Era un lavoro schifoso e infame, tutto sommato. Un lavoro sfiancante e ingrato. Ma era il suo lavoro, e andava fatto.
Disseppellire i morti non era mai piacevole, e onestamente Beppe lo trovava anche un po’ macabro. Ma, d’altro canto, anche la stessa pratica della sepoltura poteva tranquillamente essere messa in discussione. Ormai, gli diceva qualche volta suo fratello più grande, si correva il rischio di rubare ai vivi tutto lo spazio rimasto per lasciarlo ai morti. Perché nessuno voleva vivere vicino a un cimitero, e il camposanto doveva essere ampliato ogni tre o quattro anni. Di nati ce n’erano sempre meno, riprendeva poi il fratellone di Beppe quando saltava fuori il discorso, ma i morti non finivano mai.
Dio, quant’era vero, pensò Beppe – chiaro diminutivo di Giuseppe – mentre metteva in moto l’escavatore. Per fortuna che c’erano poveri cani dimenticati come Toni Maculan, il proprietario della lapide sbiadita che aveva appena provveduto a rimuovere dal terreno. Riesumare i cadaveri dei morti i cui famigliari non avevano più rinnovato il pagamento della fossa era una faccenda triste ma necessaria. In questo modo, almeno, si faceva spazio per altri morti. Facendo spazio per altri morti si dava modo ad altri vivi di venire a piangerli, e si poteva perciò offrire consolazione alle persone rimaste. Era così che funzionava il mondo. A vederla da questa prospettiva, ragionò Beppe, quello che stava facendo era un servizio sociale ben retribuito. Tutto sommato, per quanto schifoso, infame, sfiancante e ingrato fosse quel lavoro, era pur sempre un lavoro.
Aveva già accuratamente transennato il rettangolo di terreno sul quale sarebbe andato a scavare per tirare fuori la bara di Toni Maculan, sepolto in un lontano millenovecento e qualcosa, anno reso illeggibile sulla lapide per via del tempo e delle intemperie che pazientemente si erano prodigate a cancellarlo. Al suo posto sarebbe stato infilato qualche vecchio morto per un infarto, un tumore, un ictus o chissà che altro. Era così che funzionava, lì dentro, e Beppe lo sapeva. La parte più importante del suo lavoro era essere capace di non dimenticarsi la distinzione tra i vivi e i morti. E, se possibile, riuscire anche a mantenere un pizzico di sanità mentale in vista di tempi “migliori”.
Iniziò a manovrare il braccio meccanico dell’escavatore e lo abbassò rapido in direzione del terreno, afferrandone un grosso boccone e strappandolo con decisione, adagiandolo qualche metro più in là. Non ci sarebbe voluto molto, con quell’aggeggio. Ricordava ancora gli anni in cui bisognava fare tutto quanto a mano, con le pale e la forza delle braccia. La tecnologia era stata indispensabile, da questo punto di vista. Ma forse lavorare di braccia rendeva più netta la linea di demarcazione tra chi si trovava fuori a scavare e chi si trovava dentro a farsi seppellire.
Boccone dopo boccone, la pala all’estremità del braccio meccanico dell’escavatore di Beppe divorò tutto il terriccio che ricopriva la tomba di Toni Maculan e lo vomitò poco più in là, dove in seguito sarebbe stato pronto ad essere recuperato.
Quando la profondità era pressappoco quella giusta, Beppe si calò nella fossa con la pala e ripulì tutta la terra rimasta sopra e attorno al legno marcio della cassa da morto. Quindi agguantò la corda lasciata sul margine della buca e la passò attorno alla bara, legandola poi all’estremità dell’escavatore. Tornò alla guida del macchinario e alzò il braccio meccanico, così da tirare su la vecchia cassa consumata, e appena fu arrivato a metà dell’altezza della buca il legno si frantumò e il coperchio si rovesciò a terra, capovolto.
«Porca puttana!» berciò Beppe, pensando che se don Luigi fosse stato lì in quel momento lo avrebbe rimproverato una buona mezz’ora per aver imprecato in un luogo consacrato.
La prima cosa che notò, scendendo dall’escavatore, furono i solchi profondi che segnavano la superficie altrimenti liscia dell’interno del coperchio della bara. Erano segni di graffi, non c’era ombra di dubbio. Tutt’attorno, come un macabro messaggio di vendetta, chiazze più scure indicavano antiche macchie di sangue raggrumato e oramai assorbito dal legno.
«Ma che cazzo…?» esordì Beppe, ancora una volta incurante degli ammonimenti di don Luigi che pendevano sulla sua testa, e nell’istante stesso in cui posò lo sguardo all’interno della fossa una nuvola di polvere si levò dalla tomba e lo circondò.
Quando la nube si fu a poco a poco diradata, di Beppe non rimaneva neppure l’ombra.
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