L’aria di quella notte, gelida e pungente come un letto di aghi di pino adagiato in una cella frigorifera, mi sferzava il volto da tutte le parti. Ogni folata di vento giungeva inaspettata, alla stregua di una successione di lame provenienti da una legione di spade. Mi stringevo nel cappotto e andavo avanti, perché non mi potevo fermare. Avevo già capito che per me non ci sarebbe stata alcuna traccia di calore, quella notte.
Attraversai rapidamente la strada nello stesso istante in cui dalla sommità del campanile si propagava un’energica e funerea vibrazione metallica. Un unico rintocco cupo, come il battito finale di un cuore trafitto, segnò la mezzanotte e mezza.
Una falce di luna rossastra, estremità arrugginita di una vecchia roncola senza manico, mi guardò raggiungere in silenzio l’altro lato della strada e nascose la propria espressione malinconica dietro una nuvola di passaggio.
Trassi un profondo respiro e lasciai uscire l’aria in silenzio, decidendomi a proseguire. Dovevo farlo. Se non avessi varcato quella soglia fantasma, sarei rimasto intrappolato per sempre. Le idee ingabbiate nella mia mente mi avrebbero ucciso, tramutandosi lentamente in un veleno letale. Sarei stato calato in una bara e ricoperto di terra, e allora come avrei potuto allontanarmi da quella prigione eterna? Il mio sorriso sarebbe sopravvissuto in una fotografia sbiadita incollata ad una lapide, e tutto si sarebbe esaurito semplicemente lì. No, non lo potevo permettere. Dovevo andare avanti.
Percorsi il vialetto lastricato con maggiore sicurezza, passando tra le due file di cipressi piegati dal vento che come guardiani immortali proteggevano l’ingresso del regno dei morti. Lo scenario era perfetto per un bel film dell’orrore, pensai. Solo che non si vedevano telecamere lì attorno, né tantomeno registi irrequieti o sceneggiatori ubriachi. Non ero un attore, anche se mi sarebbe piaciuto potermi limitare a recitare una parte. No, quello che stavo per fare richiedeva molto più impegno. Molta più forza. Un’energia che forse non possedevo. Ma dovevo perlomeno provarci, no?
Raggiunsi il cancello chiuso e mi fermai, guardandomi intorno. Il rettangolo di terreno al di là di quel cancello era circondato da uno spesso muro di pietra alto due metri e mezzo. Scavalcarlo sarebbe stato impossibile, quindi avrei dovuto forzare la serratura. Il chiarore vago e diffuso che proveniva dall’interno era davvero lugubre, ma se non altro mi avrebbe aiutato ad aprire un varco.
Sondai attentamente le tenebre oltre il cancello. File e file di lumicini accesi scintillavano nell’oscurità, globi di fuoco giallastro che potevano essere candele o lampadine. Un odore indefinito, come di vegetazione morta, trapelava senza sosta attraverso le sbarre di ferro battuto. Odore di fiori appassiti, che avevano visto tempi di gran lunga migliori.
Mi sfilai di tasca il tagliacarte che avevo portato da casa e lo conficcai senza remore nella voragine oscura della serratura, premendo a fondo e lavorando pazientemente sui meccanismi di blocco. Uno scatto sonoro, pochi secondi più tardi, mi annunciò che la serratura aveva ceduto.
Spalancai il cancello cigolante e lo superai, muovendo i primi passi incerti sul sentiero di ghiaino candido che serpeggiava tra le lapidi immobili. Migliaia di occhi di persone morte mi fissavano da fotografie spente, tutte immancabilmente ravvivate da quei lumicini spettrali. Mi vennero i brividi, ma li soffocai con decisione e andai avanti, muovendomi nelle tenebre.
Il vento era ancora forte, e la notte gelida e pungente. La luna mi osservava, il silenzio mi schiacciava contro il suolo. La paura, per un attimo, divenne sensazione sconosciuta. Finché non sentii qualcuno bussare. E mi resi improvvisamente conto che non c’erano porte, in quel cimitero.
Tutto attorno a me si levò una macabra nenia di lamenti strozzati, di singhiozzi e di urla agonizzanti. Gli occhi mi si inumidirono di lacrime trattenute. Erano le idee morte, le idee morte che stavano per resuscitare. Tutte quante assieme, tutte in quell’istante, battevano i pugni sui coperchi delle bare, digrignavano i denti e graffiavano il legno delle casse dall’interno, cercando disperatamente di uscire.
Erano le mie idee imprigionate, che erano state sepolte in quel cimitero agghiacciante e stavano finalmente ritornando in vita. Una in particolare, alla mia destra, batteva già più forte di tutte le altre. E una mano pallida e morta emerse dall’erba incrostata di terra…
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