«Dottor Mason!» lo chiamò una voce
femminile dal fondo del corridoio. Larry Mason si voltò e attese che
l’infermiera lo raggiungesse di corsa, trafelata, con il respiro talmente
concitato da impedirle di parlare.
«Mi dica» mormorò massaggiandosi
cautamente le tempie, cercando di assumere un tono di voce affabile. Aveva
un’emicrania pazzesca, e forse era perché non dormiva da due giorni e aveva
passato le ultime quattordici ore in sala operatoria. Aveva dovuto gettare via
il camice che aveva usato per operare quella notte, perché si era riempito
completamente di sangue e nella fretta dell’ultimo intervento si era strappato
una manica impigliandosi in Dio solo sapeva che cosa. Il caffè lo aveva aiutato
a stare sveglio per le prime dieci o undici ore, ma adesso gli serviva un
goccio. Cristo, quanto aveva bisogno di un goccio! Stava prendendo in esame la
possibilità di ricorrere alla sua riserva segreta nascosta in uno degli
armadietti del suo piano, però…
«Abbiamo un problema…» tartagliò
agitata l’infermiera, con un tono esageratamente squillante che non mostrò
alcuna misericordia nei riguardi del suo mal di testa.
«Che genere di problema?» s’informò il
dottor Mason. Sì, adesso aveva deciso: un goccetto se lo sarebbe concesso. In
fin dei conti, era un suo diritto. E un altro problema, in questo momento, significava
un’altra stilettata nel cervello da parte dell’emicrania.
«Sono qui. I ribelli» mormorò
sottovoce l’infermiera, e ognuna delle
sue parole fu una rasoiata in testa per Larry Mason.
«Vuol dire che sono in ospedale?»
farfugliò, scosso.
«Sì, e chiedono di parlare con lei, dottore» confermò l’infermiera in
un unico sospiro.
Larry inghiottì a vuoto, ascoltandosi
rabbrividire. Il solo fatto che i rivoluzionari fossero lì di nuovo, ancora una volta nello stesso edificio in cui si trovava
lui, gli metteva addosso un’ansia inimmaginabile. Ma pensare che volevano
parlare con lui personalmente…
«Dove sono?»
«Nell’atrio.»
«Mi preceda e dica loro che sto
arrivando» ordinò il dottor Mason riacquistando il proprio autocontrollo. Vide
l’infermiera sbiancare all’idea di dover tornare di là con quei tipi
mascherati, e dentro di sé la capì ma non le evitò comunque tale onere. Aveva
bisogno di un goccio, maledizione, anche di due, visto che adesso c’era un
nuovo problema parecchio consistente del quale occuparsi. E qualcuno doveva
pure tenere a bada quei tizi finché lui non arrivava.
L’infermiera si allontanò compunta e
il dottor Larry Mason aspettò che avesse voltato l’angolo e si catapultò
letteralmente contro le porte dell’ascensore, salendo e pigiando ripetutamente
il pulsante del suo piano.
Un
goccio, dannazione, soltanto un goccio…
LE
ANIME DI EGLON
PRIMA
STAGIONE
EPISODIO
12
I
SORVEGLIANTI
Il municipio della città di Eglon,
quel pomeriggio, era indiscutibilmente, dolorosamente vuoto, e quando Daniel
Green se ne fu reso conto Rebecca volse lo sguardo in direzione dei quartieri
settentrionali e scorse sull’orizzonte una fitta rete di tagli scuri che
sembravano quasi affiorare dalle nubi dense.
«Che cosa sono?» domandò la ragazza in
un tono più curioso che spaventato, e Daniel le si affiancò e osservò lo
spettacolo con una certa inquietudine tratteggiata in volto.
Il profilo del cielo in direzione nord
si dipinse improvvisamente di colori caldi, quasi che un simpatico buontempone,
lassù, avesse avuto la pensata di dare fuoco alle nuvole. Il boato assordante
delle esplosioni in successione arrivò poco dopo quell’iridescente vallata di
sfumature messa sottosopra, spazzando la città come un vento burrascoso e
passando oltre senza provocare danni.
«Bombe. Forse mortai» azzardò Daniel
alquanto amaramente. A dire il vero la sua idea era un po’ più che vaga, al
riguardo: era quasi assolutamente certo che si trattasse della seconda ipotesi,
ma per adesso non voleva scoprire troppo le proprie carte. Anni e anni di film
e serie televisive gli avevano iniettato una conoscenza piuttosto vasta in
merito, e non aveva mai pensato che tali nozioni potessero in qualche modo tornargli
utili prima o poi.
«Oddio… Dove credi abbiano colpito?»
barbugliò Rebecca con un filo di voce spezzettata.
«Credo che siano iniziati gli scontri
con l’Esercito…»
«Adesso?» replicò incredula la
ragazza, guardandosi attorno con circospezione. C’erano automobili parcheggiate
lungo le strade e persone che camminavano apparentemente senza meta, come schiere
di zombie nella disperata ricerca di qualche preda da azzannare.
«Proprio così» confermò Daniel
soprappensiero. Avevano setacciato ogni ufficio e ogni ambiente del municipio.
Niente, là dentro non c’era nessuno. La porta era stata lasciata stranamente
aperta, ma d’altro canto c’era davvero poco che non fosse perlomeno insolito
quel giorno. Dopo la scorsa notte erano incominciati i disordini, e questo era
solamente l’inizio: tutta quella gente che correva lungo Main Street,
sorvegliata da uomini armati che piantonavano ogni angolo, non aveva idea di
che cosa la aspettava. Ma Daniel cominciava a poco a poco a capire, e la
pistola di suo padre gli premeva con sempre maggiore insistenza contro il
fianco.
Dovrò
usarti, prima o poi. Ma non oggi.
Non oggi, perché non so ancora con
precisione quali siano le intenzioni di questi pazzi e non riesco a trovare mio
padre…
Dov’era finito suo padre, il
vicesindaco Green? Era convinto di trovarlo lì in municipio, o se non altro nei
dintorni, e invece niente. Evidentemente doveva essere stato catturato. Chissà
che cosa volevano fare, adesso, quei rivoluzionari. Avviare una guerra?
Combattere l’Esercito degli Stati Uniti d’America con un pugno di uomini e una
mano di carri armati? No, non poteva essere questo il loro piano. Era un’idea
troppo dannatamente suicida perché
potesse trattarsi effettivamente del loro progetto. Con tutti i particolari ai
quali avevano pensato, con tutta l’azione che avevano studiato, doveva esserci
sotto qualcos’altro per forza. Ma
Daniel non riusciva davvero a capire che cosa fosse.
«Daniel! Daniel Green!» lo chiamò un
tizio correndo verso di loro risalendo Main Street. Era un uomo avvolto in un
impermeabile grigio con il volto scavato e smunto, occhiali senza montatura e
capelli spruzzati di bianco. Gli strinse la mano e gli dedicò un sorriso
smagliante. «Sono Victor Johnson, amico di tuo padre! Ti ricordi di me?»
Daniel onestamente non ricordava
quella faccia, ma annuì comunque e cercò di fare buon viso a cattivo gioco.
«Senz’altro, Victor, mi ricordo» pronunciò con una certa cautela.
«Ti ho riconosciuto subito appena ti
ho visto in fondo alla strada! Assomigli talmente tanto a tuo padre… Ma dov’è
Thomas? Speravo di trovarlo qui nei paraggi, ma in municipio non c’è nessuno e
la gente alla quale ho chiesto non ha saputo darmi risposta…» farfugliò Victor
con fare esuberante.
«Sinceramente non so dove possa
trovarsi in questo momento. Ma allo stesso tempo non ho la minima idea di che
cosa stia capitando. Non ci capisco più niente…»
«Che c’è da capire? Siamo piombati in
mezzo a una rivoluzione, ragazzo mio. Una rivoluzione che si pronosticava da un
bel po’, a conti fatti. Era ora che qualcuno si decidesse a prendere una posizione
radicale in questo caos di governo, dico io!» esclamò l’uomo con veemenza.
Sì,
proprio vero. Scommetto che anche
tutte le persone che sono state ammazzate stanotte sono d’accordo con te,
Victor, pensò Daniel. Ma tenne le proprie considerazioni per sé, perché il
suo interlocutore sembrava più che convinto delle proprie ragioni e non era il
caso di mettersi a discutere in quel momento. Non lì, in ogni caso, in mezzo a
Main Street, dove tutti quei ribelli armati potevano vederli e ascoltarli.
«Hanno chiuso l’intera città in una
barricata, non è vero?» s’informò Daniel, cercando di cambiare argomento e di
scoprire qualcosa in più.
«Sissignore, sono andato a vederla
personalmente e ritengo che sarà sufficiente a tenerci al sicuro almeno per un
po’. Non credo che i soldati avranno il coraggio di infilarsi in città, e di
certo non manderanno in avanscoperta altri elicotteri: gli ultimi tre velivoli
abbattuti devono essere già stati una grossa perdita…» profetizzò Victor
Johnson con estrema calma.
«Lo posso immaginare» commentò
brevemente Daniel. Aveva voglia di andarsene di lì, e subito. Sentiva
l’implacabile desiderio di allontanarsi dal municipio e da Main Street e di
lasciarsi indietro il sorriso palesemente rifatto di Victor Johnson. Non vedeva
l’ora che quell’uomo sparisse dalla sua vista. Già la stretta di mano che aveva
accettato poco prima gli ritornava su come un boccone indigesto, rivelandosi
fastidiosa e appiccicaticcia.
Una flebile scintilla luccicò sulle
lenti degli occhiali di Victor. Daniel, suo malgrado, rabbrividì.
«Sai che cosa sono state quelle
esplosioni di poco fa?» gli domandò l’uomo assumendo un’aria d’importanza,
quasi briosamente. Daniel fece cenno di no con la testa, anche se in realtà lo
sapeva benissimo. «Erano colpi di mortaio, giovanotto. Colpi di avvertimento,
per far sapere all’Esercito che la rivoluzione è cominciata e che loro non si
devono intromettere. Eglon è il fulcro di questa rivoluzione, e tutto ciò che
si trova fuori dalla barricata adesso non ha più niente a che vedere con la
città. Ce la sbrighiamo da soli, Daniel. Da soli come abbiamo sempre fatto.»
Stan e Robert erano a pochi passi da
casa quando i mortai cominciarono a sputare fuoco sulle prime linee dell’Esercito
statunitense appostato fuori dal perimetro del centro abitato. I boati delle
esplosioni furono devastanti, ma i due uomini abbozzarono una mezza occhiata
all’orizzonte e tornarono a concentrarsi sulla strada da percorrere. Era
stranamente pieno di automobili che andavano e venivano, adesso, ed essere
travolti da un passante era una possibilità che preferivano evitare.
Stava succedendo il finimondo, a
Eglon. Erano già stati a vedere le barricate e in tutta sincerità le reputavano
piuttosto sottili per essere definite delle vere e proprie difese. Ad ogni modo, sembrava che i ribelli le tenessero in grande
considerazione. Il lavoro di rafforzamento dei confini della città era stato
completato piuttosto rapidamente, e Stan e Robert avevano avuto modo di vedere
le linee dell’esercito schierarsi a poco più di un chilometro dal margine
settentrionale del centro abitato, allestendo un campo militare e attendendo
l’arrivo di altri mezzi e uomini.
Si trovavano immersi in una situazione
assai delicata, adesso. C’erano rivoluzionari armati lungo tutte le vie della
città, e, anche se non era proibito muoversi, Stan aveva deciso che l’avrebbe
fatto soltanto quando si fosse rivelato strettamente necessario. Fuori, invece,
si stava accampando l’Esercito, pronto a muovere l’assalto appena fosse giunto
un via libera da qualsiasi direzione. Ma il punto era che l’Esercito non aveva
informazioni sulla situazione all’interno della città, e nessuno da dentro
aveva modo di comunicargliele o di far sapere che cos’era successo esattamente
durante la scorsa notte. Il che era decisamente frustrante.
«Guarda, abbiamo gli aiuti che ci occorrono
a pochi passi da noi e non c’è modo di contattarli» aveva sentenziato Robert
una mezz’ora prima mentre osservavano dalla feritoia di una barricata il punto
in cui i militari si stavano stabilendo. Poi era sopraggiunto un tizio con una
bandana e degli occhiali da sole Ray Ban
e li aveva fatti sloggiare, dicendo loro che quella lì era una zona altamente
pericolosa e non era il caso di stare tra i piedi agli addetti ai lavori.
Stan e Robert non erano naturalmente
rimasti lì a farselo ripetere una seconda volta.
Sulla strada del ritorno avevano avuto
modo di riflettere su ciò che avevano visto e, sporadicamente, anche di
parlarne. Ma c’era molta più confusione, adesso, rispetto a quella mattina.
Sembrava che tutta la città si fosse risvegliata assieme ben oltre il solito
orario, e che adesso ognuno cercasse per conto proprio di andare a sbrigare i
suoi affari anche se c’erano tutti quegli uomini armati che sorvegliavano i
quartieri. Roba da non credere.
Ma peggio di tutto il resto era il
fatto che ogni tanto si sentivano degli spari provenire da questa o quella via,
e urla isolate squarciavano il monotono ronzio del traffico e si placavano dopo
pochi istanti, come soffocate da un’infinità di cuscini premuti sulle bocche di
chi le aveva emesse.
Sarebbe stata una nottata parecchio
difficile, quella che oramai già si profilava all’orizzonte. E Stan sentiva un
bisogno assolutamente impellente di buttarsi a letto e mettersi a dormire.
Chissà se nel suo appartamento, a
Little Rock, era tutto quanto a posto…
Sonny Dangerwood stava per mettersi a
gridare quando vide gli uomini scendere dal furgone blindato che si era fermato
accanto a Ben Dolovan, il poliziotto che gli aveva salvato la vita e che pochi
minuti fa era stato colpito alla spalla destra da un proiettile inaspettato,
probabilmente sparato da qualche cecchino appostato in uno dei palazzi circostanti.
Questo significava che i ribelli
sapevano che cos’era successo e li avevano seguiti. Di conseguenza, adesso era
anche lui in pericolo…
Da dietro l’angolo di una banca
osservò tre uomini in impermeabile nero scendere dal furgone blindato e
stringersi in cerchio attorno alla figura distesa di Ben Dolovan. Uno dei nuovi
arrivati gli porse una mano e lo aiutò a rialzarsi, tendendolo per il braccio
sinistro. Ben si tirò faticosamente in piedi e rispose a una domanda che uno
dei tizi doveva evidentemente avergli posto. Sonny non poté sentire da quella
distanza che cosa stesse dicendo, ma poteva in ogni caso vedere che le sue labbra
si stavano muovendo.
I tizi scesi dal furgone blindato
indossavano la stessa maschera: un teschio di gomma con profonde occhiaie nere,
la fronte cadaverica mezza nascosta dal risvolto del cappuccio che tutti e tre
si erano calati sulla testa. Parevano disarmati, ma Sonny era abbastanza sicuro
che sotto quegli impermeabili ci fosse un arsenale di tutto rispetto.
Uno degli uomini tese una mano in
direzione di Ben e il poliziotto, sebbene palesemente riluttante, fece
comparire la propria pistola da sotto la maglietta e la consegnò a quelle dita
tozze e nerborute. Sanguinava parecchio, e di certo aveva bisogno di un medico
al più presto. Di quel passo non sarebbe durato ancora per molto. Si reggeva a
malapena in piedi, tenuto su da uno dei tipi loschi che adesso lo stavano
facendo salire in fretta e furia a bordo del furgoncino blindato.
Dove lo intendessero portare, Sonny
non osò neppure chiederselo. Senz’altro non sarebbe stato piacevole, perché le
parole pronunciate quella notte dai rivoluzionari in tutti i quartieri di Eglon
gli aleggiavano ancora in testa, risolutive e apparentemente stregate: a chiunque a partire dalle cinque verrà
pescato in possesso di un’arma sarà applicata seduta stante la pena di
morte, e non vi saranno eccezioni, né
possibilità alcuna di riscatto. Una minaccia che non lasciava troppo spazio
all’immaginazione, né tantomeno alla speranza.
Il furgoncino si rimise in moto e
partì senza fretta venendo nella sua direzione.
Sonny si sentì immediatamente
spiazzato. Si trovava in un luogo scoperto, e passando di lì non avrebbero potuto
fare a meno di scorgerlo. Questa non ci voleva, maledizione!
Si guardò attorno spaesato, ansimando
per la paura.
«Vieni qui, vecchio, prima che i
Sorveglianti ti vedano!» quasi gli sbraitò contro una voce inattesa, giungendo
dalle sue spalle.
Per la seconda volta nel giro di
un’ora si sentì non soltanto baciato, ma addirittura slinguazzato dalla sorte. Si girò di scatto e si mise a correre
verso la porta spalancata, tuffandosi nella sua penombra condensata e
percependo l’uscio richiudersi pesantemente dietro di sé.
Era tutto buio, in quella casa. E
c’era un vago odore di fritto che faceva da sottofondo a ogni altra percezione.
Sonny arricciò il naso e a poco a poco iniziò a mettere un po’ a fuoco. Gli si
parò davanti la silhouette di un uomo che lo fissava a braccia conserte tenendo
la schiena appoggiata a una parete, senza proferire parola.
«Grazie» bofonchiò Sonny Dangerwood
riprendendo fiato.
«Figurati. Ti è andata bene, vecchio.
Più di quanto credi» commentò l’uomo rimanendo immobile a osservarlo, come se
lo stesse esaminando da capo a piedi nel tentativo di riconoscere nel suo
sguardo un amico di vecchia data. «Sicuramente meglio di com’è andata al tizio
che sono riusciti a prendere stamattina.»
Sonny non sapeva di che cosa stesse
parlando quell’uomo. Era salvo, e questo era ciò che contava, per adesso. La
sua casa non esisteva probabilmente più, ma lui era ancora vivo e la consapevolezza
di esserlo gli apparve come un insperato segnale divino. La sua vita, in fondo,
valeva ancora qualcosa per quel mondo travagliato nel quale si stava lentamente
ma inesorabilmente consumando alla stregua di un mozzicone di sigaretta gettato
sull’asfalto.
«Che cosa faranno a Ben?» riuscì
soltanto a sibilare Sonny mentre la testa gli diveniva sempre più leggera.
Stava per perdere i sensi, e solamente ora riusciva a rendersene pienamente
conto.
«Ben? Si chiamava Ben, quell’uomo a
cui hanno sparato i Sorveglianti? Be’, non è difficile immaginare quello che
gli faranno, vecchio… Al tuo amico Ben, adesso, spetta la pena di morte…» spiegò sinteticamente il padrone di casa, e Sonny
Dangerwood perse conoscenza sul pavimento di marmo freddo dell’ingresso
semibuio di quell’abitazione sconosciuta.
Larry Mason, primario del reparto di
chirurgia all’ospedale di Eglon, raggiunse l’atrio e vi trovò sei figure in
piedi accanto alla porta d’ingresso con dei fucili a tracolla. Li squadrò uno
ad uno, esplorando le loro maschere per cercare di intuire qualcosa dei volti
che vi stavano nascosti sotto. Non colse nulla delle loro espressioni, ma
questo non lo scoraggiò. Si era concesso una lunga e inebriante sorsata di
whisky al piano di sopra, una manciata di minuti prima, e adesso si sentiva
pronto ad affrontare a spada tratta qualunque avversità.
«Dottor Mason, ci rivediamo…» lo
salutò, accompagnando alle parole un lieve accenno d’inchino, quello che doveva
essere il capogruppo. Indossava una maschera blu con una ragnatela rossa sul
lato sinistro e una grossa croce di fuoco sulla destra. In testa si era calcato
un elmetto da soldato color verde militare. Si trattava dello stesso uomo che
subito dopo l’alba era venuto a trovarlo per parlargli dei suoi feriti. Gli
aveva spiegato che tutti i rivoluzionari arrivati in ambulanza avevano la
priorità sul resto dei pazienti, e che per ognuno di loro che fosse morto
avrebbe segnato una croce sulla facciata dell’ospedale e una volta giunto a
dieci croci lo avrebbe ammazzato e sostituito con un altro medico. Il dottor
Mason era rimasto zitto ad ascoltarlo e aveva annuito, sentendosi crollare il
mondo addosso di fronte alla minaccia di morte.
Il ribelle era andato avanti,
esponendo le sue condizioni: nessuno dei rivoluzionari ricoverato in ospedale
avrebbe dovuto identificarsi, e non dovevano essere raccolti dati, campioni di DNA o impronte digitali di nessuno di loro.
Inoltre aveva fatto promettere a Larry che si sarebbe assicurato personalmente che nessuno degli altri
medici o degli infermieri potesse riconoscere la nazionalità dei rivoluzionari,
il che significava mantenere coperti i loro volti, a meno che, naturalmente,
non si rivelasse necessario operare sugli stessi.
Ancora una volta Larry Mason aveva
annuito. Il ribelle, compiaciuto, lo aveva salutato e se n’era andato senza
aggiungere altro. E adesso, come stava a testimoniare la sua autoritaria e
terrificante figura nell’atrio, era ritornato.
«Siete qui per sapere dei vostri
compagni?» domandò il medico mantenendo un tono di voce sufficientemente
misurato. Era agitatissimo, ma non voleva darlo a vedere. Dei sette
rivoluzionari feriti arrivati quella notte in ambulanza cinque stavano bene e
uno era ancora sotto choc ma si stava a poco a poco riprendendo. L’ultimo,
però, quello che aveva richiesto un intervento di oltre otto ore per fermare
una serie inesauribile di emorragie interne, non ce l’aveva fatta. Larry Mason
aveva dichiarato di persona l’ora del suo decesso, senza potergli attribuire un
nome ma semplicemente chiamandolo Paziente
Ribelle Numero Uno.
«So già tutto dei miei uomini, dottor
Mason. No, non siamo qui per questo. Siamo qui per prendere il corpo del
Soldato che non sei riuscito a salvare» scandì molto tranquillamente il
rivoluzionario con la maschera blu, facendo ondeggiare la mitraglietta che
portava a tracolla avanti e indietro come se fosse stata un pendolo in grado di
indurre una qualche sorta di ipnosi nel suo spaventato interlocutore.
Larry inghiottì a vuoto, mandando giù
un blocco di saliva talmente denso da sembrare piombo. Sapevano già del ribelle
morto. Come avessero fatto a scoprirlo, non osava neppure chiederselo. Magari
era stata l’infermiera che li aveva tenuti a bada fino a un attimo prima,
ipotizzò. Ma era improbabile, perché quell’infermiera non aveva assistito
all’operazione, né tantomeno poteva aver chiacchierato con qualcun altro…
«Non darti pena, dottore. Va tutto
bene. Per ora. Ciò che voglio che tu
sappia, però, è che ho già dipinto una croce sulla facciata dell’ospedale. E
che ho lasciato lo spazio per inserirne altre nove, una di seguito all’altra. E
tu sai benissimo che cosa accadrà appena la decima croce sarà apposta al muro
dell’ospedale, non è vero?» mormorò cupamente la voce fredda e priva d’accento
di Maschera Blu.
Larry si affrettò ad annuire, sempre
più irrequieto.
«Molto bene, dottor Mason. Dov’è quel
corpo?» concluse il rivoluzionario, e Larry Mason si sentì accapponare la pelle
quando quel sussurro gelido gli sfiorò il collo. Si voltò e fece strada ai
ribelli verso la stanza nella quale il paziente deceduto era stato trasferito
circa mezz’ora prima.
C’era soltanto buio, attorno a lei.
Un’oscurità profonda e impalpabile, densa quanto il contenuto di un vasetto di
yogurt. Per quanto si sforzasse di esplorarla, capire dove iniziasse e dove
finisse era impossibile. Era tutto quanto buio, tutto attorno a lei, come se si
fosse immersa nelle asperità di una grotta naturale e si fosse perduta
centinaia di chilometri sotto il livello del mare. Era una sensazione insolita,
però. Non la sensazione che si sarebbe aspettata di provare se davvero fosse stata dentro una grotta.
Anche perché quella non era una grotta, e Melanie lo sapeva bene. Ma fingere
che fosse un luogo naturale, che si trovasse ancora nel mondo, se non altro la aiutava a stare calma e a non lasciarsi
afferrare dal panico strisciante che le girava attorno già da un po’.
Ricordava tutto quanto. Eppure era strano
ricordare, perché in fondo quando si muore dovrebbe finire ogni cosa, giusto? E
questo includeva anche i ricordi… Tuttavia, rammentava dell’aereo e di Jackie
Chan, del palmare e del segnale di allacciarsi le cinture, dell’ala che veniva
improvvisamente colpita da qualcosa ed
esplodeva, della caduta…
Poi c’era stato lo schianto. Ed era
allora che si era fatto tutto buio, e da quel momento non era più uscita dalla
valle nera di yogurt nella quale si trovava tuttora.
Però, ora che ci pensava, se riusciva
a ricordarsi tutte queste cose allora significava per forza che non poteva essere morta. O almeno così
credeva… Anche se, ad essere sincera, l’idea di essere sopravvissuta a un incidente
simile appariva quantomeno inverosimile. Solo che c’era tutta questa ampia
gamma di sensazioni a contraddire la sua percezione di morte apparente, e
sensazioni e ricordi non andavano un granché d’accordo con il concetto di fine di tutto…
Queste erano le riflessioni che le
svolazzavano in testa nel momento in cui un cucchiaino di luce penetrò nello
strato di yogurt buio che le affogava la mente e ne portò via un generoso
boccone. Melanie Winget lo vide comparire e scomparire subito dopo,
quell’enigmatico cucchiaino luminoso. Ma dopo pochi attimi ritornò, e un altro
po’ di oscurità fu portata via.
Le tenebre si stavano dissipando,
cucchiaiata dopo cucchiaiata, anche se sarebbe stato più corretto dire che
stavano scemando. Melanie rimase
immobile a osservarle mentre se ne andavano, e a poco a poco le pareti della
grotta nella quale si trovava prendevano forma e consistenza. Era davvero una
grotta, era una grotta posta a centinaia di chilometri sotto il livello del
mare e adesso si stava svuotando di tutto quello yogurt nero e si stava
riempiendo lentamente di luce, quasi che il sole avesse spezzettato il velo
spesso di una tenda posta dietro una finestra e ora raggiungesse senza difficoltà
il materasso e il cuscino sui quali giaceva addormentata.
Una pozza di luce la sommerse
all’improvviso, bagnandola da capo a piedi e sostituendosi abilmente alla fosca
oscurità che l’aveva circondata per un periodo di tempo che variava tra i nove e
i dieci secoli. Dovette chiudere gli occhi per impedirsi di gridare. Li strinse
più forte che poteva, eppure il chiarore era sempre più intenso e penetrante,
così tanto da farle terribilmente male.
Fu in quel momento che si rese conto
di avere gli occhi aperti, in realtà. Li stava addirittura forzando affinché si
spalancassero ancora di più, ed era per questo motivo che la luce non faceva
che espandersi e colpirla con sempre maggiore impeto.
Coperte tiepide, un materasso
accogliente, un cuscino che profumava di ammorbidente. Aveva male a una gamba,
un male lancinante, e tutta la parte destra del petto era un unico e amorfo ammasso
di dolore insostenibile. Sentiva qualcosa anche a una spalla, ma non aveva
ancora deciso se si potesse esattamente definire un qualcosa di negativo o
meno. Era più semplicemente qualcosa,
e se ne sarebbe preoccupata in seguito.
I suoi occhi, inondati dalla luce
rossastra del tramonto, finalmente riuscirono a scorgere una forma dinnanzi a
sé. Una figura sfocata e imprecisa, quasi uno scarabocchio. Le coprì il volto e
le protesse gli occhi dalla luce, e allora poté distinguerla un po’ meglio: era
una maschera, una maschera davvero brutta che raffigurava un teschio con
profonde occhiaie nere. Il teschio le si avvicinò fino a sfiorarle la punta del
naso, e Melanie Winget precipitò di nuovo nello yogurt nero che aveva appena
finito di spazzolare.
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