La notte scura risplendeva delle mille luci della città.
Era una visione mozzafiato, un panorama da far perdere la testa. Torreggianti e
imponenti edifici si innalzavano come offerte votive dedicate al cielo e alle
stelle, accolti con un pallido sogghigno dalla luna piena che sorvegliava e
presiedeva dal suo lontano trono posizionato al centro del firmamento.
L’uomo vestito di un abito bianco candido percorreva il
marciapiede facendo risuonare dei propri passi l’immobile silenzio della notte.
Sorrideva, ma non perché fosse contento. Sorrideva, ma dentro percepiva una
profonda tristezza. Sorrideva, sorrideva e camminava senza parlare, senza
vedere ciò che aveva davanti, senza udire il rumore ritmico dei propri passi
sull’asfalto, senza percepire il terreno solido che aveva sotto di sé. Gli
pareva di muoversi nel nulla, in una totale assenza di spazio o gravità, al di
fuori di ogni regola naturale esistente. Lui poteva tutto, era libero di fare
ciò che gli pareva. Allo stesso tempo, però, era vincolato, non poteva agire
secondo la propria volontà, avvertiva di essere manovrato da qualcosa che stava
al di sopra di lui, come un’inanimata marionetta mossa da fili invisibili, un
semplice pezzo di legno intagliato e colorato che veniva reso vivo dai giochi
delle dita di una mano.
Il battito d’ali di
una farfalla e il mondo viene sconvolto. Così ruotano i freddi ingranaggi
dell’esistenza divorati dalla ruggine.
Gli sembrava di aver letto questa frase da qualche parte,
in un libro di filosofia o qualcosa del genere. O magari l’aveva sentita
altrove? Poteva anche trattarsi di una citazione. Non ne era sicuro, perciò
preferiva non ipotizzarne la provenienza troppo alla leggera. In ogni caso, la
trovava quanto mai veritiera. Esprimeva non soltanto la sua condizione
personale, ma quella dell’intera umanità pensante.
Avvertiva degli accordi nel buio. Accordi di una chitarra
elettrica, una mano che correva veloce sulle corde e spandeva un’armonia antica
come il mondo, che appagava la sua mente per tutti gli sforzi che aveva dovuto
affrontare fino ad allora. Chiuse gli occhi e ascoltò in silenzio, fermo in
mezzo al marciapiede. Lo sapeva che quella musica non era nell’aria. Quegli
accordi si trovavano solo dentro di lui. Nelle tenebre della sua mente.
Osservò le stelle. Distingueva, tra quei mille occhi che
lo guardavano luccicando dal profondo dello spazio, le principali
costellazioni. Le aveva studiate per conto proprio, perché i segreti
dell’universo lo avevano sempre affascinato. Sapeva che quella sera non si
sarebbe verificato niente di particolare nella volta celeste, ma voleva
starsene lì a guardare le stelle ugualmente. Peccato soltanto per tutte le luci
della città che impedivano di scorgere bene l’intima immensità di quella cupola
scura e punteggiata di astri che sovrastava il mondo – ma, dopotutto, anche
quelle luci gli piacevano.
Gli accordi di chitarra erano cominciati quella sera
subito dopo cena, e aveva immediatamente capito che volevano che lui uscisse.
Ormai il linguaggio della musica non celava in sé più nulla di incomprensibile
ai suoi pensieri. Non sapeva perché li avvertisse, ma comprendeva che cosa
volessero da lui. Le note, lentamente, lo guidavano fin dove volevano che
arrivasse, e lì succedeva sempre qualcosa di imprevisto. Non sarebbe capitato
nulla nella volta celeste, ma lì, al centro della città, invece… Be’, questa
era tutta un’altra storia.
Gli capitava da quando aveva quattro anni, suppergiù.
Ricordava quando una volta, in terza elementare, durante una lezione di storia
aveva interrotto la maestra domandandole che cosa fosse quella musica e da dove
venisse. La maestra, con sguardo interrogativo, gli aveva chiesto di spiegarsi,
e lui le aveva risposto di mettersi in ascolto. Siccome nessuno aveva udito
nulla, la maestra si era preoccupata e gli aveva detto di andare in bagno a
sciacquarsi il viso. E quando lui si era ritrovato davanti allo specchio, in
bagno, era accaduta una cosa impensabile: all’improvviso, si era reso conto che
la musica nella sua testa aveva assunto un’intonazione vittoriosa, come se
venisse eseguita una marcia trionfale. La musica lo voleva lì per assistere a
qualcosa. E, infatti, un attimo dopo, il suo compagno di classe Ronnie, che
quel giorno nel registro figurava assente, se ne era uscito in tutta
tranquillità da uno dei bagni, completamente bagnato fradicio da capo a piedi.
«Ronnie, cos’è successo?» gli aveva domandato sorpreso con
la sua voce da ragazzino. Si era sporto oltre la figura dell’amico e aveva
intravisto che l’interno del bagno era tutto allagato, persino le pareti,
addirittura il soffitto.
«Il bagno è esploso»
si era limitato a biascicare confuso Ronnie, con gli occhi stralunati e lo
sguardo stranito. Ricordava che quella volta era scoppiato a ridere, e non gli
era importato poi molto se era stato mandato dal preside, il quale aveva
immediatamente convocato i suoi genitori. Non era stato lui a far esplodere il
bagno. Il bagno era semplicemente esploso
per conto proprio, e lui era arrivato lì giusto in tempo per godersi la scena.
Alla fine era stato scagionato, perché si era scoperto che
lo scoppio era stato causato da un problema con le tubature, e lui non poteva
assolutamente averci niente a che fare. Si era risparmiato una bella ramanzina
da parte dei genitori, che non aveva tuttavia tardato ad arrivare quando la
settimana successiva, alzatosi da tavola durante il pranzo e corso prontamente
fuori in giardino, spinto dagli accordi di una canzone sconosciuta che lo
faceva fremere, aveva ritrovato il cane dei vicini con la bocca sporca di
sangue riverso sul loro giardino, evidentemente vittima di qualcuno che l’aveva
sadicamente bastonato a morte.
In quell’occasione papà e mamma avevano davvero pensato
che fosse stato lui, perché quando erano usciti dieci minuti dopo lo avevano
trovato accucciato accanto alla bestia, e lì di fianco c’era un bastone
insanguinato, l’arma del delitto, che guarda caso veniva proprio dal loro
garage. Aveva spiegato di averlo lasciato fuori la sera prima, che non era
stato lui ad uccidere il cane. Aveva anche pianto, ma non era servito a nulla.
Alla fine avevano deciso di far sparire il bastone, assieme a tutte le prove
che potessero incriminarlo, e di dire ai vicini che non avevano idea di chi
fosse stato. Ma sarebbe stata l’ultima volta che l’avrebbero coperto, aveva
soggiunto papà con severa espressione ammonitrice.
Adesso, osservava le stelle, e aspettava che di nuovo
accadesse qualcosa. La musica l’aveva avvertito: di lì a poco si sarebbe
verificato un avvenimento assolutamente inaspettato, del tutto impensabile, che
a giudicare dagli accordi di quella chitarra elettrica solitaria gli sarebbe
rimasto impresso nella memoria per tutta la vita.
Era incredibile. Non riusciva a definire bene le
sensazioni che provava, eppure quella musica sembrava sussurrargliele direttamente
nelle orecchie, come se non vi fosse nulla di più ovvio al mondo. Era
terribile, con quella tristezza dentro, osservare ciò che lo circondava e
pensare che il mondo, nonostante tutto, andava avanti. E avrebbe continuato ad
andare avanti anche senza di lui, in fin dei conti, ma restava il fatto che lui
c’era, e non se ne sarebbe andato, malgrado un’insistente voce cupa che dentro
la sua scatola cranica gli suggeriva: falla
finita.
In mezzo agli accordi della chitarra si mescolarono le
strazianti urla di alcuni cani, che abbaiavano da uno dei cancelli delle tante
abitazioni che gli sfilavano vicino. Erano pastori tedeschi, dalla voce cava e
inflessibile. Latravano e gridavano, inserendosi perfettamente nelle note che
le corde pronunciavano con un tono più cristallino e infinitamente puro.
Osservò con aria assente tutto ciò che aveva attorno, per
non dire addosso: la strada, le auto che passavano, con le gomme perfettamente
aderenti all’asfalto, i volti che sfrecciavano al di là dei parabrezza, i sospiri
del vento che gli accarezzavano la pelle, gli alberi che li assecondavano
piegando le foglie e i rami al loro volere, gli edifici che si susseguivano
tutti uguali, opere di centinaia di uomini che li avevano costruiti dando loro
forma dalla materia che la natura aveva messo a disposizione. Sì, tutte le cose
che vedeva erano concrete. Ma anche la musica era concreta. E quel senso di
claustrofobia che provava, una morsa al cuore che gli adombrava la mente e lo
stordiva, non poteva che essere reale. Gli accordi gli facevano provare la
sensazione di un piacevole, tiepido, soffuso alito di vita. Ma forse era solo
un’emozione passeggera, che presto si sarebbe dissolta.
Gli faceva male vedere che tutto il mondo andava avanti,
perché il suo, di universo, quello che si trasformava incessantemente dentro la
sua testa, era stato sconvolto. Non dalla musica. No, quella musica che sentiva
era l’unica amica alla quale potesse affidarsi in un momento tanto carico di
tensione e di sofferenza. La musica lo stava portando dove nuove sensazioni
avrebbero sostituito per un po’ quelle tenebrose che lo stavano soffocando. Il
suo universo era stato distrutto da un’altra compagna che credeva gli sarebbe
rimasta accanto per il resto della vita.
Venticinque anni. Venticinque, maledizione! Non erano roba
da niente, anzi, al contrario, erano alla lunga una buona metà della sua vita. Venticinque. Avrebbe voluto piangere, ma
l’aveva già fatto, e le lacrime che aveva versato non l’avevano aiutato a stare
meglio. C’erano solo quegli accordi che si protraevano nel buio a dargli
veramente una mano. Le lacrime, perciò, era meglio tenersele da parte.
Eh già, qualcosa sarebbe successo di lì a poco, e
francamente non vedeva l’ora di scoprire di che cosa si trattasse. La chitarra
suonava, suonava e suonava, e lui sorrideva, sorrideva e sorrideva, falsamente,
tristemente, con un volto segnato dall’amarezza e, forse, anche dal rimpianto.
Non posso più
farcela ad andare avanti così. Non
posso e non voglio farlo.
Queste parole racchiudevano un significato ben più intimo
di quanto le sue lacrime potessero esprimere. Erano forse le ultime parole che
ricordava di lei. Tutto quello che era venuto dopo, immancabilmente, si era
diradato, sciogliendosi in un’uniforme nuvola purpurea che gli aleggiava nel cervello
senza posarsi da nessuna parte. Non posso
e non voglio…
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