Roberto,
seduto al posto di guida, abbassò fino in fondo la frizione e girò la chiave di
accensione. Il motore si avviò senza protestare. Ascoltò il suo borbottio
sommesso provenire da sotto il cofano. Poi spense e scese, infilandosi le
chiavi in tasca.
«Quindi
l’auto non è in panne. Funziona. Perché qualcuno avrebbe dovuto lasciare su le
chiavi?» lo interrogò il controllore, con le mani affondate nelle tasche dei
pantaloni.
«Non
ne ho la più vaga idea» confessò il ragazzo, confuso.
«Antonio
De Franceschi. Nato a Venezia il quindici maggio millenovecentosessantaquattro.
Nel portafoglio ci sono due biglietti Trenitalia.
Uno andata e uno ritorno. La meta era Firenze. E quello di ritorno è stato
convalidato alla stazione di Firenze giusto stamattina» li informò Francesca
con in mano i documenti del proprietario dell’auto. «Qui dentro ci sono anche
trentacinque euro in banconote. Più spiccioli.»
«Stava
rimontando in macchina per tornare a casa» propose il controllore, camminando
avanti e indietro attorno alla portiera aperta. «Originario di Venezia, sì, ma
il nome del paese segnato sull’indirizzo mi pare di queste parti. Forse si è trasferito
qui dopo essersi sposato…»
«O
per lavoro» soggiunse Nicola, dopo essersi sonoramente schiarito la voce.
«Comunque
è salito in auto e ha appoggiato il portafoglio sul sedile laterale. Ha
infilato le chiavi e, sempre se non si era scordato di inserirlo prima di
prendere il treno per Firenze, ha tolto il freno a mano. Probabilmente stava
per chiudere la portiera e allacciarsi la cintura, quando è successo… qualcosa» andò avanti Roberto, la fronte
aggrottata e lo sguardo immerso in un flusso di pensieri impenetrabile.
«Non
ci vedo niente di buono» ammise il controllore, sospirando per l’ennesima volta
con rassegnazione. «Comunque, sarà meglio tornare al treno. Siamo fuori da un
bel pezzo, i passeggeri si staranno preoccupando.»
Nascosero
il portafoglio nel cruscotto e serrarono la portiera. Poi Roberto chiuse a
chiave. Se il proprietario della vettura fosse saltato fuori avrebbe di sicuro
cercato le proprie chiavi in stazione, e così li avrebbe trovati.
Attraversarono
di nuovo il salone silenzioso della stazione, con i passi che rimbalzavano
contro le pareti bianche scrostate dall’umidità. Quando giunsero in vista dei
vagoni trovarono la folla di passeggeri assiepata addosso al portellone
automatico del vagone uno. Molti altri si erano affacciati ai finestrini per
guardarli tornare. Uno, che sembrava aver preso in mano la situazione in loro
assenza, impediva ai curiosi di scendere attraverso l’unica apertura
spalancata.
«Grazie
al cielo siete qui. La gente non ne può più, ho fatto una fatica pazzesca a impedire
loro di scendere. A quest’ora saremmo dovuti arrivare a Firenze, ormai. C’è
molta tensione.»
«Grazie
per l’aiuto. Come ti chiami?» volle sapere il controllore. Era bravo a celare
l’inquietudine, osservò Roberto.
«Carlo»
rispose l’altro. Aveva i capelli neri a spazzola e gli occhi marroni. Il volto
appariva coriaceo, tutto d’un pezzo, come intagliato in un ceppo di legno.
«Sono un poliziotto. In ferie per due settimane con la mia famiglia, ci tengo
ad aggiungere. Tutti noi vorremmo sapere quando si potrà ripartire.»
Il
controllore distolse lo sguardo e lanciò un’occhiata fugace alla stazione,
soffermandosi sulla porta ancora aperta. Poi esaminò i binari in entrambe le
direzioni, come se aspettasse che un treno facesse la sua comparsa trionfale da
un momento all’altro.
«Vogliamo
scendere!» gridò qualcuno dall’interno del vagone. Carlo non si scompose.
Teneva le braccia allargate per bloccare l’ingresso, e nel frattempo fissava il
controllore in attesa di una risposta soddisfacente.
«Lascia
che vengano fuori, Carlo. Ma nessuno si allontani troppo. Voglio che stiano
tutti qui, attorno allo sportello del primo vagone. Prendano aria, si
sgranchiscano pure le gambe. Ma nessuno si sogni di prendere armi e bagagli e
filarsela, siamo intesi?»
«Perché
mai? Se il treno sostitutivo non arriva, ognuno è libero di decidere da sé come
proseguire il viaggio…» lo contraddisse Carlo, ma il controllore gli faceva già
cenno di no con la testa.
«Prima
dobbiamo vederci chiaro» spiegò, in tono grave. Si morse delicatamente il labbro
superiore, quasi in un moto di distrazione. «Ci sono alcune cose da capire, prima di lasciare che
ognuno si prenda la libertà di decidere dove andare. I telefoni della stazione
non funzionano. E qui attorno i cellulari non prendono, nemmeno sul tetto dell’edificio.
Inoltre… Ci sono altri dettagli di cui preferirei discutere con te in disparte, se puoi.»
Carlo
notò l’agitazione negli occhi del controllore e annuì, serio.
Roberto
si avvicinò. Nicola mosse un paio di passi più in là, come se non volesse prendere
parte alla conversazione. Quasi che preferisse tapparsi le orecchie e cantare a
squarciagola, piuttosto che essere costretto a riprendere in esame le
informazioni che già gli affollavano la mente.
Il
poliziotto annunciò ai passeggeri che potevano scendere dal vagone, ma che
dovevano rimanere lì attorno. «Nessuno si avvicini alla stazione, per ora»
aggiunse, e poi si scansò per permettere al vagone di vomitare fuori il suo
carico di persone ansiose.
«Adesso
parliamo» concluse Carlo avvicinandosi al controllore, e quest’ultimo scambiò
un’occhiata irrequieta con Roberto e accettò, cominciando a raccontare
innanzitutto del macchinista e della cabina di guida vuota, poi dell’automobile
aperta con le chiavi inserite e il portafoglio sul sedile del passeggero. Narrò
tutto a bassa voce, per non farsi sentire, e lasciò che anche Roberto
descrivesse quello che aveva visto nel parcheggio. Francesca li ascoltò in
silenzio.
Carlo,
quando ebbero finito, mostrò loro un’espressione terribilmente indifesa e
impaurita. «Mi sa che abbiamo un problema, allora. Perché uno dei passeggeri
dice di aver visto una persona qua fuori, dopo che il treno si è fermato.»
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