Freddo. Freddo intenso. E una sensazione di panico, come
se l’umidità altro non fosse che una conseguenza delle sue paure che si
manifestano sotto forma di vapore. E la stanza si presenta scura e stretta, un
piccolo cilindro dalle pareti di pietra e il pavimento ricoperto da uno strato
di acqua e, più sotto ancora, di melma fangosa dall’odore nauseante e dalla
consistenza insolita, come fossero pezzi di carne maciullata e tritata per
bene, poi spalmata sul pavimento di marmo e lasciata a riposare nell’acqua per
qualche giorno, avvolta dalle tenebre per diventare più saporita, carne umana
per cena, mio caro Johnny, ti va bene un piatto di interiora? Sono ancora
calde, tenute in ammollo per più di settantadue ore, cotte e salate al punto
giusto. Allora, che ne dici, ti fanno gola? E ovviamente il piccolo cannibale
interrogato avrebbe detto di sì, senza in realtà sapere di che cosa si
trattasse, che cosa fosse la sostanza gelatinosa infilzata dai rebbi della
forchetta che stava per essere introdotta silenziosamente nella sua bocca
spalancata. E tuttavia l’avrebbe gustata sorridendo, e si sarebbe detto che era
proprio buona, che ne voleva ancora, e in men che non si dica si sarebbe
ritrovato a far rosolare sul fuoco persone
vive, in carne ed ossa, che lo avrebbero supplicato di essere risparmiate,
e in ogni caso lui avrebbe risposto “no, perché la carne è buona e nutriente” e
avrebbe continuato nel suo lavoro di sadico cuoco delle tenebre, senza
interrompere il flusso dei macabri pensieri. Apri la boccuccia, piccolo Johnny, e mangia la pappa.
Stava delirando. Esserne consapevole era forse il primo
passo utile ad uscirne, ma ogni volta che ci pensava ricadeva dentro il fiume
che gli sconvolgeva la testa, e allora affondava ancora, sempre più in
profondità, da dove la luce sul pelo dell’acqua torbida si scorgeva a malapena.
Sarebbe morto là sotto, in quel vecchio pozzo dimenticato non soltanto da Dio,
ma anche e soprattutto dagli uomini.
Era incredibile il modo in cui c’era finito dentro, quasi illeso – fatta
eccezione, naturalmente, per l’insignificante graffietto sul dorso della mano
destra. Eppure, la strana sensazione di trovarsi in un sogno non lo
abbandonava, sebbene fosse cosciente di essere immerso nella realtà.
C’era qualcosa di tremendamente sbagliato, nelle pareti e nella profondità di quel pozzo. Era
situato in mezzo ai campi, o forse sarebbe stato più corretto dire che si
trovava in mezzo al nulla più assoluto.
Un pozzo di pietra tra i campi, senza protezioni, senza appigli ai quali
aggrapparsi, senza alcun secchio calato all’interno per mezzo di una corda
sulla quale poter sperare di arrampicarsi per venirne fuori. Niente di niente.
E lui era là dentro, con la melma – e la carne umana maciullata – sotto le
suole fradice delle scarpe, e aspettava che il suo amico tornasse con i
soccorsi per tirarlo finalmente fuori. Era questione di tempo, ormai. Se n’era
andato da più di due ore.
Adesso che ci pensava, in effetti, che fine aveva fatto
Roby? Si erano inoltrati in quei campi per non più di un paio di chilometri, e
appena poco più in là dell’argine c’era la statale più trafficata che si fosse
mai vista a memoria d’uomo. Che si fosse fiondato in mezzo alla strada per
l’agitazione e fosse stato messo sotto da un camion?
I suoi occhi si riempirono di inquietudine e di lacrime
imminenti. Il suo amico Roby era la sua unica speranza di uscire da quel buco.
Se si fosse fatto ammazzare, per lui sarebbe davvero stata la fine. Nessun
altro sapeva dove fosse, in che guaio si fosse ficcato. Nessuno, tranne Roby.
Come si faceva ad essere tanto stupidi da andare a
camminare in mezzo ai campi senza un cellulare? Ma era a due passi da casa, a
due passi dal frigorifero, con cibo e acqua fresca, a due passi dal divano,
dalla tivù, dal gabinetto, dallo stramaledetto telefono… Morire a due passi da
tutto questo sarebbe stato davvero un brutto scherzo, no?
Si mise a tamburellare i polpastrelli contro la pietra
fredda e ruvida delle pareti del pozzo. Scorgeva a malapena la penombra del
crepuscolo su in alto, lontana come una stella gelida nell’intimità tenebrosa
dello spazio siderale. Si stava a poco a poco facendo buio. La notte avanzava a
passo di marcia, il freddo della pietra del pozzo e dell’acqua che gli bagnava
i piedi penetrava gli strati protettivi della sua pelle e dei suoi muscoli e
incominciava a graffiargli le ossa. Roby doveva sbrigarsi ad arrivare, se
voleva trovare ancora qualcosa di vivo.
L’unico problema era che nessuno sapeva dove fosse. E
Roby, be’… dal momento che era riverso in una pozza di sangue a lato della
bocca del pozzo, avrebbe faticato un bel po’ a tornare indietro.
Che brividi! D:
RispondiEliminaAnche se uno si chiede quale sia stato il "prima" di questa storia, perché per scendere nella melma devi essere stato nel punto piú alto.
E a proposito di pozzi, ti consiglio "L'uccello che girava le viti del mondo" di Murakami, lo troverai alquanto interessante <3
Ti ringrazio per il consiglio, appena ne avrò occasione lo leggerò senz'altro!
EliminaIl bello di queste storie è dato dal fatto che sono "brevi", e per questo gran parte di ciò che le circonda viene volutamente lasciato alla fantasia (e alla creatività) del Lettore.
In questo caso particolare, il pozzo può essere inteso come una metafora, o più semplicemente il protagonista può essere considerato pazzo: deve essere il lettore a stabilirlo, e raccontare il "prima" gli avrebbe sottratto questa possibilità. Per questo ho preferito entrare direttamente nel vivo, gettando il Lettore nel turbine di follia di un uomo intrappolato in fondo a un pozzo, che per qualche oscura ragione aspetta un amico che in realtà è morto. Se lo abbia ucciso lui o se sia morto per altre cause è compito del Lettore deciderlo.
Ed é proprio per questo che mi é piaciuto cosí tanto! Continueró a leggerti senz'altro ;D
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