola e frastornata.
Tentò di tirarsi su con i gomiti e ricadde pesantemente in avanti. Le faceva male una gamba, e le girava la testa. Come se avesse i postumi di una sbornia, pensò, ma era sicura di non aver bevuto perché non beveva più roba forte da quella volta in cui a diciassette anni aveva perso la testa alla festa di Bobby Carlington, si era spogliata in piedi sul tavolino del salone e poi…
Be’, non era il caso di rivangare certi ricordi. Nell’arco di meno di dodici ore, rifletté, aveva già richiamato alla memoria ben due occasioni in cui si era spogliata davanti ad un sacco di gente. Se qualcuno avesse potuto leggerle i pensieri, ragionò, avrebbe anche potuto credere che fosse una tipa piuttosto stramba. Facile, per tradurlo nel linguaggio corrente. Quando invece non esisteva una bella ragazza più riservata di lei probabilmente in tutto l’Arkansas.
Riprovò a tirarsi su sui gomiti e stavolta ci riuscì. Si gettò uno sguardo attorno da dietro le lenti dei suoi occhiali da vista con la montatura nera. Era nell’aeroporto di Eglon, non c’era dubbio. E tutta quella luce pioveva dall’ampia vetrata del terminal che laggiù, oltre quelle file di poltrone destinate ai passeggeri in attesa dell’imbarco, si affacciava sulla modesta pianura asfaltata della pista d’atterraggio.
Si mise a sedere e controllò meglio la sala. Inorridì, e un fievole tremore la pervase lentamente, penetrandola con la delicatezza di un amante gentile, insinuandosi dentro di lei e scuotendola con una scarica elettrica di terrore e orrore che le fece accapponare la bella pelle chiara e liscia.
C’erano altre persone, lì intorno. Persone distese a terra proprio come lei. Solo che molte di queste persone avevano gli occhi sbarrati e c’erano macchie di sangue che sporcavano volti, vestiti e pavimento. Sembravano cadaveri, più che persone. Corpi di gente morta.
Balzò all’indietro, spaventata da questa visione orripilante, e la sua mano andò a posarsi su qualcosa di molle e umidiccio. Si volse di scatto e ritrasse le dita. Si era appoggiata al volto striato di sangue di un uomo di mezza età, disteso supino con le braccia e le gambe divaricate. Ma che cos’era successo lì dentro? Qualcuno poteva dirle che cosa diavolo era successo?!
Si sentì bruciare gli occhi, repentinamente riempiti di lacrime, e singhiozzò. Erano tutti… morti? Quella gente che la circondava era morta?
Riportò gli occhi sulla vetrata del terminal, e allora si accorse di una triste verità che prima le era sfuggita: non c’era più vetro, ad occupare quella profonda e vasta voragine. C’erano soltanto aria e vuoto, immobili e densi come un’enorme finestra inesistente. E di là c’era l’alba, un’alba insanguinata che dipingeva il cielo di Eglon e le nuvole rosee che pigramente veleggiavano sui resti del terminal aeroportuale distrutto.
Fu come uno sbalzo di corrente improvviso: i ricordi della notte precedente riemersero impetuosi dalla superficie del fiume argenteo dei suoi rapidi pensieri, e per poco Cathy non perse conoscenza ancora una volta. I carri armati. Gli spari. Gli aerei che esplodevano. Il fumo nero che oscurava la vetrata del terminal. La gente, preoccupata, che gridava e fuggiva. Quell’uomo che le aveva fatto segno di togliersi di lì, che era meglio ripararsi dietro qualcosa al più presto. La vetrata che era scoppiata verso l’interno, frantumandosi e sgretolandosi come una zolletta di zucchero lasciata scivolare in un caffè bollente. Gli scintillii di quei pugnali di vetro che sferzavano il terminal, bersagliando la folla di passeggeri in fuga e facendo crollare a terra i più.
Rabbrividì, tremò e si lasciò cogliere dalla disperazione. Pianse con il viso affondato nelle mani, e gli occhiali le si appannarono. Che cos’era stato tutto quell’inferno al quale aveva assistito la scorsa notte? Per quale assurdo scherzo del destino si era ritrovata ad essere coinvolta in una faccenda tanto macabra e desolante, e perché, maledizione, lei era ancora viva mentre tutta quella gente lì attorno era riversa sul pavimento, morta, con gli occhi sbarrati e gocce di sangue sotto le narici?
Tutta quella luce non era in grado di spazzare via l’incubo della notte appena esaurita. Era uno scenario terribile da sopportare, legato a ricordi troppo freschi e troppo dannatamente raccapriccianti. In cuor suo, Cathy pensò che non ce l’avrebbe più fatta a rialzarsi in piedi, e che sarebbe semplicemente morta lì, di sfinimento, dopo aver versato tutta l’acqua che conteneva il suo corpo sottoforma di lacrime amare.
Pressappoco nello stesso momento in cui Daniel e Rebecca giungevano in vista della stazione ferroviaria di Eglon, i furgoni blindati disposti lungo tutta Main Street riaprirono gli sportelli posteriori e si prepararono ad accogliere altre armi.
«Cittadini di Eglon,» annunciò senza scomporsi il solito uomo con la maschera blu e il megafono in mano, stavolta in piedi in mezzo ad una pozza di sangue all’incrocio tra Main Street e Neighbour Street, «avete fino alle nove per terminare la consegna delle vostre armi. Dopodiché sarete liberi di riprendere le vostre regolari attività, anche se nessuno di voi potrà mettere piede fuori dalla città. Avanti, portate qui tutte le vostre pistole e i vostri fucili, polvere da sparo, esplosivi, qualsiasi cosa abbiate in casa. Non ci saranno altri spargimenti di sangue, se farete esattamente come vi diciamo.»
La tetra marcia della popolazione verso i furgoni blindati di Main Street riprese, e Stan si avviò verso casa in compagnia di Robert. Aveva già visto abbastanza. Dopo la battaglia di quella notte con la polizia, i ribelli avevano ripreso in mano la situazione e stavano proseguendo sulla stessa linea di prima. Che cosa avessero in mente, Stan non osava neppure ipotizzarlo. Di certo sapeva, però, che il punto focale di tutta quella drammatica situazione sarebbe stato d’ora in avanti sopravvivere.
La stazione dei treni non era malridotta ma, al contrario di quanto Daniel Green aveva sperato, era circondata da furgoni blindati e uomini con i volti coperti. C’era anche un carro armato fermo sulle rotaie, notò Daniel mentre si avvicinavano in tutta calma. Teneva il cannone posizionato in direzione di Little Rock, verso l’orizzonte che si ingurgitava i binari.
C’erano ben due treni fermi, alla stazione. Alcuni uomini stavano provvedendo per mezzo di una gru a spostare le carrozze una dopo l’altra sulla strada antistante l’edificio, e un nutrito assembramento di passeggeri infuriati che dovevano essere stati fatti scendere forzatamente occupava l’intero salone riservato alla biglietteria.
«Non potete tenerci qui, il mio treno era diretto a Pine Bluff e questa mattina mi aspettano lì per un’importante riunione di lavoro!» protestò un uomo sulla trentina con vestito elegante, valigetta alla mano e stempiatura prominente, un paio di occhialetti senza montatura sui quali i raggi del sole mattutino si rispecchiavano e rilucevano.
«Consolati: nessuno di voi risalirà più su quel treno» ribatté freddamente il tipo con la maschera viola tempestata di stelle gialle che presiedeva ai lavori sulla ferrovia.
Daniel esaminò attentamente la situazione. C’erano circa centocinquanta persone all’interno della stazione, tutti passeggeri di quei due treni che erano stati fermati durante la notte mentre facevano sosta ad Eglon per scaricare e caricare altri pendolari e viaggiatori occasionali. Era stata costruita una barricata al centro dei due binari che passavano per la stazione, eretta con sacchi probabilmente pieni di sabbia o di pietre. Una dozzina di uomini mascherati era stata disposta nelle varie zone dalle quali si poteva tenere sotto controllo l’area. Per il resto, i binari parevano correre sgombri da entrambe le parti in mezzo alle case e proseguire da una parte verso Little Rock, dall’altra in direzione di Pine Bluff.
«Stanno bloccando tutto…» farfugliò Rebecca sottovoce, e Daniel annuì. Ancora non aveva capito in che modo avessero intenzione di fermare i treni di passaggio e di impedire accesso e uscita dalla città attraverso i binari, ma era certo che qualcosa dovevano avere escogitato.
Adesso restava solo un unico quesito da porsi: c’era modo di uscire da Eglon seguendo i binari in direzione di Little Rock?
«Almeno datemi un telefono per chiamare in azienda e avvisare del ritardo! Il mio cellulare non prende un accidente in questo posto dimenticato da Dio!» seguitò l’uomo con la valigetta e l’ampia stempiatura che un attimo prima si era lamentato del disagio arrecatogli.
«Senti, omino, o la pianti o ti tappo la bocca con una bella colata di piombo» lo zittì il rivoluzionario con la maschera viola accennando alla mitraglietta che portava a tracolla, e l’altro non proferì più parola.
«Hai visto tuo cugino?» s’informò a bassa voce Daniel, accompagnando Rebecca verso l’uscita e ritornando con lei sul marciapiede di fronte alla stazione.
«No, lì dentro non c’è. Forse è venuto a cercarmi…» rifletté Rebecca impensierita.
«Può darsi. Ma per adesso abbiamo un’altra priorità: dobbiamo provare ad uscire dalla città per avvisare qualcuno di quello che sta succedendo. Possiamo seguire i binari verso Little Rock, e vedere se ci sono dei posti di blocco più avanti e se c’è modo di aggirarli…»
«D’accordo» approvò Rebecca abbastanza convinta, e i due si misero in marcia seguendo i binari dal marciapiede che correva loro accanto per un buon tratto di strada.
C’era qualche auto che transitava lenta lungo la carreggiata. Furgoni blindati pattugliavano i quartieri percorrendo ogni singola via ad andatura moderata. Molta gente camminava, diretta verso Main Street con l’evidente intenzione di andare a consegnare ai ribelli le proprie armi.
«Che sfacelo. Vedere una città che si arrende così in fretta fa venire la pelle d’oca» biascicò Rebecca guardandosi intorno.
«Soprattutto visto e considerato che non si sa ancora a chi o a che cosa ci si stia arrendendo» confermò Daniel. Quegli uomini non avevano spiegato alla popolazione ancora nulla: erano entrati in città con dei carri armati, e questo aveva immediatamente demolito ogni difesa psicologica potessero incontrare lungo il proprio cammino. Ogni possibilità di resistenza da parte dei cittadini era stata soffocata dalla presenza dei mezzi corazzati e di tutte quelle armi. I messaggi diffusi nelle varie zone di Eglon, scanditi ad alta voce dai megafoni, avevano assicurato che nessuno si sarebbe fatto male se la resa fosse stata incondizionata.
I buoni cittadini di Eglon, naturalmente, si erano consegnati in silenzio e avevano preferito abbassare il capo, piegarsi a novanta e farselo mettere nel didietro.
L’azione di quei rivoluzionari era stata rapida ed efficace. Nel giro di pochi minuti avevano conquistato le vie, bloccato le strade, impedito le comunicazioni, raso al suolo l’aeroporto, sconfitto la polizia, occupato la stazione ferroviaria. Un assedio durato pochi secondi, che aveva dato esito positivo senza che venisse sparso troppo sangue.
Era terribile, certo, ma così stavano i fatti. E Daniel Green si domandò dove fosse suo padre, il vicesindaco, in quel preciso istante, e che cosa stesse pensando di fare per sanare al più presto la situazione.
Daniel e Rebecca camminarono ininterrottamente per circa quarantacinque minuti. Si trovavano presso il margine della città, quando accanto a loro si iniziò ad udire il cupo sferragliare di un treno in arrivo. Allora i binari non erano ancora stati bloccati del tutto, si disse subito Daniel. Dunque un modo per uscire da Eglon esisteva ancora, ed era attraverso quei binari che sboccavano nella campagna e seguivano il corso del fiume Arkansas in direzione Little Rock!
«Sta arrivando un treno!» annunciò il ragazzo, consapevole che il convoglio sarebbe stato fermato e smontato nella stazione cittadina, ma in ogni caso felice perché forse era riuscito a trovare la maniera di allontanarsi da Eglon e contattare l’esterno in cerca di aiuto.
Si avvicinò alla staccionata di pietra che seguiva il percorso dei binari e il suo sorriso sfumò, subitamente messo in ombra da un’espressione disorientata di buio stupore irreprimibile. Rebecca gli si avvicinò con sguardo truce, e osservò assieme a lui il passaggio di quelle sei carrozze in fiamme che producendo un insopportabile clangore metallico varcavano i confini comunali della città di Eglon e si infilavano tra le case, avanzando senza rallentare.
«Che cosa significa?» domandò Rebecca con la voce già resa più tenue dalla paura.
Daniel guardava il treno avviluppato dal fuoco che correva a perdifiato verso il centro della città, in direzione della stazione ferroviaria. Sulla fiancata di una delle carrozze, a lettere cubitali, c’era una scritta spruzzata con lo spray, rossa come il fuoco che la lambiva, lampante e tremenda come nessun’altra avrebbe potuto essere: 11/09, recitava quella scritta, e leggendola Daniel si sentì mancare.
«È un messaggio» rispose una voce alle loro spalle, facendoli sussultare. Si voltarono e si ritrovarono davanti un uomo con il volto coperto da una maschera che sembrava fatta di robusta corteccia. La sua voce apparve misurata, ma sogghignante. Quell’uomo stava ridendo. Si stava divertendo nello scrutare le loro attonite espressioni di incomprensione.
«Non lo capite?» riprese il rivoluzionario con una certa pazienza, come se stesse spiegando una semplice operazione di addizione matematica a due elementi poco svegli della classe di un liceo scientifico. «Non c’è bisogno che qualcuno di voi esca per contattare l’esterno. Quel treno arriva da Little Rock, e ora le barriere alla stazione verranno rimosse e il convoglio in fiamme proseguirà verso Pine Bluff, attraversando la città e spandendo per tutto l’Arkansas il suo messaggio.
«Questa è l’alba del nuovo 11 settembre. Ragazzi, quant’è bello sentire finalmente pronunciate queste parole?»
Daniel si voltò dall’altra parte e sogguardò la coda di fumo nero che si levava in cielo dal treno in viaggio verso Pine Bluff. Quindi si girò dall’altra parte, puntando lo sguardo nella direzione dalla quale il convoglio era arrivato, e vide la cosa più orribile alla quale gli fosse mai capitato di assistere: un gruppo di uomini, attorno al margine formato dalle ultime case prima della campagna, stava sollevando con delle corde un enorme pannello di legno alto almeno tre metri e spesso diversi centimetri, e più in là c’era una catasta di quei grossi blocchi di legno appena scaricati da un furgone blindato e altri uomini li stavano sollevando uno per volta e posizionando.
Stavano costruendo una barriera attorno alla città. Una barriera con feritoie, come il muro di una fortezza in procinto di venire assediata. Eglon si stava preparando ad essere attaccata dall’esercito degli Stati Uniti d’America, e stava rinforzando i confini per impedire che la parte avversa li sfondasse senza troppo impegno.
«Stanno fortificando Eglon…» mormorò, e l’uomo con la maschera di corteccia che gli stava alle spalle si profuse in una gustosa e agghiacciante risata di conferma.
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