«Signore, una chiamata dall’ufficio
dell’FBI di Little Rock. Dicono che è
importante» lo avvisò tramite interfono uno dei suoi sottoposti.
«D’accordo, passamela» approvò l’uomo
seduto dietro la scrivania senza tanti giri di parole.
«Signor Kozinski?» domandò una voce
all’altro capo.
«Sì, sono io» confermò
tranquillamente.
«Ci troviamo su una linea sicura?»
«Io sono sempre su una linea sicura. Che cosa c’è?»
«Ci occorre un’informazione, signor
Kozinski» avanzò senza indugio il suo interlocutore.
«Un’informazione, eh? Di che genere?»
«Si tratta di Eglon, signor Kozinski…»
spiegò con calma la voce dell’agente dell’FBI.
«Eglon… Che altro vi interessa sapere
di Eglon?»
«Tutto quello che non ci ha detto,
signor Kozinski. Lei forse ancora non lo sa, ma laggiù è cominciata. Un reparto
dell’esercito è in movimento per raggiungere la città. Stiamo seguendo i loro
movimenti attraverso il satellite: hanno costruito sotto il nostro naso una
barricata completa nel giro di poche ore…» principiò la voce dall’altra parte,
ma Kozinski la fermò.
«Io so tutto. Sapere è il mio
lavoro. So che cosa è successo e so che cosa sta per succedere. Ad ogni modo,
vi ho già detto tutto ciò che vi potevo dire.»
«Se ci avesse detto tutto, allora
avremmo saputo in tempo dei carri armati!» ribatté freddamente la voce, suonando
minacciosa all’interno della cornetta. «Oppure questa è una novità anche per
lei, signor Kozinski?» soggiunse in tono beffardo.
«Come vi ho già detto, sapere è il mio
lavoro» ribadì molto pazientemente Victor Kozinski. «E adesso non ho altro da
dirvi.»
Riattaccò, lasciando l’agente dell’FBI con il silenzio della comunicazione
interrotta.
«Non desidero ricevere altre
telefonate dall’FBI, per oggi» comunicò
all’interfono, e una voce femminile rispose affermativamente.
Eglon… E così, alla fine l’avevano
fatto. Avevano tirato fuori i carri armati, avevano occupato la città e
l’avevano barricata. Quegli scaltri figli di puttana si erano organizzati bene,
dopotutto. Con un supporto come quello di cui disponevano, chi non avrebbe saputo
mettere in piedi un’operazione simile?
Bisognava dire, però, che avevano
fegato. I reparti speciali sarebbero stati schierati attorno alla città entro
sera, e l’ONU non avrebbe rilasciato
dichiarazioni importanti oltre le ventiquattro ore. Il governo americano
avrebbe richiesto l’autorizzazione per un intervento parzialmente violento, e
tale richiesta sarebbe stata respinta senza mezzi termini. Allora sarebbe
scoppiato il pandemonio.
Victor Kozinski sorrise. Sapere di
aver dato una mano a mettere in piedi una cosa del genere era davvero
gratificante.
Gestire un traffico di informazioni
come quello che possedeva era un privilegio niente male, ma alle volte poteva
ritorcersi contro chi se ne serviva in maniera implacabile.
Così l’FBI,
che si era rivolta alla sua agenzia il mese scorso per ottenere informazioni,
dimostrandosi una cliente disposta a sborsare somme decisamente considerevoli,
aveva appena imparato a proprie spese questa piccola lezione di realtà.
LE
ANIME DI EGLON
PRIMA
STAGIONE
EPISODIO
9
L’ESERCITO
DEGLI STATI UNITI
Greg Donington lasciò sua moglie Susi
e il piccolo figlio Brett in soggiorno, seduti sul divano ad attendere il suo
ritorno, e uscì in veranda per dare un’occhiata fuori.
Il cielo non era per niente sgombro,
quella mattina. Si presentava sporco, come se la luce del sole fosse di colpo
divenuta più opaca, e forse era a causa delle nuvole che si spostavano
tranquille nell’aria, alla stregua di una flotta di navi fantasma con le vele
spiegate.
Gregory portava una pistola nascosta
sotto la camicia, pronta per essere armata in meno di quattro secondi in caso
di estrema necessità. Era a questo che li preparavano alla CIA: a prevedere qualunque genere di intoppo e
ad essere sempre pronti, in ogni momento, a doversi difendere. Peccato che
Eglon non fosse un agente della CIA,
considerò Greg, invece che una qualunque città americana: si sarebbe potuta
opporre a quell’occupazione improvvisa, e magari sarebbe anche stata capace di
respingere gli assalitori.
Respingere
decine e decine di uomini scortati da carri armati? No, nessuna città avrebbe
potuto farlo. Questa correzione gli suonò piuttosto sinistra. Significava,
con ogni probabilità, che forse i terroristi avrebbero potuto ambire a una
città più grande. Ma allora perché avevano scelto la piccola Eglon? Per quale
motivo si erano limitati a quel tranquillo centro abitato incastonato nella
campagna?
Uscì dalla sua abitazione con la
pistola a pochi centimetri dalle punte delle dita, teso come una corda di
violino ma pronto a fare la propria parte in caso si fosse rivelato
indispensabile. C’era un cadavere nel suo studio, riverso sul pavimento, e
doveva assicurarsi di avere il tempo materiale per lavare via il sangue e far
sparire il corpo prima che qualcuno lo venisse a cercare.
Se avevano mirato immediatamente a
lui, quella notte, significava che sapevano della sua presenza e avevano il suo
nominativo e i suoi dati. Come fosse possibile, Greg non avrebbe saputo dirlo.
L’unica spiegazione plausibile era che ci fosse una talpa negli alti vertici
della CIA. Quella stessa talpa senza
volto e senza nome che era sospettata da ben tre mesi di aver collaborato con
la rete terroristica per rovesciare il governo statunitense con un repentino e
inderogabile attacco diretto.
Adesso, ad ogni modo, la priorità era
la sua famiglia. Doveva mettere al sicuro Susi e Brett, e accertarsi che non
potessero essere raggiunti. Se lui si trovava sulla lista nera, la sua casa non
era ovviamente più un posto sicuro.
Superò la veranda e silenziosamente
passò sul lato della casa che dava verso ovest, facendo strisciare il palmo
della mano sulla superficie porosa della parete e muovendo la testa per
guardarsi attorno, così rapidamente da somigliare a un epilettico intrappolato
all’interno di una discoteca.
Percepì un fruscio tra le foglie di un
cespuglio oltre lo steccato, e puntando lo sguardo da quella parte intravide la
coda di un gatto che si strofinava pigramente sulle assicelle di legno. Dalla bestiola
non poteva venire alcun pericolo, valutò. Ma dall’uomo con la maschera sulla
faccia all’angolo della strada, oltre la casa dei McRyer, probabilmente sì.
Specialmente visto e considerato che imbracciava un’arma da fuoco che da quella
distanza avrebbe potuto essere una carabina, ma anche una mitragliatrice.
Non era prudente stare allo scoperto,
perciò Greg passò sul retro della casa e superando il lato est raggiunse
nuovamente la veranda e tornò dentro.
«Che cosa succede?» pigolò Susi
vedendolo entrare con un’espressione pensierosa in volto.
«Nulla, sta’ tranquilla. Penso sia
meglio che tu e Brett veniate con me giù in cantina, però. Voglio sapervi al
sicuro mentre svolgo le mie ricognizioni» considerò a voce alta Greg,
rimuginando nel frattempo sull’uomo armato con il volto coperto che sembrava
essere stato messo là fuori di proposito per sorvegliare la loro abitazione.
«Siamo in pericolo?» balbettò Susi,
irrequieta. Gli occhi le erano divenuti lucidi un’altra volta. Aveva bisogno di
dormire, perché la notte era stata impietosa con lei. Troppe emozioni tutte
assieme. Non era salutare, e Gregory lo sapeva meglio di chiunque altro a
Eglon.
«Tutta la città è in pericolo, Susi.
Ma forse possiamo evitare di mischiarci con gli altri in questa brutta storia…»
spiegò pazientemente Greg, avviandosi in direzione delle scale che portavano
nel seminterrato.
Bisognava ragionare sul quadro
complessivo, tutto qui. E per adesso Gregory non aveva che pochi frammenti dello
sterminato puzzle a propria disposizione. Doveva ricomporre l’immagine nel dettaglio,
dai margini verso il centro, per capire come muoversi. E farlo con l’ansia che
potesse capitare qualcosa alla sua famiglia non sarebbe stato di certo facile.
Si trovava in contatto con i suoi
superiori, nel momento in cui le comunicazioni erano saltate. Con tutta
probabilità erano stati i terroristi a bloccare il segnale del suo computer,
tagliando ogni genere di linea e oscurando il campo con dei jammer parecchio
potenti.
Non aveva fatto in tempo a comunicare
all’esterno quello che stava succedendo, ma gli ultimi dati che aveva scaricato
erano piuttosto sospetti. Gli avevano inviato dei rapporti riguardanti un
carico di armi misteriosamente scomparso mentre era in viaggio su di un aereo
diretto in Afghanistan. Questo era avvenuto circa tre settimane prima, ma il
fatto era stato sottovalutato. Il container era stato svuotato mentre l’aereo
faceva scalo in Germania per il rifornimento. Chiunque avesse fatto sparire quelle
armi, di sicuro sapeva muoversi bene.
Forse si trattava delle stesse armi
che stavano adoperando quegli uomini là fuori, terroristi, rivoluzionari o
qualunque altra cosa fossero. O forse era soltanto una coincidenza che la CIA aveva deciso di prendere in esame comunque,
anche se non c’entrava nulla con quello che già si sapeva… Ad ogni modo, non
aveva avuto il tempo di chiederlo. La comunicazione era saltata, e dopo gli spari
e le esplosioni Greg era riuscito soltanto ad ascoltare quella voce che parlava
alla città da Dio solo sapeva quale angolo di Main Street, amplificata da un
megafono. Aveva intravisto un carro armato dalla finestra dello studio e aveva
ascoltato le parole pronunciate da quella voce, prima di doversi difendere da
un sicario che era penetrato in casa sua fingendo di essere un agente dell’FBI.
I conti non tornavano un granché, ma
aveva pur sempre qualche elemento sul quale soffermarsi. E questo, alle volte,
era già tanto e doveva bastare per ricostruire le dinamiche di un evento di
simili proporzioni, che avrebbe provocato ripercussioni inimmaginabili.
Dagli spari e dalle voci che aveva
udito attraverso le pareti troppo sottili di casa, Greg aveva intuito che c’era
stata una piccola scaramuccia tra la polizia di Eglon e quei misteriosi ribelli
armati. E che naturalmente a vincere erano stati questi ultimi.
Poi aveva udito l’ultimo messaggio dei
terroristi, quello che avvisava la popolazione dell’arrivo dell’esercito. E se
davvero stavano mettendo in piedi una barricata attorno a tutta la città,
allora voleva dire che erano in guai seri. Tutti quanti loro, perché una barricata
non serviva soltanto a impedire l’accesso a chi si trovava fuori: funzionava anche
dall’altra parte, per bloccare efficacemente chiunque volesse uscire.
E nessuno avrebbe mosso un dito per
distruggere quella barriera, perché altrimenti sarebbero state messe a rischio
le vite di innocenti civili americani.
Proprio
un bel casino, rifletté Greg mentre spalancava la porta della cantina e
spostava uno degli scaffali che Susi aveva destinato alle coperte dismesse e
agli scatoloni ancora pieni della roba che dopo il trasloco non avevano più
avuto il coraggio di tirare fuori.
Comparve una porta, dietro lo
scaffale, incassata nella parete. Susi la riconobbe e strabuzzò gli occhi. «A
che cosa ti serve il locale della vecchia caldaia? Sarà pieno di ragni e di
topi! Chissà quant’è sporco, dopo tutto questo tempo!» protestò, leggermente spaesata.
Dopo aver comprato la casa avevano installato una nuova caldaia nel sottoscala
che collegava l’ingresso al garage, perciò lo stanzino che conteneva quella
vecchia era stato chiuso e lasciato alla polvere in via definitiva.
Gregory aprì la porta e dietro di essa
ne apparve un’altra, spessa e robusta, apparentemente costituita da un unico
blocco di acciaio cromato. Si sfilò una piccola chiave dal portafoglio che teneva
nella tasca posteriore dei pantaloni e la inserì nella toppa, facendole fare
otto giri veloci.
Spalancò un varco in una sala ampia e
fresca che odorava di pulito. Accese le luci al neon ed entrò.
Susi lo seguì, guardandosi attorno
allibita. Ecco che cosa faceva Greg, l’anno scorso, quando passava tutte quelle
interminabili ore giù nel seminterrato dicendo di voler dare un’occhiata alle
scatole di cianfrusaglie che si erano portati dalla casa vecchia. Un mistero
fino ad allora privo di risoluzione le era appena stato dipanato sotto gli
occhi.
«Qui staremo al sicuro per un po’»
mormorò Greg, e le sorrise.
«State qui e non vi muovete, mi
raccomando!» ordinò il vicesceriffo Wieler al suo gruppo di poliziotti. Aveva
indossato dei comuni abiti civili e assieme a Jeremy Barton e Brian Jones era
pronto per uscire a dare un’occhiata alle nuove barricate allestite lungo il
perimetro della città. Intendevano farsi un’idea più precisa della situazione,
e verificare in che stato versasse la popolazione ora che la minaccia di uno
scontro armato incombeva sull’intera Eglon.
«Non si preoccupi, staremo buoni»
promise Phil, il poliziotto che viveva nella casa in cui si erano rifugiati
durante la notte.
La moglie e i figli di Phil erano di
sopra, nella sua camera da letto, e Phil aveva detto loro di non preoccuparsi
perché con tutti quei poliziotti fra i piedi sarebbero stati al sicuro. I
bambini erano piccoli, e la moglie di Phil era parsa parecchio inquieta. Aveva
annuito ed era scomparsa su per le scale, lasciando un mezzo sorriso sospeso
sul viso stanco del marito.
Jeremy aveva guardato Phil con un
pizzico di invidia. Doveva ammetterlo, aveva sempre invidiato un pochino il buon vecchio Phil. Con la sua bella
moglie, i suoi due figli sani, la sua casa e la sua utilitaria, la pizza il
venerdì sera e il sushi di sabato, tutti quei piccoli riti famigliari che a lui
mancavano e sui quali Phil poteva invece contare ogni santo giorno. Però
c’erano anche dei contro, giusto? Ma allora perché Jeremy non era capace di
trovarli? Eh?
«Non avvicinatevi neppure alle
finestre. Per ora sono impegnati a lavorare alle barricate attorno alla città,
ma non è escluso che qualcuno sia stato messo sulle nostre tracce. E la prima
cosa che faranno sarà setacciare le nostre case» proseguì il vicesceriffo
Wieler con fare autoritario.
«Con tutto il rispetto, correte molti
più rischi di noi: siete armati, e là fuori non sappiamo di preciso che cosa ci
possa essere. Hanno parlato di pena di
morte, stanotte…» rammentò Gary, un altro dei loro colleghi, lievemente
impaurito.
«Ne sono consapevole. Ma dobbiamo
farlo. Ci occorrono informazioni, e l’unica maniera in cui possiamo raccoglierle
è questa. Dobbiamo uscire. Se è vero che hanno tutti i nomi dei poliziotti della
città, come Jeremy dice di aver capito dagli aggressori che lo hanno fermato
stanotte, significa che ciascuno di noi è in gravissimo pericolo…»
«Vicesceriffo Wieler, dobbiamo andare.
Sento degli elicotteri» lo interruppe Brian Jones con aristocratica affabilità,
e Patrick Wieler si zittì e acconsentì con un muto cenno del capo.
«Fate attenzione. Tornate tutti
interi» li ammonì Phil, e la porta si chiuse sulla sua espressione agitata
mentre Jeremy, Brian e Patrick uscivano nell’aria tiepida della domenica
mattina.
Sarah si era finalmente svegliata, e
anche i loro figli Michael e Christine si erano tirati su dal letto. Ora
stavano facendo colazione. Sarah beveva il caffè che le aveva preparato Robert,
e i bambini inzuppavano cereali in capienti tazze di latte riscaldato.
Se ne stavano tutti in silenzio. Non
tanto perché era una cosa alquanto insolita – per non dire assurda – avere Stan seduto con loro al tavolo della colazione,
quanto piuttosto perché tutti cercavano di tendere l’orecchio verso l’esterno e
ascoltare i rumori della città.
Stan osservò il viso della sua ex
moglie scomparire per qualche istante dietro l’orlo della tazza di caffè
fumante che Robert le aveva appena preparato. Sembrava tranquilla, quasi che
quella notte, per lei, non fosse successo niente.
Chissà che cosa ricordava, di preciso.
Magari l’ansia le aveva fatto credere che si fosse trattato di un incubo. Ma
allora come si spiegava la sua presenza
lì, in quella casa che non era più
esattamente proprietà di Stan e Sarah Payton, ma che ora si limitava ad essere
un’esclusiva della sola Sarah Keller, chiaramente condivisa con Robert
Schullman?
«Papà resta qui con noi anche a
pranzo, oggi?» domandò Michael rompendo il silenzio, speranzoso. Christine, più
grandicella e quindi decisamente più accorta, gli scoccò un’occhiataccia.
«Non lo so, amore. Poi vediamo»
minimizzò Sarah con un’alzata di spalle, sparendo nuovamente dietro il bordo
bianco della tazza del caffè nel quale il suo viso sembrava quasi volersi
immergere e sprofondare.
Stan ricordava fin troppo bene la
freddezza che Sarah gli trasmetteva da quando si erano separati. Non che prima
del divorzio fosse molto più mite, comunque. Era da un pezzo che lo trattava in
maniera distaccata. Flemmatica, in un
certo senso. Quasi che non le importasse assolutamente nulla, che il fatto che
lui ci fosse non le facesse né caldo né freddo.
Avevano litigato spesso, negli ultimi
mesi, questo era vero. Ma non ricordava di averle mai rivolto uno sguardo
gelido come quello che tante volte aveva ricevuto da lei. E sinceramente gli
dispiaceva soprattutto per questo. Perché, in fondo, anche se non andavano
d’accordo aveva sempre cercato di trattarla bene. E a lei, invece, non interessava
un fico secco. Segno che non lo amava già da diverso tempo prima del loro
divorzio, o almeno queste erano le conclusioni alle quali Stan si era visto costretto
a giungere dopo un po’ di paziente autoanalisi.
Per qualche settimana aveva continuato
a girare con la scritta sono un coglione
certificato stampigliata in faccia, laddove tutti la potessero vedere.
Dopodiché, piano piano, aveva incominciato a riprendersi. Piccolo particolare,
però: non aveva ancora finito. La strada da percorrere era ancora lunga, e non
sarebbe stato facile arrivare al capolinea. Mentre Sarah, a quanto pareva, se
l’era lasciato alle spalle piuttosto in fretta…
«Stan, forse dovremmo uscire a dare
un’occhiata a quelle barricate più tardi. Che cosa ne dici?» propose Robert con
una certa dose di titubanza.
Sarah non alzò neppure gli occhi.
«Sono d’accordo» bofonchiò Stan,
facendo attenzione a non risvegliare le ire apparentemente assopite della sua
ex moglie che li ascoltava con falsa noncuranza. «Almeno potremo parlare con
qualcuno e reperire qualche informazione in più.»
«Direi che ora come ora non c’è niente
di meglio da fare» approvò Robert guardando fuori dalla finestra della cucina.
Si intravedeva uno scorcio di Main
Street, da lì. C’era parecchia gente che passava, trafficando da un marciapiede
all’altro. Poche automobili. Niente carri armati, ma probabilmente perché
adesso si trovavano tutti quanti disposti lungo il confine cittadino.
Chissà quanti ce n’erano, di quei
terrificanti mezzi corazzati in giro per Eglon…
«Lo sentite anche voi?» proruppe Sarah
sottovoce alzando il viso dalla tazza del caffè, fissando attonita il soffitto
come se le potesse crollare addosso da un istante all’altro.
«Che cosa?» volle sapere Robert,
ponendosi a sua volta in ascolto.
Il silenzio si asserragliò addosso a
loro, sudando sulla loro pelle e impregnando le loro menti. Sotto di esso, come
il retrogusto misterioso di un piatto troppo speziato, c’era un rumore di fondo
che pareva quasi un borbottio soffuso. Un ronzio lontano, che non poteva essere
provocato da nulla di naturale. Era troppo sinistro, sordo e ridondante per
essere qualcosa di animalesco. No, era il rumore di ingranaggi che
sferragliavano e di metallo che martellava contro altro metallo. Rumore di aria
che veniva spezzettata e sfilacciata.
«Elicotteri…» barbugliò cupamente
Stan, e sui volti di Sarah e Robert si distese una limpida espressione di
inaspettata consapevolezza.
«Bambini, andate di sopra» ordinò
senza indugio Sarah, alzandosi da tavola e recandosi alla finestra, scostando
le tende e affacciandosi al vetro minuziosamente pulito.
«Sono elicotteri dell’Esercito»
precisò Robert raggiungendola e cingendole la vita con un braccio. Stan finse
di non notare quest’ultimo gesto e si proiettò direttamente verso l’ingresso, spalancando
la porta e uscendo sul vialetto di casa come aveva fatto la notte precedente
quando aveva visto d’un tratto comparire una colonna di carri armati al centro
di Main Street.
La gente in strada aveva sollevato gli
occhi al cielo. Stan imitò le persone che gli stavano intorno, e individuò immediatamente
tre elicotteri dell’Esercito statunitense che sorvolavano la città in un’aria
tiepida e stagnante, stagliandosi contro le ombre frastagliate delle nuvole
grigie.
«Mio Dio, avevano ragione, è arrivato l’Esercito…»
gorgogliò una donna in piedi in mezzo al giardino di fianco a quello in cui si
trovava Stan. Era la signora Newell, la sua ex vicina di casa, e Stan la
riconobbe per via dei capelli lunghi e bianchi tenuti insieme in una coda di
cavallo. Sembrava sconvolta, oltre che impaurita. Suo marito Sam doveva essere
in casa a protestare per la mancanza del segnale televisivo, quasi sicuramente.
Stan notò la presenza di uno degli
uomini con la maschera che piantonava la via dall’angolo di un condominio sull’altro
lato della strada.
Un altro tizio con un fucile in mano,
poco più avanti, indossava bandana nera e occhiali da sole e se ne stava fermo
in piedi di fronte alla drogheria di Tommy Carlsson. Si guardava attorno con
fare disinteressato, mentre tre Black Hawk
solcavano il cielo di Eglon fendendo l’aria in tutta tranquillità e
riverberando per le vie il proprio tetro ruggito di battaglia.
Erano in ricognizione, naturalmente.
Stavano facendo un giro di perlustrazione per analizzare la situazione e
localizzare i punti critici, quelli in cui si erano radunati i terroristi che
avevano preso la città nell’arco di una sola notte.
Non potevano ricevere informazioni da
chi si trovava all’interno della città, considerò Stan fra sé e sé, perciò stavano
cercando di raccogliere tutti i dati possibili, casomai si fosse reso
necessario sferrare un attacco repentino contro le forze rivoluzionarie.
L’Esercito doveva aver preso posizione
all’esterno del perimetro della città, oltre le barricate di fortuna che i
ribelli avevano messo in piedi. Dovevano avere mezzi corazzati, fanteria ed
equipaggiamento adatti a stringere un assedio. E d’altro canto come avrebbe
potuto resistere la piccola Eglon nel caso in cui fosse stata assediata?
I Black Hawk sorvolavano pigramente
l’intera zona, senza fretta.
Ormai dovevano aver raccolto un quadro
più o meno completo della situazione, e probabilmente avevano anche già
individuato i carri armati usati dai rivoluzionari per conquistare la città.
Aspettavano un ordine. Un ordine che li autorizzasse ad aprire il fuoco. E
prima di tutto si sarebbero dovute valutare le potenziali ripercussioni sui
civili, perché il rischio di ammazzare gente innocente era decisamente alto.
Il velivolo in testa al terzetto era
quasi giunto all’altezza della Eglon Tower, quando un sibilo sgradevole – più
che sgradevole, diciamo pure destabilizzante
– squarciò l’uniformità del ronzio prodotto dalle eliche degli elicotteri.
Una scia di fumo nero graffiò
profondamente l’orizzonte, generando un taglio che si cicatrizzò piuttosto
rapidamente.
Stan osservò sbalordito il Black Hawk
esplodere come un palloncino giunto a contatto con una stufa a legna spinta a
massimo regime. Una sfera di fuoco azzurrognolo se lo divorò tranquillamente. Il
velivolo virò pericolosamente verso destra nel suo ultimo tentativo di sopravvivere,
simile a un uccello sfuggito da un rogo con le piume ancora sfrigolanti di
fiamme, e andò a cozzare contro il secondo elicottero della fila che nel
frattempo cercava invano di togliersi di mezzo prima che fosse troppo tardi.
I due Black Hawk precipitarono
assieme, abbracciati in un ultimo spasmo fatale e incatenati assieme dal
metallo che si incastrava, si fondeva e si saldava tra le vampate. Stan Payton
li vide cadere come angeli respinti dal Cielo da parte di un Dio per nulla
misericordioso, le ali tarpate e i volti scarnificati tesi in un macabro ghigno
di dolore.
Andarono a schiantarsi contro la
facciata di un palazzo che Stan sapeva ospitare un’interminabile serie di uffici.
Era domenica, e forse non c’era nessuno in quel palazzo. Ma di sicuro ai piloti
degli elicotteri non doveva essere capitata in mano una carta altrettanto
fortunata.
Le vetrate dell’edificio si infransero
e crollarono a terra, parte del cemento armato si inabissò all’interno dei
piani contro i quali i due Black Hawk avevano esaurito la loro breve
ricognizione.
Il terzo elicottero accelerò
l’andatura per scomparire il più velocemente possibile, ma un altro sibilo
invase le orecchie degli abitanti di Eglon e il secondo missile partì senza
esitazione dalla cima della Eglon Tower.
Il velivolo perse quota, piroettò su
se stesso, si accartocciò tra le fiamme e infine rovinò a lato di Main Street,
abbattendo il fianco di una pacifica villetta a schiera e il tetto di un
negozio di ferramenta le cui porte guizzarono in mezzo alla strada.
«Hai visto??»
«Cristo santo!»
Stan neppure percepì i mormorii della
folla che correva spaesata per le vie secondarie che si dipartivano da Main
Street. Rimase semplicemente immobile a fissare il punto in cui il terzo
elicottero militare Black Hawk era precipitato, dal quale si levava una colonna
di fumo denso e nerastro che saliva a congiungersi in alto alle nubi.
Buon
undici settembre, America.
Era arrivato l’Esercito degli Stati Uniti.
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