Tom Davis faceva parte del glorioso corpo
dei Marines da soli due anni, eppure ormai apparteneva a pieno diritto a quella
categoria di combattenti che sa decisamente come cavarsela con un fucile in
mano. Suo padre era stato un Marine, e anche suo nonno, prima di lui. Potrebbe
apparire come la solita storiella strappalacrime da soldato americano, ma la
famiglia Davis aveva davvero militato per generazioni tra le file dei Marines
statunitensi.
Ora per Tom trovarsi a pochi passi da
casa, alle porte della città di Eglon, dalla quale si innalzava il fumo di
numerose esplosioni, era a dir poco scioccante.
Un reparto dell’Esercito degli Stati
Uniti si era avvicinato a Eglon da nord, scendendo rapidamente dalle zone di
Little Rock. C’era parecchio caos nel subbuglio generale delle manifestazioni
in memoria dell’undici settembre, e questo fatto di Eglon aveva lasciato tutti
quanti a bocca aperta. Com’era potuto accadere? Anzi, meglio ancora: cosa stava
accadendo, di preciso, dietro quella barricata di legno che era stata eretta
per separare la campagna dal centro urbano?
I soldati erano stati richiamati
quella mattina, e in poche ore avevano raggiunto il punto di incontro. L’azione
era stata rapida e pronta, ma non c’era modo di entrare in città: le barriere
impedivano a chiunque di passare, e abbatterle era fuori discussione. Troppi
edifici civili nei dintorni, si rischiava di ammazzare qualcuno se non si
prestava la massima attenzione.
Oltretutto, i tre Black Hawk mandati
in ricognizione con l’incarico di lanciare alcuni uomini sulla cima della Eglon
Tower per iniziare a ripulire la zona erano stati abbattuti, e i piloti e i
soldati che si trovavano all’interno dovevano essere ormai andati all’altro
mondo.
No, stava succedendo qualcosa di
impensabile in quella comune città dell’Arkansas. E Tom Davis, nonostante
reggesse con mano ferma il fucile d’assalto puntato in direzione della
barricata di legno in lontananza, dentro di sé tremava. Perché in quel momento
avrebbe dovuto assistere alla cerimonia organizzata a Little Rock in memoria
delle vittime degli attacchi dell’undici settembre 2001, e invece si trovava lì,
a pochi passi dal luogo in cui stavano venendo presumibilmente mietute le
vittime di un nuovo undici settembre, un altro giorno che sarebbe inevitabilmente
passato alla storia, alla stregua del suo predecessore. E la parte peggiore, in
tutto questo, era che lui si sentiva assolutamente impotente di fronte a questa
tremenda visione.
Era quasi il tramonto, e sulla destra
Tom vedeva il sole calare sempre più simile a un globo incandescente di ghiaccio
infuocato. Le nuvole, a ovest, si erano aperte per qualche minuto, ma Tom
sapeva che presto sarebbero ritornate a coprire il cielo e l’orizzonte con il
loro grigio e freddo abbraccio inestricabile.
Quella che si preparava a venire
sarebbe stata una notte senza stelle. Per tutti quanti loro, e anche per i
disgraziati cittadini di Eglon. Altre luci avrebbero rischiarato le strade
della città durante le ore di buio, e sarebbero state quelle sprigionate dalle
fiamme.
Tom Davis intravide improvvisamente
qualcosa saettare sull’orizzonte. Qualcosa di nero, di indefinito, qualcosa che
non avrebbe saputo descrivere neppure sotto tortura. Ma non gli ci volle molto
a capire che si trattava di un colpo di mortaio, perché quando ci fu
l’esplosione presso la prima linea dei soldati dell’esercito statunitense si
rese conto che iniziavano a piovere razzi su di loro.
LE
ANIME DI EGLON
PRIMA
STAGIONE
EPISODIO
11
ERRORE
FATALE
Jeremy Barton era assolutamente sicuro
che avrebbero trovato parecchie difficoltà nel raggiungere il margine ovest
della città. La strada si presentò invece quasi del tutto sgombra.
Il modo in cui la cittadinanza di
Eglon si era asserragliata in casa aveva dell’incredibile. Non si scorgeva
anima viva lungo le strade. Sembrava quasi che un’astronave aliena fosse
passata nei cieli sopra il centro abitato e, alla stregua di un’immensa
aspirapolvere, avesse risucchiato tutta la popolazione con il suo luminoso
raggio traente.
Naturalmente Jeremy comprendeva quelle
povere famiglie che si erano barricate nelle proprie abitazioni sperando che
tutto finisse in fretta. Allo stesso tempo, però, si domandava come potessero
resistere alla tremenda assenza di informazioni che inevitabilmente si generava
a causa di tale presa di posizione. Lui personalmente non sopportava l’idea di
rimanere all’oscuro di tutto, ed era disposto persino a rischiare la vita pur
di capire a che cosa la città stesse per andare incontro.
In fondo, poi, che cosa aveva da
perdere? Un appartamento che forse l’indomani avrebbe potuto essere fatto
esplodere da quei pazzi rivoluzionari? Un’auto che ormai dava i primi segni di
cedimento? Il suo posto di lavoro in quel periodo di crisi, che ormai valeva
meno di uno zero da quando la polizia di Eglon era stata attaccata? Che
cos’aveva da perdere ormai?
(le
tombe dei miei genitori al cimitero di Eglon?)
E i suoi compagni di viaggio? Che
cos’avevano da perdere Brian Jones e Patrick Wieler?
I tre camminavano in silenzio lungo
una delle strade secondarie della città che correva parallelamente a Main
Street. Una macchina risalì la via alle loro spalle a tutta velocità,
superandoli e sgommando alla curva successiva per svoltare a destra all’ultimo
istante. Più avanti c’erano alcuni uomini che si spostavano frettolosamente da un
marciapiede all’altro, le mani in tasca e gli sguardi bassi, veloci a
scomparire nell’ombra degli edifici.
Jeremy considerò che forse i ribelli
si trovavano per la maggior parte lungo i confini della città a innalzare le
barricate, per questo se ne vedevano pochissimi per strada. Proprio in quel
momento un anonimo furgoncino blindato nero fece il suo ingresso nella via, comparendo
da uno svincolo secondario, e per poco non li investì, mancando il marciapiede
di mezzo centimetro e rimettendosi in carreggiata a folle velocità.
«Sembra abbastanza tranquillo, qui»
commentò il vicesceriffo Wieler per combattere il silenzio dei loro passi
attutiti.
«Siamo in una strada poco importante,
e i rivoluzionari sono impegnati a rinforzare i confini della città in attesa
dell’esercito» mormorò tetramente Jeremy. Patrick aveva ragione: la situazione
pareva poco allarmante, ma non potevano sapere con esattezza che cosa stesse
capitando in altre parti della città.
Era ormai tardo pomeriggio, ma di
tempo ce n’era ancora per far succedere qualcos’altro di orribile prima del
calare delle tenebre…
«Quell’affare prende, Brian?» domandò
il vicesceriffo, notando che il compagno stava consultando un apparecchio che
sembrava un telefonino di ultima generazione.
«Purtroppo no. Non c’è campo da
nessuna parte, a quanto pare. Chissà come hanno fatto a oscurare il segnale in
tutta la città…» rifletté Brian Jones continuando a premere pulsanti a
casaccio.
«In qualunque modo ci siano riusciti,
sono stati davvero bravi: ha funzionato alla perfezione» giudicò Jeremy
laconicamente, e il terzetto svoltò verso destra immettendosi in un breve
tratto di parco desolato.
Il silenzio tra tutto quel verde era
ancora più letale. Le altalene giacevano immobili, e le panchine spuntavano
fuori qua e là dall’erba a mostrare il proprio cupo stato di abbandono. Anche
gli scivoli erano vuoti, così come tutte le altre giostre. E gli alberi se ne
stavano fermi, come se neppure il vento potesse più indurli a muovere i propri
rami.
Che cosa sarebbe accaduto a Eglon quando
fosse arrivato l’esercito? Sarebbe scoppiata una guerra o che altro? E quale
ruolo avrebbero ricoperto gli abitanti, nel caso di un conflitto armato? Tutte
queste domande affollavano la testa di Jeremy senza trovare risposta. Di certo
sarebbero stati tempi difficili, quelli che li aspettavano. Su questo non c’era
ombra di dubbio.
Superarono il parco, quindi si
immisero in un’altra via e la attraversarono, raggiungendo il margine ovest
della città poco più a nord del punto in cui Main Street si lanciava
nell’aperta campagna.
Da lì si poteva scorgere un tratto
della barricata di legno innalzata dai rivoluzionari. Attorno era tutto un
assembramento di furgoni blindati e uomini incappucciati con bandane e maschere
sui volti. Dozzine e dozzine di pistole, fucili, mitragliette e mitragliatrici
tenute da mani ferme e sicure. Un carro armato poco più in là, addossato alla
facciata di un palazzo, che teneva il cannone sollevato verso l’alto per
sparare al di là della barriera improvvisata.
«Hanno eretto proprio una bella
barricata» valutò ad alta voce il vicesceriffo Patrick Wieler, sbalordito.
Tutti e tre osservavano la strada scomparire sotto quella spessa muraglia
rinforzata e gli uomini affaccendati che le brulicavano attorno in cerca di
munizioni e, quasi sicuramente, anche di informazioni.
«Prova a controllare se qui il
cellulare prende» sussurrò Jeremy rivolgendosi a Brian.
L’uomo eseguì e rispose immediatamente
con un cenno negativo.
«Maledizione. Tutta la città è
tagliata fuori» borbottò Jeremy seccamente.
«Questo implica una cosa, però» disse
Brian in tutta tranquillità. Jeremy gli scoccò un’occhiata interrogativa.
«Nemmeno loro hanno modo di tenersi in contatto da una parte all’altra della
città» spiegò brevemente Brian Jones, e questa considerazione parve illuminare
le espressioni altrimenti buie dei compagni.
«Sono preoccupata per mio cugino»
rivelò a un certo punto Rebecca, mentre lei e Daniel stavano percorrendo
Neighbour Street in direzione di Main Street. Il ragazzo aveva proposto alla
nuova amica di accompagnarlo verso il municipio per vedere se suo padre fosse
lì e stesse bene, e la giovane aveva accettato perché, dopotutto, lei non
conosceva Eglon e in alternativa non avrebbe saputo dove andare.
Ma anche perché in un certo senso si
sentiva più sicura avendo Daniel accanto. La faceva stare tranquilla,
nonostante le terribili cose che si stavano verificando attorno a loro, e
questo era già molto. In una situazione talmente disperata da apparire
insanabile, avere delle certezze era l’unica cosa alla quale si potesse
anelare.
«Vedrai che non gli sarà successo
nulla. Magari ti sta cercando anche lui» la rassicurò Daniel Green. Lui aveva
altri pensieri per la testa. Stava ragionando sul fatto che aveva lasciato
Betty da sola a casa, e che ormai buona parte della giornata se n’era andata e
la sua ragazza a questo punto doveva essere come minimo spaventata a morte.
Sarebbe dovuto tornare quanto prima. Ma c’erano faccende più importanti da
sbrigare, al momento. Non aveva ancora scoperto dove accidenti fosse suo padre,
che cosa gli fosse capitato quella notte e che cosa effettivamente sapesse
riguardo la situazione nella quale erano precipitati. Avere anche solo una di
queste risposte gli sarebbe stato sufficiente ma, dato che gli interrogativi
rimanevano aperti, non aveva la minima intenzione di arrendersi adesso e di
rifugiarsi in casa come avevano fatto quasi tutti gli abitanti di Eglon.
«Ho paura che non sarà semplice
trovarlo…» farfugliò Rebecca fissando l’asfalto che scorreva sotto i loro passi
come un fiume risalito controcorrente.
«Non sarà semplice nemmeno trovare mio
padre» ribatté Daniel per mostrarle che le carte coperte erano ancora tante in
quel gioco del quale non avevano ancora pienamente compreso le regole, e
Rebecca si lasciò sfuggire un sospiro inquieto.
L’incrocio tra Neighbour Street e Main
Street non era lontano. Da lì si scorgeva qualche pilone di fumo grigiastro
sollevarsi in aria dal centro della città, e Daniel sospettava che quel fumo
provenisse dalle carcasse metalliche dei tre Black Hawk dell’esercito abbattuti
poche ore prima. Era incredibile il modo in cui quel sanguinoso rosario di
morte si stava rapidamente snocciolando sopra la malcapitata città di Eglon nel
giro di un solo giorno, eppure Daniel sapeva che era tutto vero. Essere protagonista
di un evento di simili proporzioni gli aveva scaricato in corpo una quantità di
adrenalina pazzesca. Soltanto grazie a questa si reggeva ancora in piedi,
perché erano più di trentasei ore che non dormiva, e perdere così tante ore di
sonno in emozioni a dir poco sconvolgenti avrebbe potuto sfiancare il fisico
più resistente. Ma l’adrenalina si sarebbe presto esaurita, e già adesso Daniel
Green cominciava a percepire un lieve, superficiale brivido di stanchezza.
«Oddio…» balbettò tutt’a un tratto
Rebecca, fermandosi, portandosi una mano sulla bocca e voltandosi dall’altra
parte. Daniel notò un paio di donne sgattaiolare via all’altro lato della
strada e un uomo, dalla parte opposta, passare velocemente a bordo di una
motocicletta e svanire magicamente oltre l’angolo di un palazzo.
Si volse dalla parte in cui fino a un
attimo prima era puntato lo sguardo di Rebecca e si sentì chiaramente
trasalire. L’asfalto della strada era tutto macchiato di sangue rappreso,
sangue che pareva ruggine ma che in alcuni punti aveva ancora il suo colorito
brillante e fresco, di un rosso che poteva significare soltanto una cosa:
morte.
«Che cos’è?» gli chiese titubante
Rebecca, senza girarsi e tenendo gli occhi saldamente serrati.
«Penso sia sangue…» rispose sottovoce
Daniel. Ma non era vero che lo pensava. Lo sapeva,
e la cosa era ben diversa. C’erano delle vere e proprie pozzanghere di sangue, laggiù sull’incrocio tra Neighbour Street e
Main Street, e sembrava che ne fosse colato un po’ anche lungo i canali di
scolo in direzione di alcuni tombini.
Che
razza di massacro c’è stato, qui, stanotte?
Daniel mosse qualche altro passo in
avanti ed esaminò meglio la scena. Non c’erano corpi, lì attorno, nemmeno uno.
Ma c’erano parecchi bossoli, e schegge di proiettili già utilizzati. Come se ci
fosse stata una sorta di riproduzione reale
della Grande Guerra, con armi funzionanti e persone altrettanto vere. Era
uno scenario tremendo.
«Andiamocene… ti prego…» lo supplicò
Rebecca con uno sforzo.
«D’accordo…» acconsentì Daniel disorientato,
e le fece segno di seguirlo imboccando un’altra strada che si dipartiva da
Neighbour Street e si infilava tra i palazzi sulla destra.
«Che cosa credi sia successo, laggiù?»
volle sapere Rebecca quando si furono allontanati a sufficienza. Si intuiva
abbastanza facilmente che quella domanda non le era sorta molto spontanea, ma
che aveva comunque combattuto contro la sua riluttanza per riuscire infine ad
avere la meglio ed emergere.
«Sembrava il luogo di un’esecuzione…»
biascicò incerto Daniel Green, e sulle sue parole si innestò il tuono di una
nuova, lacerante esplosione.
Il vecchio Sonny Dangerwood abitava
nei pressi del ponte sul fiume Arkansas, a poche centinaia di metri dal margine
orientale della città di Eglon, da quando era nato, e abbandonare la sua casa
non era mai rientrato tra le sue priorità. La mattina dell’undici settembre,
tuttavia, Sonny fu costretto a saltare fuori dalla sua abitazione malandata
come se gli fosse stato acceso un intero pacchetto di fiammiferi sotto il
sedere, perché una ruspa era stata lanciata a tutta velocità contro l’edificio
e aveva già demolito l’ala nella quale si trovava la sua camera da letto.
Sonny uscì in vestaglia e si fiondò in
strada, giusto in tempo per vedere la ruspa ritornare all’attacco e cancellare
in maniera definitiva la sua veranda e parte della sua saletta da pranzo.
Imprecò sonoramente, mostrando il
pugno agitato nell’aria al tizio che guidava la ruspa e, subito dopo,
sollevando il dito medio della mano destra al suo indirizzo e sbattendoglielo in
faccia senza tante cerimonie.
Il tipo che stava alla guida della
ruspa scese dal macchinario e posò i piedi sull’erba fangosa di quello che era
stato il giardino poco curato di Sonny Dangerwood negli ultimi trent’anni,
ossia da quando aveva smesso di essere il giardino ancora meno curato di suo
padre, George Dangerwood, nel momento in cui quest’ultimo aveva tirato le cuoia
e se n’era andato in un posto che molti ritenevano essere “migliore”.
«Che cosa vuoi, vecchietto?» gli
domandò la voce gracchiante dell’uomo sceso dalla ruspa, un tipo grosso quanto
un armadio che indossava una felpa nera col cappuccio abbassato sulla fronte e teneva
il volto nascosto dietro una maschera di silicone raffigurante un lupo mannaro
dall’espressione alterata.
«Che cosa voglio? Razza di deficiente, quella che hai appena
buttato giù e casa mia!» ribatté infuriato Sonny Dangerwood. Non aveva lavorato
per quarant’anni giù alla vecchia fabbrica di Charlie Green per vedere i suoi
sudati guadagni venire rasi al suolo dalla pala di una ruspa guidata da un tizio
che credeva che Halloween fosse arrivato una volta tanto in anticipo, che
diamine! Il governo gli aveva già fottuto l’ammontare di altrettanti risparmi
nel corso degli anni attraverso contributi e tasse, maledizione, e adesso un
colpo basso come questo proprio non se lo poteva permettere!
No, non si sarebbe fatto infinocchiare
un’altra volta da quei figli di puttana che anno dopo anno gli avevano levato
soldi e soldi e soldi dalla busta paga, intascando il duro ricavato del suo faticosissimo lavoro! Nossignore,
Sonny Dangerwood non ci stava ad abbassare il capo ancora una volta dinnanzi a
quell’ennesima pugnalata al cuore.
«Con chi ti credi di parlare, nonno?»
replicò l’uomo con la maschera da lupo mannaro facendosi sotto, avvicinandosi a
Sonny con fare irritato e scrollando le spalle.
«Con chi ti credi di parlare tu, giovanotto? Se tutto va bene
potresti essere mio figlio. E chissà che una volta non conoscessi tua madre,
ragazzino… Potresti essere un Dangerwood senza nemmeno saperlo!» lo sfidò
apertamente Sonny, senza peli sulla lingua.
«Attento a come parli. Farò finta di
non aver sentito solamente perché rispetto i vecchi. Ma faresti meglio a
startene zitto e a levare le tende, hai capito?» lo ammonì il terrorista
esibendo l’impugnatura di una pistola che gli spuntò da sotto la felpa.
«Questa è la mia proprietà, bello, e se non levi le tende tu, sarò costretto a fartene pentire!» berciò Sonny Dangerwood, per
nulla intimidito.
«Ti ho avvertito, vecchio…»
«E io ti ripeto che ci sono altissime
probabilità che una buona parte del sangue che ti scorre nelle vene sia mio…»
rispose freddamente Sonny. Dietro i suoi occhi luccicò una gelida scintilla di
soddisfazione, che il vecchio si godette appieno. Non era lì per vedersi
sottrarre da sotto gli occhi tutto ciò per cui si era dato da fare nel corso
della sua vita. Di bocconi amari ne aveva dovuti ingerire parecchi, in
settantaquattro anni di esistenza, e ormai a suo avviso gli rimanevano troppi
pochi giorni da consumare su questa terra per consentire al mondo di
infilargliene altri giù per la gola.
L’uomo con addosso la maschera di
silicone da lupo mannaro tirò fuori la pistola da sotto la felpa e rimosse
accuratamente la sicura, avvicinandosi di un altro paio di passi a Sonny e
puntandogli l’arma dritta in mezzo agli occhi, tenendola impugnata con entrambe
le mani.
«Dammi un buon motivo per il quale non
dovrei spararti entro cinque secondi oppure preparati a fare un bel viaggetto
nel posto più caldo che ci sia» sibilò il terrorista con assoluto controllo di
sé. Non c’era emozione dietro le sue parole, non c’era esitazione nella sua
voce: la sua lucidità apparve quasi meccanica, tanto che per un attimo Sonny
pensò che in passato dovesse avere sicuramente ucciso più di una volta.
«Se non altro, il calore del fuoco
compenserà la mia pressione bassa…» commentò laconicamente Sonny Dangerwood
tenendosi pronto a subire l’ultima ingiustizia della sua miserabile vita da infaticabile
lavoratore.
Il rivoluzionario con la maschera da
lupo mannaro spianò la pistola con fare automatico, come una macchina
programmata per ammazzare a sangue freddo chiunque le si opponesse, e fece pressione
sul grilletto senza porre ulteriore indugio, di fronte allo spasmodico
luccichio dei suoi gelidi occhi spiritati a malapena intuibili oltre i bordi
scuri del silicone.
Lo squarcio generato dallo sparo aprì
l’aria esattamente a metà, con una tale precisione da non poter essere altro
che frutto di un atto artificiale. Sonny Dangerwood barcollò nei suoi ultimi
istanti di consapevolezza di sé, pensando alla sua casa, che ora giaceva a
pezzi di fronte a lui, a sua moglie, che se n’era andata da un po’ per colpa di
quell’ictus inaspettato, e a suo figlio, che se n’era partito dopo l’ultimo
litigio alcuni anni addietro e con il quale non aveva più avuto modo di riappacificarsi.
Rammentò tutte queste cose mentre il suo cuore gorgogliava le ultime sillabe
insanguinate del suo triste e insignificante romanzo di battiti, dopodiché
sospirò.
E si rese conto di essere ancora vivo.
Realizzò di avere gli occhi chiusi
solamente quando udì un secondo sparo infrangere le barriere dell’abisso e far
precipitare tutto quanto un’altra volta nella dura realtà di Eglon. Le case
riapparvero sotto i suoi occhi. La sua abitazione, demolita, e la ruspa ferma
sui resti della sua veranda. Il suo giardino poco curato, sul quale le suole di
gomma delle sue scarpe sembravano conservare ancora una certa stabilità. E
l’asfalto freddo della strada alle sue spalle, immobile e desolata sotto quel
cielo rannuvolato.
Vide l’uomo con la maschera da lupo
mannaro riversato a terra. La felpa gli si era macchiata di sangue in due
punti, più o meno al centro del petto, e una pozza rossastra si stava a poco a
poco allargando sotto il suo corpo esanime. Portava ancora la maschera sul
volto e il cappuccio calato sulla testa, ma non faceva più paura. La sua
pistola giaceva poco più in là, quasi accanto a una delle grosse ruote
incrostate di fango della ruspa che aveva abbattuto metà della casa di Sonny.
«Vieni, presto!» lo riscosse la voce
di un uomo piovendogli addosso dalle spalle. Si sentì afferrare da una mano che
gli ghermì il braccio e lo trascinò con sé verso la strada. La seguì senza
indugio, mentre a mano a mano che i suoi sensi si risvegliavano iniziava a
rendersi pienamente conto del guaio in cui si era appena cacciato.
«Dobbiamo sparire alla svelta!»
esclamò l’uomo che correva davanti a lui tenendogli il braccio. Sonny non
riusciva a vederlo bene, perché era di spalle e non si fermava un attimo. Notò
la pistola che teneva in mano e valutò che dovesse essere suppergiù sulla
cinquantina a giudicare dai capelli brizzolati e dal profilo.
Quando ebbero superato la strada e si
furono infilati tra due palazzi, Sonny aveva il fiatone e già non ce la faceva
più. Entro poco sarebbe crollato, e allora nessuno lo avrebbe più potuto
aiutare.
L’uomo con il quale stava scappando
aveva appena ucciso un altro uomo alla luce del sole, eppure lui lo seguiva
come se niente fosse. Anzi, si stava addirittura aggrappando alla sua presenza, quasi che temesse di ricadere
indietro e di avere nuovamente paura di quel proiettile che per un soffio non
gli era stato sparato in mezzo agli occhi poco più di un minuto prima.
Si fermarono in un vicolo dietro un
vecchio palazzo dall’aria austera e dismessa e ripresero fiato. Finalmente
Sonny poté vedere il suo salvatore in viso: aveva ragione, pareva avere
all’incirca una cinquantina d’anni. Sopracciglia folte, volto squadrato, un
accenno di barba che chiedeva di essere rasata. Aveva i capelli scuri scompigliati
e le labbra screpolate. Sonny lo guardò mentre si affrettava a nascondere la
pistola sotto la maglietta e gli rivolgeva un mezzo sorriso.
«L’hai scampata per un pelo» gli disse
abbastanza tranquillamente.
«Grazie» ribatté il vecchio senza stare
troppo a girarci intorno.
L’uomo gli rivolse un pacato cenno
d’intesa. «La gente, qui, crede che quei bastardi abbiano già vinto in
partenza. Ma io no. Mi chiamo Ben, Ben Dolovan, e sono un poliziotto» si
presentò porgendogli la mano.
Sonny la strinse energicamente e gli
sorrise. «Sonny Dangerwood. E così sei un poliziotto, eh? Di’ un po’, che fine
avete fatto quando la città è stata presa?» s’informò, con una percettibile venatura
di risentimento celata nella voce.
«Non è semplice come può apparire,
Sonny. Siamo stati colti alla sprovvista. Francamente, non ho idea di che fine
abbiano fatto gli altri poliziotti di Eglon. So che alcuni di loro hanno dato
battaglia questa notte a Main Street, e che alla fine hanno avuto la peggio. Ho
seguito una delle ambulanze che si sono recate sul posto, e devo dire che non è
stato un bel vedere…»
«Li hanno fatti fuori?» volle sapere
Sonny, sorpreso.
«Fatti fuori è dire poco. Li hanno annientati, quei bastardi. Li hanno
circondati e li hanno stritolati, strizzandoli come spugne» farfugliò Ben
guardandosi intorno.
Le finestre dei palazzi circostanti
erano spente e vuote, come orbite di teschi nelle quali si fossero consumati
ormai da tempo i bulbi oculari.
«Che cosa possiamo fare?» mormorò
Sonny con la sua voce rauca e smorzata, attutita dal respiro ancora irregolare.
«Per adesso la cosa migliore da fare è
sparire dalla circolazione. Ho ammazzato uno dei loro, e presto saranno sulle
mie tracce. Penso sia il caso di separarci, Sonny» propose Ben seriamente, e
Sonny non se la sentì di controbattere. Non aveva una casa alla quale tornare,
pensò, ma se non altro era fuori pericolo per il momento. O almeno così
credeva.
«Addio» lo salutò Ben all’uscita dal
vicolo, avviandosi lungo il marciapiede che portava verso il centro della
città. Fu in quell’istante che l’ennesimo sparo echeggiò nell’aria di Eglon,
rimbombando contro le facciate dei palazzi e producendo un rumore secco di
cartone strappato.
Sonny Dangerwood si voltò giusto in
tempo per vedere la figura di Ben Dolovan accasciarsi a terra in una
pozzanghera di sangue fresco che sembrava succo di mirtillo. Poi notò che
l’uomo era stato colpito a una spalla e che ancora si muoveva, ma un furgone
blindato nero sbucò da uno degli svincoli laterali e gli si fermò accanto,
sicché Sonny si girò ancora una volta dall’altra parte e riprese a camminare
con le mani affondate nelle tasche.
Il silenzio tornò a riempire Eglon.
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