Si ridestò, affiorando adagio dall’immobile superficie del
lago dei pensieri, e si ritrovò in quel marciapiede dov’era stato fino ad un
attimo prima, con quella chitarra elettrica che ancora gli sconquassava la testa
suonando accordi intensi e inebrianti. Un’auto gli passò lenta accanto, ma non
si fermò. I suoi fari facevano luccicare a malapena l’asfalto asciutto, e le
stelle continuavano a non fiatare, sospese nel vuoto come occhi bramosi di
udire il seguito della sua storia. Sospirò e continuò a ricordare, mentre
un’eco recondita farfugliava senza tregua: Venticinque
anni. Venticinque, maledizione.
Obbligò il dolore a gocciolare aspro all’interno delle sue
labbra, così da poterlo assimilare con più calma e riuscire a sopportarlo. Sì,
la musica era scomparsa dalla sua testa quando aveva compiuto sedici anni, e
tutto era ritornato alla piatta normalità di sempre. I campionati di baseball
erano andati avanti, succedendosi uno dopo l’altro. Le stagioni erano scivolate
via, gli anni di scuola erano stati snocciolati rapidamente, e lui aveva fatto
le sue esperienze, con l’alcol, con le macchine, con le ragazze, con le grandi
e piccole delusioni che la vita riserva sempre a ciascuno di noi.
Venticinque anni…
Venticinque anni prima si era sposato con Betty Loghan,
una ragazza pompon che aveva conosciuto durante l’ultimo anno di liceo, periodo
in cui giocava nella squadra di football per accaparrarsi un po’ di crediti
scolastici in vista della fine dell’arco di studi. L’incontro era avvenuto così
come quelle cose capitano sempre: lui, durante un allenamento, l’aveva vista
saltellare a bordo campo, le trecce lunghe e bionde che svolazzavano
all’unisono con la gonnellina colorata troppo corta, che lasciava intravedere
rapidi scorci delle mutandine. Si era subito informato su chi fosse, e il primo
sabato sera in cui l’aveva incontrata ad una festa si era fatto avanti e
l’aveva invitata ad uscire.
Avevano vissuto molti bei momenti, seguendo le varie tappe
che una storia d’amore cominciata al liceo non può non comprendere, e il tutto
era sfociato nel matrimonio. A quell’epoca lui non si ricordava quasi più della
musica che qualche volta, quand’era più piccolo, lo portava per mano a vedere
cose orribili. La riteneva solamente una sciocca invenzione dell’infanzia,
nulla più.
Ma dopo la prima notte di nozze era cambiato tutto. E la
musica aveva ricominciato a chiamarlo con il suo caldo e suadente tono di voce.
Quella notte, abbandonato tra le coperte del letto a
baldacchino dentro la camera d’albergo, sfinito dopo aver fatto l’amore con
Betty Loghan, l’ex ragazza pompon dalla gonnellina corta che quando saltava
faceva scorgere il bordo di pizzo delle proprie mutandine tra le belle cosce
vellutate, sul punto di assopirsi aveva cominciato ad udire delle note. Le
corde di un pianoforte.
Un pianoforte…
Dapprima la melodia era stata soffusa e armoniosa, come un
labile sogno, ma poi era cresciuta sempre più d’intensità, arrivando ad
invadergli la testa.
Aveva ricollegato quelle note di pianoforte alla musica
che lo coglieva in ogni momento durante la sua giovinezza soltanto dopo,
rimuginandoci sopra mentre fingeva di dormire accanto alla sua fresca sposa.
Un pianoforte…
Gli pareva che quei suoni provenissero dalla stanza
adiacente, e qualcosa dentro la sua testa gli diceva di uscire in corridoio a
dare un’occhiata. Aveva scostato delicatamente le coperte dal corpo nudo di sua
moglie, già piombata in un profondo sonno ristoratore, e si era alzato dal
materasso, dirigendosi verso la porta in punta di piedi e schiudendola un
momento per vedere che cosa stesse succedendo fuori, giusto lo spazio
necessario a consentire all’occhio di poter solcare uno stralcio di corridoio.
Era tutto deserto, e le luci tremolanti delle lampade
illuminavano le due file parallele di porte serrate che correvano fino alle
scale e agli ascensori sei o sette metri più in là. Una sola delle entrate era
rimasta aperta, e spiccava come una grande bocca spalancata sulla parete
ricoperta da una carta da parati di dubbio gusto.
I tasti bianchi e neri, percorsi da dita leggere, stavano
facendo vibrare le corde del piano proprio in quella stanza.
Era uscito nel corridoio, in silenzio, e sempre in punta
di piedi si era avvicinato all’uscio dal quale scaturiva quell’inesauribile
sorgente di note altisonanti. Si era appoggiato alla maniglia della porta e
aveva gettato uno sguardo all’interno. Si era sentito un po’ come un ladro, e
si era immaginato l’arrivo di un impiegato dell’albergo che lo coglieva di
sorpresa nell’atto di sbirciare dentro la camera di qualcun altro.
Ma ogni pensiero era stato sostituito da una cupa stretta
di terrore improvvisa, perché in fondo alla stanza era comparsa la magra figura
di una donna dalla pelle scolpita, il corpo scultoreo completamente nudo, i
lunghi capelli ramati che le ricadevano sulle spalle, la linea della silhouette
che si muoveva come sospesa nell’aria, i tondi seni che danzavano assecondando
i suoi movimenti, gli occhi color zaffiro e le labbra rosse come rubino, e le
note del pianoforte erano esplose in un impeto devastante. Era dalla bocca di
quella donna che usciva la musica, e i loro occhi si erano incontrati per
qualche istante e i loro sguardi, incrociandosi, si erano messi in contatto.
Poi, la donna si era voltata in direzione della finestra
e, senza esitazione, si era squarciata la gola con un coltello da cucina,
stramazzando a terra come un manichino senza vita, come una bambola di pezza
inanimata, come un mucchietto d’ossa tenute insieme con uno spago, il
bellissimo corpo nudo palpato dai freddi raggi della luna.
Aveva fatto ritorno rapidamente nella propria stanza,
sdraiandosi sotto le coperte accanto alla moglie e cercando di calmarsi perché
i palpiti del suo cuore avevano raggiunto la velocità con cui un esperto
batterista percuote il proprio strumento durante un concerto rock. La mattina
seguente la porta della camera dove la ragazza nuda si era tolta la vita era
chiusa, e l’unico segno di qualcosa che non andava erano i due poliziotti che
parlavano nella hall con il direttore dell’albergo, scena alla quale
fortunatamente Betty non aveva fatto caso.
Il viaggio di nozze era proseguito senza intoppi fino alla
fine, ed era stato bello, ma per tutto il tempo non era riuscito a togliersi
dalla testa quei vacui occhi color zaffiro fissi nei suoi. Al ritorno, la
musica aveva ricominciato a ossessionarlo.
Ogni tanto percepiva il suono di qualche strumento, lo
seguiva e si ritrovava a dover sostenere la vista di avvenimenti che avrebbe
preferito neanche conoscere. Venticinque anni. In venticinque anni ne aveva
viste di cotte e di crude. Una volta era passato un anno senza musica, un’altra
volta tre. Un camionista aveva investito quattro persone lungo una strada
statale, un’abitazione aveva preso fuoco con un’intera famiglia al suo interno,
un autobus era andato fuori strada ed era esploso addosso alle pompe di un
distributore di benzina, il tutto sotto i suoi occhi, e altre decine di
incidenti simili erano scorsi davanti al suo sguardo muto e sempre più
impassibile.
E adesso gli accordi di una chitarra elettrica impazzita
lo avevano trascinato lì, facendogli strusciare pigramente le suole delle
scarpe sulla superficie buia del marciapiede, e le stelle ascoltavano quella
musica e i suoi pensieri assorbendoli avidamente, tutto d’un fiato. Si preannunciava
un disastro particolarmente violento, e anche se non ne poteva più sarebbe
comunque rimasto a guardare, magari riflettendo ancora e ancora sul fatto che
dopo venticinque anni
(venticinque,
maledizione)
sua moglie, l’ex sexy ragazza pompon Betty Loghan, l’aveva
piantato in asso per andarsene a vivere per conto proprio.
Sapeva perché lo aveva abbandonato, ovviamente. Le sue
parole lo avevano fatto star male, ma tutto il dolore che provava derivava
direttamente da lui stesso, perché era stato lui, sebbene indirettamente, a
provocare quella rottura. Non posso più
farcela ad andare avanti così. Non
posso e non voglio farlo.
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