I lampioni che si avvicendavano lungo le vie di una boccheggiante Londra sferzata dalla pioggia erano tutti quanti rivolti verso il cielo, come lance impugnate da una prima linea di cavalieri schierati a difesa della città contro le tenebrose truppe degli eserciti della notte che calavano inesorabili. Lance di luce, una luce cerulea e poco vivace, quasi annoiata. Lance che non si sarebbero rivelate molto utili in quella battaglia contro l’oscurità che pareva essere già perduta fin dal suo esordio.
I passi frettolosi di una donna irruppero tutto d’un tratto nella scena, attraversando senza riguardo una pozzanghera, immergendo i tacchi nell’acqua torbida e scura appena oltre lo zoccolo del marciapiede. La donna oltrepassò la strada con aria irriverente, calpestando energicamente il tappeto d’asfalto fradicio, quasi che volesse fargli del male con quegli spilli di dodici centimetri che le tenevano sollevati i talloni. Reggeva fermamente un ombrello, trattenendolo con quanta forza poteva, duellando coraggiosamente con il vento che ad ondate d’assalti ripetuti tentava ignobilmente di strapparglielo via.
Alla fine, la donna ebbe la meglio, e raggiunse illesa l’altra sponda di quel fiume di bitume e auto sferraglianti. Un taxi fermo dall’altra parte l’accolse doverosamente, spalancando una portiera gialla che subito dopo si richiuse come una bocca sbilenca sulla povera donna e il suo ombrello ora chiuso e madido. L’autista della vettura, sprezzante, si sistemò lo specchietto di modo da riuscire ad intravedere meglio il piccolo scorcio delle cosce della passeggera attraverso le pieghe della gonna a balze, quindi, soddisfatto, ingranò la marcia e partì scabrosamente, accodandosi ad un furgone che trasportava surgelati.
Il tramonto aveva lasciato alla città di Londra un sapore amarognolo in bocca, perché se n’era andato senza nemmeno salutare: le nuvole avevano coperto lo splendore del sole calante e dei colori che esso versa solitamente nel cielo poco prima di penetrare l’orizzonte, e la qualità della luce era semplicemente passata da un grigio fosco e a tratti lattiginoso ad un buio repentino e, in minima parte, dalle sembianze grottesche. I lampioni si erano accesi con un impercettibile clangore dal gusto metallico, e così il crepuscolo si era esaurito in una tenebra malamente respinta.
Un altro tramonto consumato. Ma, se anche si fosse manifestato nella sua meravigliosa gamma di colori infuocati e sanguinolenti, quante persone lo avrebbero davvero ammirato, apprezzandolo appieno? In fin dei conti, l’importante è da sempre stato riuscire ad esorcizzare le tenebre, perché il buio è nero, e il nero rappresenta l’ignoto, e l’ignoto fa paura. Per questo esistono i lampioni lungo le strade, i fari delle automobili, le insegne luminose dei negozi, degli alberghi e dei centri commerciali, e le lampadine che rischiarano ogni singola finestra di ciascun tormentato edificio.
Quando il taxi nel quale era salita la donna con la gonna a balze si fu perso nel deflusso del traffico, un’altra figura si arrischiò nell’impresa di attraversare la strada in quel punto in cui le automobili sfrecciavano ai settanta chilometri orari anche con la pioggia, rassicurate dalla confortante presenza del rettilineo. Quest’altra figura non reggeva alcun ombrello, ma teneva le mani inabissate nelle ampie tasche di un impermeabile nero un po’ troppo largo. Un impermeabile nero come quella notte che i lampioni cercavano disperatamente di respingere, nella speranza che la luce del giorno, parecchie ore più tardi, giungesse con i rinforzi necessari a quell’ennesima vittoria temporanea e apparente. Ma il nero dell’impermeabile di questa nuova figura non stava a simboleggiare quell’ignoto che le luci avevano il compito di fugare dalla vista e dalla mente delle persone, perciò non rappresentava una minaccia.
Un baluginio verde attraversò fuggevolmente la strada, saettando tra le vetture in corsa. Le pozze d’acqua sull’asfalto fecero da specchio alle diramazioni di un albero azzurro fatto d’elettricità che nacque dalle nuvole scure in cielo e ne tranciò brutalmente a metà l’enorme distesa screpolata.
La figura non si fermò sul ciglio del marciapiede, ma discese sulla carreggiata e vi passeggiò tranquillamente. Le auto che stavano sopraggiungendo dai due sensi di marcia inchiodarono precipitosamente. Le gomme di una vettura slittarono per un breve tratto sull’asfalto bagnato, ma riuscirono a fermarsi in tempo. La silhouette proseguì imperterrita, incurante dei colpi di clacson che le fioccarono addosso come la neve nella tormenta di una gelida notte di Natale.
«Attento a dove vai, coglione!» berciò scontrosamente un automobilista abbassando il finestrino della sua Jaguar e strillando con voce roca e rabbiosa. La figura che attraversava la strada non lo degnò di uno sguardo, la testa annegata nelle spalle e in una sciarpa color blu notte la cui estremità pendeva all’indietro come un prolungamento del collo di colui che la portava, fluttuando nel vento al seguito del suo proprietario. La figura raggiunse il marciapiede dall’altra parte, e il traffico si riassestò e riprese a scorrere omogeneo come aveva fatto fino ad un istante prima. L’impermeabile nero e il fondo della sciarpa blu notte che lo seguiva ondeggiando si tramutarono in uno schizzo di carboncino sotto la pozza di luce alabastrina dei lampioni in lontananza, i contorni confusi in una pioggia sottile ma fitta che rimbalzava su ogni superficie avvolgendola di un alone di vapore evanescente.
Un ragazzino sopraggiunse di corsa da quel lato della carreggiata. Nemmeno lui portava un ombrello. Si era limitato a calcare il cappuccio del giubbotto arancione sulla testa. Sfiorò per un pelo con la spalla la figura stretta nell’impermeabile nero, e si bloccò di scatto con i piedi per metà fuori dal bordo del marciapiede, le scarpe Nike sporche di fango. Si mise a battere freneticamente un piede per terra, manifestando la sua impazienza di attraversare, ma il continuo flusso di veicoli che andavano e venivano non dava accenno alla minima intenzione di lasciarlo passare. Sbuffò, e il suo respiro si condensò in una nuvoletta affusolata che macchiò l’aria attorno alle sue labbra. La sua mano sinistra stringeva convulsamente un oggetto colorato, che da una tale distanza non si sarebbe potuto associare ad alcuna forma conosciuta.
Finalmente un automobilista si arrestò per lasciarlo passare, e il ragazzino si fiondò in mezzo alla strada e l’attraversò di corsa, sotto la pioggia. Schizzò sul marciapiede nell’esatto punto in cui pochi secondi prima erano transitati la donna con la gonna a balze e la figura stretta nell’impermeabile nero, e proseguì oltre senza fermarsi, scomparendo dalla vista sotto la pioggia, lasciando intendere per un unico barlume d’istante che l’oggetto colorato tra le sue dita era un pennarello verde fosforescente che probabilmente portava a casa dalla cartoleria dietro l’angolo, nella quale lo era forse appena andato a comperare.
La strada rimase immobile per qualche istante, condensata in un’istantanea in bianco e nero di una via senza traffico sotto la luce dei lampioni e la pioggia di una serata autunnale, quindi Londra riprese a boccheggiare come se nulla d’importante stesse accadendo, e l’acqua continuò a scrosciare sui margini dei marciapiedi, scorrendo in piccoli torrentelli sciabordanti che rimandavano barbagli ai fari accesi delle automobili in transito.
Il cielo fu scisso da un altro fulmine, che si diramò rapidamente in direzione del suolo come un albero rovesciato (o come le radici di una pianta improvvisamente affondate al di sotto delle nuvole), una saetta color blu elettrico che richiamò nelle menti di alcuni le tremende immagini dei vecchi testi di mitologia in cui Zeus, il padre degli dèi nella mitologia classica, impugnava una folgore e la brandiva contro i suoi nemici.
In un semaforo, appeso ad un incrocio più distante, scattò il rosso, e una luna di luce sanguinea si dipinse nelle pozzanghere d’acqua sull’asfalto. Una nuvoletta di vapore perlaceo, il respiro condensato di un essere vivente, fuoriuscì da un crepo invisibile, facendo capolino nell’inquadratura da chissà dove. Si dipanò ossequiosamente in un filo di vento, avvicinandosi alla carreggiata, e fu dispersa nell’aria dal passaggio di una Volkswagen.
Un brontolio sordo fece da sottofondo al trambusto dei motori delle automobili, al crepitio di pneumatici secchi sull’asfalto inumidito dalla pioggia e al ronzio persistente e fuorviante dei lampioni, due file parallele di animali placidi e tediati che se ne stavano sul ciglio della strada senza battere ciglio, in attesa di un richiamo all’ordine che non sarebbe mai giunto. Poi, questo sommesso borbottio si spense, esattamente dov’era cominciato: nel nulla.
La notte sciolse i propri nodi uno di seguito all’altro, srotolandosi nel vuoto del buio con calma pigra e distaccata. Si sbrogliò, si svolse e giacque svogliatamente sulla strada sferzata dalla pioggia fino all’arrivo delle primissime luci dell’alba, luci sempre grigie e velate dalle nuvole che non cessavano di riversare secchiate d’acqua sull’asfalto già annegato. Quindi, si ritirò, per lasciare il posto ad una mattinata bigia e uggiosa di inizio ottobre, non più limpida e colorata della sera precedente che si era ben presto esaurita in un tramonto slavato.
Le automobili seguitarono a percorrere la strada senza ritegno, mai interrompendo il proprio flusso sistematico e monotono, nemmeno nelle ore del buio più profondo, quelle che, dopo la mezzanotte, da piccole cominciavano implacabilmente a crescere.
Il sole, nascosto, non salutò la capitale, e questo sembrò apparire quale uno sdegnoso dispetto ai buoni cittadini londinesi, che arricciarono il naso osservando il cielo e si rabbuiarono, chiudendosi ermeticamente in un’espressione indecifrabile costituita da un composto di malinconia e irritabilità.
Nonostante questa formula assai comune, che molto spesso si ripete nella boccheggiante città di Londra, quella non fu una mattinata come le altre. Almeno, non per chi seguì sconcertato la vicenda dei tre misteriosi omicidi che si erano consumati durante la notte, le cui vittime furono rinvenute nello stesso preciso istante in tre angoli diversi di Londra, proprio mentre i lampioni lungo quella strada che aveva egregiamente superato la notte si spegnevano gorgogliando appagati.
In un vicolo a due chilometri di distanza da quella strada, una donna fu ritrovata accasciata con la schiena appoggiata ad un cassonetto della spazzatura. Era una donna piuttosto giovane, attorno alla trentina, e sicuramente abbastanza attraente da poter essere definita carina. Indossava una gonna a balze, e stringeva nelle dita fredde dalle unghie smaltate di verde un ombrello chiuso. I capelli, con la pioggia, le si erano incollati alla faccia, e il trucco si era sciolto. Gli occhi verdi, in tono con lo smalto sulle unghie delle mani, erano sbarrati in un’angosciosa espressione di terrorizzata sorpresa.
Altrove, a circa quattro chilometri e mezzo dalla strada nella quale la donna ora trovata morta era salita la sera prima a bordo di un anonimo taxi (il cui autista sarebbe stato interrogato qualche ora dopo dalla polizia, presentando un alibi inattaccabile), un anziano signore che si era alzato per una salutare passeggiata di prima mattina rinvenne il corpo di un uomo sulla mezza età riverso sopra una panchina di un piccolo parco cittadino, fradicio di pioggia, stretto in un impermeabile nero, la testa incassata in una sciarpa color blu notte che gli svolazzava a lato come un’inerte banderuola appesa al tetto di una casa abbandonata. Anch’egli aveva gli occhi sbarrati, e sembrava pregare che, qualunque cosa gli stesse capitando, finisse in fretta.
In un’altra zona della città, a poco meno di novecento metri dalla strada che aveva percorso la sera precedente di ritorno dalla cartoleria, fu ritrovato un bambino dell’età di otto anni, vestito con uno spensierato giubbotto arancione, nella tasca un pennarello verde fosforescente appena acquistato. La madre, angosciata, non vedendolo rientrare aveva avvisato la polizia poco prima della mezzanotte. Non aveva chiuso occhio per l’intera nottata, e più tardi, una volta giunte le forze dell’ordine sul luogo del ritrovamento, avrebbe ricevuto una telefonata da una voce rauca che le avrebbe chiesto se gentilmente poteva prendere parte alla dolorosissima cerimonia del riconoscimento del cadavere di suo figlio. Pure questo bambino aveva gli occhi sbarrati, e la donna di colore che lo vide per prima rovesciato sul prato denso di pioggia di una casetta a schiera disse che la sua faccia era quella di un ragazzino convinto di aver visto un fantasma.
Accadde tutto questo durante quella strana mattinata, mentre una boccheggiante Londra si risvegliava nell’ennesima giornata grigia e piovosa, e quando la polizia collegò tra loro i tre casi di omicidio avvenuti durante la scorsa notte per via delle identiche ferite mortali, nessuno seppe dare una spiegazione plausibile al fatto che le tre vittime fossero decedute più o meno alla stessa ora in tre parti distinte della città. L’unico particolare che aggiungeva il macabro al lugubre era quello delle lesioni fatali inferte ai corpi: ognuno di loro, infatti, aveva ricevuto un colpo terribile alla gola, e parte della carne era stata strappata via, come se qualche orrenda bestia li avesse letteralmente azzannati e se ne fosse andata con il proprio tiepido boccone insanguinato tra le fauci.
Intanto, sulla strada in cui per un fuggevole istante quelle tre persone erano passate allo stesso tempo la sera precedente, una nuvoletta di vapore perlaceo, il respiro condensato di un essere vivente, fuoriuscì da un crepo invisibile, facendo capolino nell’inquadratura da chissà dove.
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