mercoledì 26 ottobre 2011

La Stanza in cui Piovono Lacrime - Parte V

«Bob!» esclamò, con una punta di sorpresa nella voce. Possibile che quell’ufficio fosse già giunto a questo punto? Era già riuscito ad esplorare la sua mente con tanta facilità e velocità, senza nemmeno lasciargli il tempo di rendersene conto? Poteva anche darsi, si convinse, ma le sue barriere di resistenza erano molto forti. Sarebbe riuscito a mantenere il controllo e a reggersi in piedi, qualunque cosa potesse comparire all’improvviso entro quelle quattro mura intonacate di sangue denso e vermiglio che colava e gocciolava ininterrottamente sul pavimento non più ricoperto da uno strato di polvere, bensì da diversi centimetri di cenere.
E il suo sguardo, per un momento, fu attirato proprio dalla cenere. Lì a terra, tra i rimasugli di carbone, c’era una cornice dorata, con piacevoli motivi floreali incisi nel metallo e fili d’argento che disegnavano farfalle e piccoli cuoricini. Tutta la cornice era resa opaca dal fuoco, e in alcuni punti sembrava fosse parzialmente bruciata. Il vetro c’era ancora, e la fotografia dietro appariva integra, non divorata dalle fiamme, bella e terribilmente dolorosa come lo era sempre stata in ogni istante in cui l’aveva riguardata mentalmente dopo il tragico incidente. Due volti gli sorridevano, da quella fotografia: uno era quello di un Matthew Sunstrike decisamente più giovane, vestito in smoking, tirato a lucido, i capelli ben pettinati all’indietro e il volto così felice e…spensierato. Già, questo era ciò che l’espressione gli comunicava. Ma accanto al proprio volto ce n’era anche un altro, uno che gli faceva molto più male, un sorriso che lo penetrava, rendendolo indifeso, incorniciato tra una lucente cascata di capelli corvini e un velo bianco che gli conferiva un aspetto quasi etereo, divino, per certi versi. L’abito da sposa era davvero magnifico. Ricordava ancora il giorno in cui l’aveva vista avvicinarsi all’altare…sua moglie…la sua dolce Cristal…
«Be’ Matt, non sei cambiato di una virgola, lasciatelo dire» lo richiamò alla realtà il suo amico Bob, facendogli distogliere lo sguardo da quella cornice che aveva regalato a Cristal quando erano ancora fidanzati, un paio di mesi prima del matrimonio, e nella quale avevano in seguito messo la fotografia più bella delle loro nozze, quella in cui erano stati immortalati mentre si avvicinavano mano nella mano al ristorante dove aveva avuto luogo il pranzo dopo la cerimonia, mentre attraversavano il ponticello sul laghetto che precedeva l’ingresso al locale prenotato per l’occasione. Riportò immediatamente gli occhi a scrutare attentamente la cenere ai propri piedi, ma non vi scorse più la cornice e la fotografia. Erano scomparse. Come inghiottite un’altra volta dalle fiamme.
«Va tutto bene?» chiese Bob appoggiandogli una mano sulla spalla, facendolo in questo modo sussultare. Matthew si sforzò di sorridere e alzò il viso per guardare l’amico in faccia. Bob gli sorrideva amichevolmente, come se stessero avendo una rimpatriata dopo una dozzina d’anni dall’ultima volta in cui si erano visti.
«Sì, sì, tutto bene…» mentì Matthew, incerto su che cosa dire. La situazione si stava facendo alquanto strana. Stava parlando, in un ufficio completamente vuoto, con il suo amico dell’università Bob Cleck, ma il dettaglio più preoccupante era un altro: il suo amico Bob Cleck era morto. Strangolato nel bel mezzo di una rissa ai tempi dell’università, fuori da un locale poco distante dal campus, aggredito da quattro motociclisti che, dopo averlo soffocato con un laccio di scarpa, gli avevano sparato un colpo in mezzo alla fronte per accertarsi che non potesse più parlare di ciò che era successo. Ricordava bene quella notte: il rettore dell’università lo aveva mandato a chiamare alle quattro e mezza, facendolo svegliare da un tipo addetto alla sorveglianza notturna, e gli aveva comunicato che il suo compagno di stanza Bob era stato assassinato qualche ora prima e ritrovato da appena quarantacinque minuti da una pattuglia che era stata chiamata sul luogo dell’incidente.
Ricordava anche come si era sentito: impotente, debole, quasi inutile, al pensiero che ciò di cui lo stavano informando era già accaduto, e che ormai non poteva farci più niente, che lo sapesse o meno, e perciò gli era venuto stupidamente da chiedersi: che senso aveva svegliarlo in piena notte per dirgli che il suo compagno di stanza era stato ammazzato? Tanto era morto comunque, e lo sarebbe stato anche se lo avessero avvisato dal fatto l’indomani mattina. Ma subito si era pentito per questa riflessione e si era morso le labbra. Quella notte, com’è comprensibile, non era più riuscito a chiudere occhio un solo minuto, sdraiato accanto al letto che Bob aveva occupato fino alla sera prima, con quei vestiti nell’armadio che appartenevano ad un cadavere, e quella sedia dove un morto si era seduto qualche ora prima e dove aveva lasciato i propri vestiti della giornata, gettati lì alla rinfusa, dopo essersi lavato e cambiato per uscire la sera.
«A me sembra invece che ci sia qualcosa che non va…» insistette Bob, perplesso, osservando attentamente l’espressione rabbuiata di Matthew, che lo fissava attonito. Matthew rimase interdetto. Sembrava che il suo amico non si riferisse a lui, ma a se stesso. Aggrottò la fronte e allungò una mano per toccarlo, posandogliela sulla spalla. Era vero. Era un uomo concreto. Un ragazzo, di ventidue anni, identico a com’era quella sera in cui era morto, ancora con gli stessi vestiti addosso. Era questo che non andava. Era questo che proprio non quadrava.
«Che cosa c’è che non va?» domandò Matthew, per vedere quanto l’amico fosse cosciente del fatto di essere un cadavere ambulante. Un’ombra di terrore attraversò il volto di Bob, facendolo sobbalzare appena. Il ragazzo tolse la mano dalla spalla di Matthew e indietreggiò adagio, spaventato, l’espressione tinta da un sincero senso di paura.
«Sei più vecchio, Matt. Mi sembri più vecchio. Che cosa sta succedendo, Matt?» volle sapere il ragazzo, guardandosi i palmi delle mani e analizzandoli con gli occhi sempre più pieni di lacrime, mentre ancora muoveva alcuni cauti passi all’indietro.
«Va tutto bene, stai tranquillo. Va tutto bene» cercò di calmarlo Matthew, provando ad avvicinarsi all’amico. Ma Bob sembrava essere andato fuori di testa. Non era semplicemente disorientato. Quello che gli si leggeva negli occhi era puro terrore. E fu proprio questo a spaventare più di tutto quanto Matthew. Di che cosa poteva avere tanta paura?
D’un tratto, Bob si fermò, guardò la cenere a terra, ne smosse un po’ con la punta della scarpa, quindi sollevò nuovamente il volto e, con un sorriso incerto, riprese a camminare con disinvoltura verso il vecchio compagno di stanza dell’università, sfoderando a mano a mano che procedeva un’espressione sempre più amichevole e carica di gioia, l’espressione intagliata nel legno di una marionetta inanimata, un pupazzo senza vita che si muoveva tirato da fili apparentemente invisibili.
«Matthew Sunstrike. Finalmente ci rivediamo, eh?» salutò per la seconda volta in una decina di minuti, porgendo la mano all’amico e rimanendo in attesa che questo gli rispondesse. Matthew rimase immobile, confuso. Che cosa stava accadendo? Bob non lo aveva appena salutato? Che gli era successo? Una perdita improvvisa di memoria?
«Accidenti, è passato un botto di tempo dall’ultima volta che ci siamo visti, Matt… Di’ un po’, come te la passi?» s’informò gentilmente Bob, e questa fu la goccia che fece traboccare il vaso già stracolmo di dubbi della mente di Matthew. L’uomo squadrò il ragazzo da cima a fondo, incerto su che cosa dire. Non stava bene che continuassero così. Doveva far capire subito a Bob che cosa c’era che non andava. O lo faceva adesso, o il ragazzo avrebbe continuato a navigare in quello stato di incomprensione e incoscienza.
«Bob… L’ultima volta che ci siamo visti tu stavi sdraiato dentro una bara. Sei morto, Bob…» mormorò Matthew, posando il proprio sguardo sul volto dell’amico, che si tramutò in un’orrenda smorfia di dolore, un’agghiacciante espressione di consapevolezza, un’amara ondata di sofferenza. Lentamente, attorno al suo collo comparve una linea violacea e tremendamente orripilante, i segni che aveva prodotto il laccio di scarpa con il quale quei sei motociclisti lo avevano strangolato. La striscia rossastra apparve adagio, come emergendo dalla pelle stessa del collo, e non appena Matthew alzò lo sguardo sulla fronte dell’ex compagno di stanza notò che era comparso dal nulla anche il foro lasciato dal proiettile che gli era stato sparato in testa la notte del suo assassinio.
«Mio Dio, oh mio Dio, aiuto, aiutami, aiutami Matthew!» prese a gridare il ragazzo con una voce struggente che gli lacerò di colpo i timpani. Si inginocchiò, cominciando a contorcersi sulla cenere che ricopriva il pavimento, urlando a squarciagola, implorando aiuto, mentre Matthew osservava la scena con un certo distacco, inarcando le sopracciglia. Sapeva che tutto quello che stava vedendo non era reale. Si trattava solamente di una visione generata dall’ufficio 074. Quelle quattro pareti sanguinolente stavano producendo nella sua mente quei suoni e quelle immagini, che presto tuttavia sarebbero scomparsi. Doveva solo aspettare. E non lasciarsi coinvolgere dall’orrore. Certo, però, che Bob sembrava così vero…

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