Emily Cooper non si sarebbe mai
immaginata che per raggiungere Pine Bluff in treno, partendo da Little Rock con
una coincidenza spaventosamente precisa, occorressero così tante ore. Eppure
era ferma alla stazione di Eglon da tutto un giorno, aveva fame e sete e anche
un po’ di freddo, si sentiva stanca e assonnata e soprattutto terribilmente in
ansia perché da circa quattro ore aveva finito le sigarette.
Eh già, perché proprio qui stava il
punto: non poteva trattenere il suo nervosismo quando era in astinenza da
tabacco. E che accidenti di stazione dei treni era quella lì, che non aveva
neppure uno stramaledetto distributore di sigarette? Roba da matti, rifletté Emily squadrando il tipo che piantonava
l’uscita con una mitraglietta Uzi a
tracolla e una maschera di plastica rossa e gialla sul viso. In che razza di
covo di mentecatti era finita?
Stavano lì dalla mattina, quando il
loro treno era stato bloccato poco dopo l’alba da quei tizi armati con il volto
coperto che davano a Emily l’impressione di essere un po’ tocchi. I vagoni
erano stati smontati e spostati dai binari, e tutti loro erano stati radunati
nella sala d’aspetto della stazione assieme ai passeggeri di almeno un altro
treno. Dovevano essere esausti anche gli altri, considerò Emily guardandosi rapidamente
intorno. Stavano in piedi da ore, eccetto ovviamente quelli che per primi si
erano presi le poche seggiole sparpagliate per la sala e quelli che avevano avuto
il coraggio di sedersi per terra nonostante lo sporco che si scorgeva sul
pavimento. A pranzo erano stati distribuiti pasti preconfezionati di
assortimento piuttosto vario, e poi più niente. Qualche bottiglietta d’acqua
girava di quando in quando, ma i tipi che piantonavano gli ingressi e li
tenevano costantemente sotto controllo non avevano ancora dato segno di volerli
lasciare andare.
Certo che Emily, quella mattina quando
era partita, sicuramente non si aspettava di rimanere invischiata suo malgrado
in una situazione simile. Pareva eccessivamente assurdo, a suo avviso. Troppo
inverosimile perché ci potesse credere del tutto. Eppure non le pareva di
intravedere alcuna telecamera, nei paraggi, il che significava che molto
probabilmente non erano vittime di un qualche scherzo assurdo macchinato
dall’ultimo scrittore freelance di copioni per reality show.
Le esplosioni e gli spari che si erano
susseguiti fuori dalla stazione per la maggior parte della giornata erano
riusciti a mettere in agitazione il più dei presenti, in particolar modo una
famigliola che stava presumibilmente andando in vacanza da qualche parte
(in
vacanza a Pine Bluff?? Bah, cavoli loro…)
con i tre figli piccoli che dalle sette di quella sera
reclamavano a gran voce il proprio pasto abituale strillando e scalciando come
dei forsennati.
Adesso fuori sembrava tutto
tranquillo. Nessuno lì dentro aveva ancora avuto modo di uscire a vedere che
cosa stesse succedendo, ma c’erano molte ipotesi che dopo aver girato di bocca
in bocca avevano finito per coincidere…
«Signore e signori!» scandì una voce
senza accento prorompendo all’interno del salone della stazione dei treni di
Eglon attraverso gli altoparlanti disposti sul soffitto. «Benvenuti a Eglon! Ci
scusiamo per la difficile giornata d’attesa che vi abbiamo fatto trascorrere
chiusi qui dentro. Non ci aspettavamo così tanti passeggeri tutti in una sola
volta, ma adesso il problema è stato risolto. A ciascuno dei nuclei famigliari
qui presenti sarà assegnata una stanza nei principali alberghi cittadini, il
tutto naturalmente gratis. A una
condizione, però…»
La gente, già radunata attorno agli
ingressi per sciamare fuori da quell’ambiente che cominciava ad essere sempre
più stretto, si scambiò un mormorio confuso.
«Ognuno di voi dovrà lasciare i propri
documenti in ingresso. D’ora in avanti siete cittadini di Eglon a tutti gli
effetti, signore e signori. E non ve ne andrete da questa città mai più.»
LE
ANIME DI EGLON
PRIMA
STAGIONE
EPISODIO
13
PENA
DI MORTE
Quando riaprì gli occhi, Stan non ci
mise molto a realizzare di aver dormito troppo poco. O almeno questa era la
sensazione che provava. A dire la verità, le sue sei ore buone di sonno era
riuscito a concedersele, ma non gli erano state sufficienti a recuperare i due
giorni in cui non aveva dormito nemmeno per un minuto.
Tra l’altro, Stan Payton sapeva anche
che le ore di sonno perdute sono in realtà impossibili
da recuperare. Quel che è perso è perso, e questo con il sonno valeva quasi
di più che con tutto quanto il resto. Ma sei ore le aveva trascorse volentieri
sul divano per ricaricarsi le batterie, e adesso si sentiva già meglio.
Non provò alcun senso di confusione
ridestandosi sul divano della sua vecchia casa con una coperta di lana sopra.
In fondo, era abituato a questi risvegli anche quando stava ancora con Sarah,
perciò niente di straordinario.
Era la mattina del dodici settembre, e
fuori c’erano ancora le nuvole.
La notte era stata trascinata via su
di una barella nera da una luce tenue e polverosa che le si era sostituita, la
luce del sole filtrata da una cappa impenetrabile di nuvole grigie che
conferivano alla città un diffuso senso di malinconia. Stan poté scorgere tutto
questo attraverso le tende che nascondevano con scarso successo una delle due
finestre del soggiorno, e la prima domanda che spontaneamente lo colse fu: che
cos’era successo a Eglon quella notte mentre lui dormiva?
Si tirò su e si mise a sedere,
strofinandosi gli occhi e sbadigliando. Il giorno prima lui e Robert erano
rientrati a casa nel tardo pomeriggio, dopo la loro rapida visita presso le
barricate piazzate dai rivoluzionari lungo il margine settentrionale della
città. Da Main Street avevano udito i boati di un bombardamento piuttosto
breve, molto probabilmente organizzato dai ribelli per dimostrare all’Esercito
che non si sarebbero lasciati intimidire tanto facilmente. E in effetti era
proprio così: inizialmente, quando si era parlato di Esercito, Stan aveva pensato che i militari avrebbero rimesso le
cose in ordine nel giro di una giornata. I tre Black Hawk abbattuti nei cieli
di Eglon il giorno prima, però, avevano immediatamente demolito questa sua labile
speranza.
Adesso non osava neppure immaginare
che cosa potesse essere successo durante la notte. Di certo non c’era stata
alcuna battaglia, altrimenti i bombardamenti lo avrebbero svegliato. Né si dovevano
essere verificati grossi disordini, perché non ricordava di aver udito nulla.
Magari qualche sparo poteva anche esserci stato, ma sicuramente non nel loro
quartiere. Il suo sonno era troppo leggero perché non si interrompesse con un
colpo di pistola.
Si guardò attorno e sondò con lo
sguardo il salone in penombra. Era strano trovarsi di nuovo lì, rifletté. Era
una sensazione alquanto insolita rivedere le vecchie cose mescolate a quelle
nuove che Robert e Sarah avevano pensato di aggiungere negli ultimi mesi. Da
quando si era lasciato con Sarah, Stan non aveva mai rimesso piede in quella
casa. La domenica sera riportava a Eglon i figli e li salutava senza scendere
dall’auto, quindi attendeva che superassero il vialetto d’accesso e varcassero
la soglia per poi ripartire alla volta del suo solitario appartamento di Little
Rock.
E chissà come stava il suo
appartamento, adesso, e soprattutto chissà se i suoi vicini sapevano che lui si
trovava a Eglon…
La sua macchina era a posto. La sera
prima era uscito per andare a controllarla e, visto che Main Street appariva
piuttosto libera, era montato su e l’aveva portata a casa, parcheggiandola
dietro l’utilitaria verde pisello di Robert. E poi che razza di macchina si era
preso, Robert? Un’utilitaria verde
pisello? Non sapeva nemmeno che un colore del genere esistesse per quel
modello! Ma forse Robert se l’era addirittura fatta fare apposta, chiedendo al
concessionario di provvedere a verniciarla interamente di verde pisello e
pagando anche qualcosina in più per l’integrazione…
Stan scrollò la testa esasperato e si
alzò in piedi, scoprendo di essersi addormentato con i vestiti e le scarpe
ancora addosso. Si diresse verso la cucina a passi felpati, cercando di fare
meno rumore possibile. La sera prima, quando si erano salutati, Sarah era
andata di sopra con i bambini, promettendo loro che avrebbero dormito assieme a
lei nel lettone, e Robert era rimasto in cucina. Era ancora lì, constatò Stan
con una certa sorpresa. Addormentato su una sedia, con la testa reclinata sul
petto e le braccia abbandonate inerti lungo i fianchi. Sarebbe parso morto se
non fosse stato per le spalle che si alzavano e si abbassavano lievemente
all’unisono con il respiro.
Doveva essere rimasto sveglio per la
maggior parte della notte a fare la guardia alla casa, pensò Stan, provando per
lui un pizzico di compassione. Dopotutto era un brav’uomo, per quello che aveva
potuto constatare. Trattava bene Sarah e i bambini, e non faceva mancare loro
nulla. Odiarlo, in questo momento, gli risultava pressoché impossibile.
Tornò di là e spiò oltre la finestra scostando
a malapena la tenda. Fuori sembrava tutto tranquillo. Il giardino era bigio e
triste come il cielo, e più avanti la strada appariva fredda e desolata. Gli
edifici, dall’altra parte, stavano immobili e sfilavano accanto a Main Street,
senza abbandonarla mai. Auto ferme, parcheggiate vicino ai marciapiedi o sui
vialetti d’accesso delle abitazioni. Pochi passanti, un vecchio con un bastone
che camminava lentamente seguendo il marciapiede, un tipo sulla cinquantina in
tuta da ginnastica con un dobermann tenuto al guinzaglio, una donna in
pelliccia che entrò e uscì dal suo campo visivo così rapidamente da dargli
quasi l’impressione di aver avuto un’allucinazione.
Sì, era tutto tranquillo là fuori. Non
ci dovevano essere stati disordini rilevanti, nel corso delle ore di buio, e
adesso si profilava all’orizzonte un nuovo giorno che racchiudeva
inevitabilmente in sé un piccolo seme di speranza.
Stan girò la chiave appesa alla
serratura della porta d’ingresso e uscì all’aria aperta, aspirando e
assaporando tutto d’un fiato quell’atmosfera grigia e rarefatta che aleggiava
attorno alle case silenziose. Decise di fare quattro passi per sgranchirsi un
po’ le gambe e svegliarsi del tutto, così prese con sé le chiavi, serrò la
porta e si mise in cammino lungo il marciapiede che portava tramite Main Street
verso il centro cittadino.
Un uomo con una pistola stretta in
pugno lo guardò passare di sottecchi, appostato davanti alla facciata di una
banca. I suoi occhi lo seguirono da dietro l’orlo superiore di una bandana blu
che gli copriva mento, bocca e naso. Stan finse di non accorgersene e proseguì
nella sua calma risalita mattutina di Main Street. E pensare che una volta
faceva quella strada tutte le mattine per andare al lavoro… Era strano
ripercorrerla col senno di poi, riscoprendone gli angoli uno dopo l’altro e
facendoli riemergere dalla nebbia dei ricordi tappezzati di ragnatele nei quali
erano segregati.
Aveva un po’ di sonno, ma la sua mente
si stava riscuotendo da quello stato di torpore che ancora la avvolgeva quando
aveva messo piede fuori dalla porta di casa. L’aria fresca dell’alba era sempre
l’ideale quando ci si voleva sgravare degli effetti del sonno.
Dentro di sé, Stan si sentiva in
dovere di fare qualcosa per aiutare a risolvere la situazione. Erano morte
delle persone. Troppe persone, e lui era lì che passeggiava tranquillo dopo
aver dormito beatamente per gran parte della notte. Non era assolutamente
realistica una cosa del genere, nemmeno ai suoi occhi. Eppure le strade
apparivano quantomeno normali, e
tutto l’ambiente, in un certo qual modo, comunicava senza mezzi termini la
propria assoluta regolarità. Come se la città di Eglon non avesse visto neppure
una magra gocciolina di sangue, quando invece si stava consumando in essa una
rivoluzione feroce che aveva ammazzato come minimo un centinaio di uomini e
donne nel giro di una sola giornata.
Forse era proprio su questo che i
ribelli stavano giocando. Salvavano le apparenze, facevano sembrare tutto
quanto a posto quando in realtà la città era profondamente sconvolta.
Legittimavano le proprie azioni agli occhi della popolazione impaurita,
facendole credere di essere al sicuro in mezzo a una selva di proiettili
vaganti che non miravano a uccidere alcun nome preciso, ma si limitavano ad
ammazzare indistintamente chiunque.
E fu mentre rimescolava questi
pensieri che Stan notò un assembramento di persone che occupava quasi tutta la
carreggiata davanti al municipio, come un’adunanza straordinaria della
cittadinanza richiesta dal sindaco ormai defunto.
Affrettò il passo e si congiunse alla
calca, infilandosi tra le persone per avanzare di qualche posizione ancora e
vedere che cosa stesse accadendo di tanto interessante.
E l’uomo con la maschera blu e
l’elmetto da soldato che stava in piedi sotto uno dei lampioni posti a lato di
Main Street iniziò a parlare.
Gregory Donington non aveva
dormicchiato più di un’ora e mezza nel corso di tutta la notte, ma si sentiva
ancora sveglio e lucido come se avesse dedicato al sonno un’intera settimana.
In fondo, era abituato a ritmi ben più pesanti. Quando era stato in missione
per otto mesi in Afghanistan, ad esempio, facendo la spola tra Kabul e l’Iraq
almeno una volta ogni quindici giorni a bordo di un aereo per il trasporto
merci che minacciava di perdere quota e precipitare a ogni soffio di brezza, se
l’era vista molto più brutta. Anche se non era da sottovalutare il fatto che
una trentina di ore prima un totale sconosciuto avesse tentato di farlo fuori
in casa sua.
Adesso se ne stava seduto per terra vicino
alla porta che collegava la sua cantina all’ex sala caldaie che aveva
trasformato in un rifugio perfetto. Brett dormiva a pochi metri da lui, nella
culla che aveva provveduto a trasferire dal piano superiore prima di sigillare
la porta della cantina, mentre Susi riposava sul divano accanto, dormendo sogni
poco profondi e quasi sicuramente inquieti.
Greg dedicò loro solo un’occhiata fugace
condita con un mezzo sorriso amorevole. Stava cercando di mettersi in contatto
con un satellite protetto del quale la CIA si
serviva occasionalmente in caso di perdita delle comunicazioni, ma proprio non
riusciva ad agganciarlo. Dovevano essersi procurati dei disturbatori piuttosto
efficaci, quegli uomini là fuori che girovagavano armati e mascherati per le
strade della città. Jammer all’avanguardia, forse anche più potenti di quelli
in dotazione all’Esercito regolare. E poi non c’era da dimenticare il fatto che
si trovava in un ambiente interrato, dettaglio non trascurabile in questo caso.
Sospirò affranto e abbassò lo schermo
del computer portatile, mettendolo in standby. C’erano moltissime cose da fare,
ragionò. Si trovavano in un luogo sicuro, attrezzato e sufficientemente
provvisto di viveri. Ma là fuori era scoppiato l’inferno, ed era suo compito,
in qualità di agente addestrato della CIA,
scovare delle soluzioni per riportare l’ordine al più presto.
Il pomeriggio precedente si era recato
verso il margine orientale della città per vedere le barricate che si stavano
costruendo. Il terminal aeroportuale era stato abbattuto con dei macchinari per
le demolizioni e le piste d’atterraggio erano state smantellate per fare spazio
a una barriera di spessi pannelli di legno incastrati l’uno nell’altro per
diversi chilometri. In corrispondenza delle sponde del fiume Arkansas i ribelli
avevano provveduto a erigere soltanto delle torrette di controllo e dei posti
di blocco lungo i due ponti che mettevano in comunicazione le rive opposte.
Dall’altra parte del corso d’acqua c’erano solamente fattorie, e così i ribelli
avevano bloccato i ponti con due linee di automobili ribaltate e avevano
allestito aree di controllo affinché nessuno si sognasse di accedere al centro
abitato risalendo le correnti del fiume e arrampicandosi su per le sponde.
Dopo un rapido giro di perlustrazione,
Greg si era spostato verso nord e aveva osservato le operazioni di barricamento
che si stavano effettuando in quella zona. Aveva visto l’Esercito appostato
dall’altra parte delle barriere, a debita distanza, e aveva assistito col fiato
sospeso all’abbattimento dei Black Hawk mandati in ricognizione e all’attacco
dei mortai poche ore prima dell’imbrunire.
Era ritornato a casa abbastanza
sconcertato, ripensando a quello che aveva visto. Era riuscito a contare sei
carri armati, ma ce ne dovevano essere senz’altro di più. Aveva riconosciuto
armi di vario genere, dalle semplici pistole d’ordinanza che solitamente
venivano affidate alla polizia fino ai più moderni fucili automatici a
disposizione dell’Esercito americano. Uzi,
Kalashnikov, granate di diversa
provenienza accatastate in casse di legno caricate su alcuni furgoni blindati
appostati presso le barricate settentrionali. Poi erano saltati fuori quei
mortai con i quali avevano aperto il fuoco contro l’Esercito, lanciando un
monito più che evidente: restatevene
fuori da questa questione, altrimenti pagherete a caro prezzo la vostra
intromissione.
Si trattava di una situazione quanto
mai oscura, almeno agli occhi di Gregory. Davvero non comprendeva il motivo che
si celava dietro quest’azione rivoluzionaria condotta all’interno di una città
poco importante come Eglon, ma sicuramente dovevano esserci delle ragioni in
ciò che stavano facendo. E Greg avrebbe dato forse qualsiasi cosa pur di
riuscire a indovinarle.
Riaprì il portatile e cliccò su di un
documento in pdf che aveva scaricato la sera del dieci settembre, giusto una
mezz’ora prima che le comunicazioni fossero bruscamente arrestate in tutta la
città. Il titolo era: ELENCO ARMI CARICO
GERMANIA. Per l’ennesima volta ricominciò a leggerlo dall’inizio,
pazientemente.
Emily Cooper guardò le persone uscire
una per una dalla stazione ferroviaria di Eglon e mescolarsi alla gente che
passava lungo la strada, gettandosi spaesate e disorientate nelle direzioni
indicate dagli uomini che, a volto coperto, puntavano il dito verso qualche
edificio dalle insegne luminose che promettevano stanze a prezzi modesti e
mormoravano: «Di là, cittadini di Eglon.»
Per Emily consegnare i propri
documenti era stato come strapparsi un brandello di anima e scagliarlo senza
tanti ripensamenti nel focolare acceso. Quanto in fretta ciascuno di loro stava
rinnegando il proprio passato e la propria identità per un letto comodo e un
pasto abbondante? Era incredibile come le persone fossero volubili. Lei stessa
era tale, e lo riconosceva. Ma si sentiva male per quello che stava facendo.
Stavano tacitamente cedendo alle pretese di quegli uomini che avevano fermato i
loro treni e avevano detto loro che non se ne sarebbero andati mai più dalla
città nella quale si trovavano. Accettavano in silenzio e legittimavano questa
costrizione, pensando solo a riempirsi la pancia.
Ecco
quanto ciascuno di noi è schiavo della realtà nonostante si creda libero,
rifletté Emily mentre consegnava carta d’identità, passaporto e patente e
varcava la soglia della grande sala d’attesa della stazione ferroviaria di
Eglon, mettendo piede per la prima volta in quella che da allora in avanti sarebbe
stata anche la sua città.
Si sentiva frastornata e confusa. Un
uomo con una maschera da Guy Fawkes che le ricordava tanto il film che aveva
visto qualche anno prima con il suo ultimo ex fidanzato
(V
per Vendetta, mi pare che si chiamasse)
le fece cenno di seguirla e lei non protestò, accodandosi
allo sconosciuto e ricalcando i suoi passi. Si dirigevano verso un altissimo
palazzo oltre la strada che esibiva un’insegna azzurrognola con su scritto EGLON’S WINDOW HOTEL. Così era questo ciò che
l’aspettava…
«Come ti chiami?» le domandò l’uomo
mascherato senza voltarsi a guardarla. Aveva una voce cava ed enigmatica, con
un accento marcatamente meridionale.
«Emily» rispose lei in un sussurro,
guardandosi attorno e registrando la presenza di uomini armati lungo i
marciapiedi e furgoni blindati neri parcheggiati in mezzo alla strada.
«Quest’albergo sarà la tua casa per un
po’, Emily» le pronosticò semplicemente l’uomo aprendole la porta e facendola
entrare nella hall illuminata a giorno. «Almeno finché non ci servirai altrove.»
«Cittadini di Eglon» esordì,
adoperando la sua solita formula di apertura per richiamare su di sé
l’attenzione. Era lo stesso uomo privo di accento con la maschera blu e
l’elmetto da soldato che la notte della presa della città aveva parlato a Main
Street dalla sommità di un carro armato con un megafono ed era comparso nello
schermo gigante posizionato sulla facciata della Eglon Tower. Stava in piedi
sotto un lampione spento, le mani aperte e i palmi rivolti verso gli
spettatori, e dietro di lui erano schierati sei uomini armati con i cappucci e
i volti coperti da maschere raffiguranti teschi con occhiaie nere e profonde.
«Sono lieto di avervi qui in molti,
stamattina, per assistere all’esecuzione di quest’uomo» pronunciò con un tono
di voce assolutamente misurato il rivoluzionario dalla maschera blu, indicando
una figura inginocchiata sull’asfalto accanto a lui. Stan sgranò gli occhi,
incredulo. Quell’uomo era quasi completamente nudo. Indossava soltanto dei
pantaloncini cortissimi, e aveva la pelle esangue e un aspetto piuttosto
malaticcio.
Maschera Blu afferrò risolutamente per
i capelli il condannato che stava zitto al suo fianco e tirò, costringendolo a
rivolgere il viso sofferente in direzione della folla. Stan vide che aveva una
ferita d’arma da fuoco sul petto, a destra, e che il suo corpo era costellato
di ecchimosi violacee e segni neri. Dalla bocca gli fuoriusciva un rivoletto di
sangue ormai rappreso, segno che probabilmente gli avevano spaccato il labbro.
«Questo qui è un poliziotto, signore e
signori» spiegò Maschera Blu alla folla inorridita. Alcuni uomini
indietreggiarono, altri rimasero immobili, attoniti, a fissare la scena con
crescente sgomento. Un paio di donne si allontanarono. Un’anziana si lasciò
scappare un pigolio d’orrore.
«Il suo nome è Benjamin Dolovan, e
lavora per la polizia di Eglon da diciannove anni. Ha aiutato a mantenere
l’ordine in città per tutto questo tempo, intervenendo in svariate occasioni
contro il crimine. Adesso, però, si è macchiato egli stesso di un crimine
imperdonabile» proseguì Maschera Blu come se niente fosse, ignorando i
borbottii concitati e intimoriti della calca e continuando a tirare energicamente
i capelli della malcapitata vittima con le ginocchia premute sull’asfalto.
«Ieri pomeriggio quest’uomo ha ucciso
uno dei Soldati della Rivoluzione di Eglon, assassinandolo brutalmente con un
colpo di pistola, senza alcuna valida motivazione. Il corpo dei Sorveglianti»
illustrò, accennando agli uomini con le maschere da teschi che stavano alle sue
spalle, «lo ha fortunatamente bloccato prima che commettesse altri omicidi
efferati nella sua fuga clandestina. Uno dei cecchini che abbiamo fatto appostare
nei principali edifici di Eglon lo ha seguito con il suo fucile di precisione e
lo ha colpito mentre scappava, un istante prima che si dileguasse nel nulla. Il
suo complice è tuttora in libertà.»
Una pausa per lasciare che la folla
digerisse le sue parole senza la difficoltà di dovergli stare dietro. Tutti rimasero
in assoluto silenzio, basiti davanti all’inquietante narrazione nitida che si
stava delineando sotto i loro occhi. Molti sapevano come sarebbe andata a
finire, ma nessuno si mosse più. Tutti quanti, dentro di sé, desideravano in
ogni caso stare a guardare.
Stan si sentì attraversare da
un’energica scarica di brividi. Anche lui intuiva quello che sarebbe seguito, e
francamente la cosa non gli piaceva affatto. Sapeva di sbagliato, ecco tutto. Anche se in Arkansas c’era la pena di morte,
qui si trattava di un qualcosa di radicalmente diverso e totalmente indefinito.
Stavano varcando le soglie della civiltà per buttarsi a capofitto nella natura
della barbarie, e nessuno pareva avere intenzione di muovere un solo dito per
evitare che ciò accadesse.
«Dunque ora, come decretato dalla
nostra linea di prevenzione, quest’uomo viene condannato per il possesso proibito di un’arma da fuoco e per
l’omicidio ingiustificabile di un
Soldato della Rivoluzione. Per rendere effettiva tale condanna, sarà applicata
seduta stante la pena di morte» sentenziò Maschera Blu senza tradire alcuna
emozione, banalmente limitandosi a proferire queste parole con la sua voce
assolutamente lineare e pienamente atona.
Un brusio d’agitazione scosse la calca
correndo da un margine all’altro, sfiorando e increspando ogni espressione
assorta. Stan Payton rimase a bocca aperta, sconvolto dall’ultima dichiarazione
definitivamente inappellabile.
L’unica cosa che gli venne da pensare,
assistendo a quella scena, fu che anche a casa di Sarah c’era una pistola. E
che quella pistola avrebbe potuto mettere in pericolo non soltanto Robert, o
lui, ma anche e soprattutto la sua famiglia. Tutti loro correvano il rischio di
essere condannati a morte come il poliziotto quasi esanime che rantolava di
fronte ai suoi occhi, inginocchiato sulla strada e ridotto a un corpo livido e
punteggiato di ematomi.
Di nuovo non poté fare altro che
rabbrividire.
Uno degli uomini con la maschera da
teschio e il cappuccio sulla fronte, che Stan aveva capito chiamarsi Sorveglianti, sparì e ricomparve un
attimo dopo con una scala che appoggiò al lampione sotto il quale Maschera Blu
teneva per i capelli Ben Dolovan. Si arrampicò e un altro Sorvegliante gli
passò una corda spessa e robusta alla cui estremità era già stato formato un
cappio con un perfetto nodo da abile marinaio. La corda fu legata saldamente
alla sommità del lampione aggettante verso il centro della strada e il cappio
fu lasciato cadere nel vuoto sottostante. L’uomo con la maschera da teschio in
piedi in cima alla scala accorciò la corda fino a portare il cappio abbastanza
in alto da impedire che chiunque venisse appeso per il collo potesse anche solo
sperare di sfiorare l’asfalto di sotto con le punte delle scarpe.
Dopodiché, Maschera Blu fece alzare
Ben Dolovan assestandogli un pugno sulle costole e lo obbligò a salire l’altro
lato della scala, raggiungendo il Sorvegliante che aveva sistemato la corda.
Quest’ultimo si limitò a passare il cappio attorno al collo irrigidito del
poliziotto, infine scese e si appostò sotto il lampione.
«Qui si esaurisce il proposito di
chiunque osi opporsi alle leggi dettate dai Soldati della Rivoluzione di Eglon,
come Benjamin Dolovan ha scelto di fare» gridò Maschera Blu rivolgendosi alla
folla, quindi con un calcio bene assestato fece rovinare a terra la scala.
Non ci fu nessun rantolo, né tantomeno
alcuno spasmo finale d’agonia. Semplicemente, il macabro scricchiolio del collo
del poliziotto impiccato che si rompeva echeggiò lungo tutta Main Street.
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