Lì davanti c’era un cavalcavia che passava sopra la
strada, un ponte sostenuto da grosse travi d’acciaio intrecciate che gli davano
in complesso un’immagine di ordine e di equilibrio. Pensò che, in fondo,
l’universo era dettato da leggi ordinate che conferivano equilibrio ad ogni
ente ed evento, e quel viadotto rifletteva perfettamente lo schema che regolava
il cosmo. Ma l’unica cosa che usciva da questo rigido modello, da questo saldo
scheletro che teneva in piedi tutto quanto, era la mente umana. La capacità
dell’uomo di pensare, di provare sentimenti ed emozioni, di desiderare,
rappresentava il solo punto di colore nell’omogeneità trasparente di
quell’immensa forza regolatrice che governava su tutto.
Aveva voglia di fuggire, ma non poteva muoversi. Era lì
che la musica lo aveva portato, e non aveva intenzione di disobbedire per la
prima volta in tutta la sua esistenza agli accordi che lo guidavano facendolo
brancolare nel buio. Una chitarra elettrica era uno strumento energico e
potente. Quando suonava, dava l’impressione di incendiare l’aria attorno a sé.
Doveva essere proprio quello il rumore sfrigolante che producevano i fulmini a
contatto con l’atmosfera, quello di una chitarra elettrica, e per questo
presagiva un evento che avrebbe oscurato tutti quelli già vissuti con la
propria immensa ombra tetra.
Da quando sua moglie l’aveva lasciato, dopo venticinque
lunghi anni di matrimonio votati a lavorare duramente per lei, per la casa che
avevano comprato, per la famiglia che avevano costruito – ormai i figli erano
abbastanza grandi da camminare con le proprie gambe per le affollate strade del
mondo – non si sentiva più se stesso. Aveva trascorso le ultime serate da solo,
stravaccato sul divano del salotto sopra il quale tante volte lui e sua moglie
avevano fatto l’amore, con una confezione da sei lattine di Heineken fredda come il polo nord nel
ripiano del frigorifero e il telecomando universale Sony piazzato a portata di mano tra i cuscini, a rimuginare sul
proprio passato e sui propri errori, mentre davanti ai suoi occhi acquosi e
spenti, nei quali non vibrava nemmeno uno smorzato accenno della vitalità che
li aveva sempre contraddistinti, scorrevano le mediocrità dei quiz show, dei
telefilm e dei notiziari, bombardandolo di immagini e suoni che non percepiva
nemmeno con un singolo brandello del proprio cervello.
C’erano stati molti altri avvenimenti, oltre all’incidente
di Ronnie nel bagno delle elementari e alla morte di Buddy, il cane dei vicini,
preso a bastonate nel loro giardino. Tutti eventi legati indissolubilmente alla
musica che avvertiva nella sua testa, a quei bui e misteriosi accordi che lo
travolgevano e gli sussurravano di seguirli attraverso le note, proprio come se
fossero delle parole.
Per esempio, c’era stata quella volta in cui aveva
iniziato ad udire il suono mesto e lineare di un violino. Le melodie si
ampliavano a mano a mano che crescevano di tono, e lui si era ben presto visto
costretto ad accontentare quella musica e ad andare dove lei voleva. Era uscito
di casa, piccolo ragazzino di dodici anni con un paio di pantaloncini corti,
maglietta senza maniche e scarpe da ginnastica, aveva attraversato la strada e
si era bloccato di colpo sul marciapiede dall’altra parte.
Il violino stava suonando una melodia lenta e struggente,
tremendamente malinconica, e ricordava ancora di aver provato un amaro senso di
vuoto in quell’occasione. Era lì che lo voleva, proprio in mezzo a quel
marciapiede, fermo ad osservare la strada, e a pochi metri dalla punta del suo
naso due auto erano cozzate repentinamente una contro l’altra, sfracellandosi e
ripiegandosi su se stesse come un’unica fisarmonica, quasi che due grosse mani
le avessero afferrate e schiacciate allo stesso modo in cui si pressano due
lattine di birra vuote.
Aveva intravisto gli sguardi impotenti dei due uomini
dietro i volanti, al di là dei parabrezza che in meno di una frazione di
secondo si erano trasformati in un laghetto di cocci di vetro che riflettevano
la luce del sole morente, e aveva pensato che il terrore era riuscito ad
accoglierli nell’abbraccio delle proprie ali nere solamente per pochi pallidi
istanti, senza permettere loro di rendersi conto di che cosa diavolo stesse
succedendo, cancellando semplicemente i loro nomi dalla lunga pergamena della
vita con una precisa e sottile pennellata di sangue.
Nemmeno due mesi dopo, il ritmico suono di un tamburo, di
quelli che gli indigeni delle tribù africane percuotevano per produrre le
musiche ipnotiche che accompagnavano le danze attorno al fuoco al calare delle
tenebre, aveva scandito i suoi passi e i battiti del suo cuore attraverso il
corridoio dell’ufficio dove lavorava papà, fino ad un’ampia vetrata oltre la
quale aveva visto la magra silhouette di un uomo d’affari con la valigetta in
mano gettarsi senza indugio dal tetto di uno degli edifici accanto e
sfracellarsi scompostamente sull’asfalto della strada reso bollente dal sole di
agosto.
E la sua vita era andata avanti così, in un’escalation di
terrore che lo aveva accompagnato fino ai sedici anni. Poi, la musica se n’era
improvvisamente andata, scomparendo nel nulla.
Per diversi mesi aveva atteso il suo ritorno, anche se
l’assenza di quella musica che gli provocava irrefrenabili batticuori e
incontenibili scatti d’ansia di certo non gli dispiaceva. I suoi genitori lo
sorprendevano a balzare in piedi spaventato ogni volta che accendevano lo
stereo o la radio, ma a poco a poco aveva cominciato ad abituarsi, e il ricordo
di tutti i brutti eventi si era diradato come una bustina di aspirina
effervescente lasciata scivolare delicatamente in un bicchiere colmo d’acqua
fresca.
Fino alla notte del suo matrimonio, rifletté ora senza
quasi farci caso.
Ripensare al giorno delle sue nozze gli fece percepire una
lama ghiacciata che gli penetrava il petto, e si figurò l’espressione
concentrata di Henry Sorton, il macellaio del supermercato dove aveva lavorato
un’estate intera, con il grembiule bianco sporco di sangue mentre gli strappava
il cuore dal petto e con uno dei suoi coltelli affilatissimi ne ricavava delle
fettine precise che andava immediatamente ad adagiare in ordine su una
vaschetta. L’immagine gli fece ritornare per un attimo la calma, inducendolo a
sorridere un pochino.
Anche Henry Sorton era morto sotto i suoi occhi, dopo che
la musica lo aveva invitato ad andarlo a trovare nella macelleria del
supermercato. L’omaccione era lì davanti a lui, dietro il banco dove stavano
impilate le vaschette della carne accanto alla macchina per fare il macinato,
alla segaossa e al marchingegno che serviva a coprire le confezioni con la
pellicola trasparente. Il suo grembiule bianco, vasto come un tendone, era
tutto spruzzato di sangue e interiora, e non riusciva nemmeno a fatica a
coprire l’enorme pancia prominente del macellaio. La mole di Henry Sorton gli
aveva sempre dato l’idea che fosse un buongustaio, finché suo padre non gli
aveva rivelato, una sera, che in realtà era l’effetto di tutte le birre di
troppo che si scolava al bar la sera.
In ogni caso, un potente assolo di batteria lo aveva portato
proprio lì, davanti al banco della carne, e Henry gli aveva dedicato un ampio
sorriso quando l’aveva visto arrivare. L’anno prima gli aveva dato una mano in
macelleria, come lavoretto estivo, e da allora in poi Henry lo salutava sempre
quando andava a trovarlo e gli concedeva qualche rara chiacchierata. Ma quel
pomeriggio, vedendolo dietro il banco, aveva provato paura, perché sapeva che
ogni volta che la musica lo portava da qualche parte succedeva sempre qualcosa
di brutto.
Henry stava tagliando del pollo, con una grossa mannaia
lucente, e il giovane non appena l’aveva visto si era subito accorto del
coltello lasciato con la lama all’insù sopra il bancone, accanto a dove stava
lavorando, e aveva aggrottato la fronte in segno di sorpresa, perché Henry non
era tipo da non notare queste cose.
Questi affari ti
fregano, non dimenticartelo. Mai
lasciarne uno con la lama rivolta verso l’alto: si fingono amici, quando ti semplificano il lavoro, ma appena ti
distrai non esitano un solo istante ad aprirti un bel taglio sul braccio. La lama va sempre poggiata di lato, e
sempre rivolta verso la parte opposta a quella in cui stai lavorando.
Ricordava quando gliel’aveva detto, non appena aveva appoggiato un coltello con
la lama verso l’alto sul bancone. In quell’istante avrebbe voluto gridare al
suo amico Henry che aveva dimenticato di poggiare la lama di lato, ma non ne
aveva avuto il tempo.
Il macellaio si era appoggiato al bancone con il braccio
per fare più forza sulla carne del pollo che stava cercando di liberare dalle
ossa, e la lama del coltello rivolta verso l’alto gli era penetrata nella pelle
come in un panetto di burro. Se n’era accorto quando ormai era arrivata quasi
dall’altra parte, e mentre il banco e il grembiule si imbrattavano del suo
sangue aveva allontanato il braccio con uno scatto deciso ed era piombato
dritto contro la segaossa sbadatamente dimenticata in funzione.
Aveva gridato, affacciato al bancone, mentre sul pavimento
della macelleria il sangue di Henry Sorton si mescolava a quello del pollo e i
clienti accorrevano allarmati a vedere cosa fosse successo. L’ultima memoria
ricollegabile a quel lontano pomeriggio era l’immagine di una moltitudine di
sguardi agghiacciati che lo circondava, poi i ricordi riprendevano con il
risveglio tra le coperte della sua cameretta l’indomani mattina.
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