«Non ti preoccupare, Debbie» farfugliò il dottore con fare vagamente
spensierato, rivolgendo alla donna un mezzo sorriso. Da dietro le lenti spesse i
suoi occhi azzurro spento sondarono quelli dell’interlocutrice, scendendo
furtivamente a sogguardarle le curve messe in risalto dalle pieghe del vestito.
«Qui starà bene, vedrai.»
«Lo spero, Craig. Da quando è cominciata non è più stato lo stesso. E ora
che è ridotto in questo stato… Non lo so, spero soltanto che si possa
riprendere. E che possa ricominciare a scrivere come faceva prima» mormorò
Debbie con una lieve venatura di malinconia nella voce. Scrutò il volto tirato
del marito, percorrendogli gli occhi distratti. Charlie sembrava irrequieto. Si
mosse sulla sedia con aria agitata, spostando la testa da una parte all’altra
senza focalizzare la propria attenzione su di un punto preciso.
«Si è mai comportato in maniera violenta?»
«Chi, Charlie? No, non ha fatto male nemmeno ad una mosca. Un mese e
mezzo fa, più o meno, si è lamentato di non riuscire più a scrivere. Ha
ricominciato a fumare dopo dodici anni, capisci? E poi si è chiuso in se stesso
e ha smesso di parlare. Avrei dovuto portarlo qui già da qualche settimana, lo
so, ma credevo di poterla risolvere per conto mio…»
«È normale, Debbie. Fuma ancora?» s’informò il dottore, con il suo camice
bianco impeccabile, il suo sorriso artefatto e le sue rughe sepolte sotto un
generoso strato di fondotinta.
«Sì, ogni tanto si mette a boccheggiare e invoca una sigaretta. Lo
assecondo sempre, temendo di sbagliare…» confessò Debbie.
«E fai benissimo» la rassicurò il dottore, facendo l’occhiolino alla
piccola Erika che si nascondeva dietro le gambe della madre, osservando il
grande parco lussureggiante del centro di igiene mentale in cui i pazienti
girovagavano senza una meta precisa, tenuti d’occhio a debita distanza da una
schiera di colleghi di Craig.
«Sto diventando pazzo…» biascicò improvvisamente Charlie, come
ridestandosi da un coma durato mille anni. Sollevò la testa, quindi la fece
ricadere e fissò il pavimento.
Il dottore gli scoccò un’occhiata diffidente, rispondendo subito con un
altro mezzo sorriso stentato all’espressione rabbuiata di Debbie. «No, Charlie,
tu non diventerai pazzo…» lo tranquillizzò.
«Cos’è questa voce che viene dallo stereo?» balbettò Charlie, trasalendo
e cercando di alzarsi dalla seggiola sulla quale era stato fatto sedere.
«Tranquillo, Charlie. Non ti agitare. Io non vengo dallo stereo» cercò di
essere più diretto possibile il dottore, parlando al suo nuovo paziente in tono
deciso ma gentile.
«Che cosa può avere?» domandò Debbie, guardando Erika che si avvicinava
alle finestre spalancate della stanza. Fuori c’era un bel sole e il parco
appariva davvero meraviglioso. Perlomeno, il suo Charlie sarebbe stato
ricoverato in un posto piacevole. Questa consapevolezza aiutava a lenire almeno
in parte la sua tristezza.
«Così, su due piedi, è difficile dirlo» illustrò il dottore, senza
sbilanciarsi troppo.
«Depresso… Muoio… Muoio…» borbottò Charlie, riemergendo dal silenzio con
la sua voce impastata e scuotendo la testa di qua e di là.
«No che non sei depresso, Charlie. E non stai per morire. Mi prenderò
cura io di te» spiegò pazientemente Craig. Poi si girò a guardare Debbie e di
nuovo i suoi occhi scivolarono sulla scollatura della donna, quasi
inconsapevolmente. Debbie fece finta di non accorgersene. Craig era un amico di
vecchia data e il favore che le stava facendo era enorme. In quel momento lei e
Charlie non si sarebbero potuti permettere cure tanto costose, e se Craig non
le fosse venuto incontro non avrebbe avuto idea di come fare.
«Tu ed Erika state bene?» volle sapere il dottore, ritornando a sorridere
affabilmente.
«Certo, certo. Mia madre viene a darmi una mano quando non ce la faccio
con le faccende di casa. È un brutto periodo, ma so che lo supereremo. Grazie,
Craig…»
«A che cosa servono gli amici, altrimenti?» ribatté il dottore,
ammiccando bonariamente. I suoi occhi erano sempre fermi lì, sulle curve dei
suoi seni, ma a Debbie continuava a non dare troppo fastidio. Se Charlie fosse
stato cosciente, sapeva che si sarebbe arrabbiato. Ma adesso stava male, e
Debbie si sentiva in dovere di aiutarlo. Da quando aveva smesso di scrivere non
era più riuscito a dormire e a poco a poco si era ridotto in quelle condizioni.
Aveva paura che si lasciasse morire di fame, per questo aveva deciso di
ricoverarlo. Avrebbe voluto inseguire qualche altra soluzione, ma purtroppo
questa sembrava essere l’unica rimasta.
«Si... sigaretta» gorgogliò Charlie dalla sua sedia, tirando su uno
sguardo assente e indirizzandolo verso il vuoto, tenendo le labbra socchiuse.
Craig la interrogò con un’occhiata e lei gli concesse un cenno affermativo. Il
dottore fece comparire un pacchetto di sigarette dall’ampia tasca del suo camice,
ne prelevò una e la inserì con cura tra le labbra screpolate di Charlie, quindi
l’accese.
«Ecco, va meglio? Lo sai che fumare non ti fa per niente bene, Charlie? A
tua moglie Debbie non piace che fumi. Ti rimprovera spesso questo tuo vizio»
gli rammentò Craig mentre aspirava con calma la prima boccata. In risposta, la
bocca di Charlie produsse uno sgradevole rumore di risucchio.
Erika era là in fondo. Scrutava il cielo e le chiome luminose degli
alberi, lasciando che il vento le scompigliasse i capelli biondi con le sue
mani gentili. Debbie rivolse uno sguardo di riconoscenza al dottore che aveva
accettato di prendere in cura suo marito per la metà dei soldi che avrebbe normalmente
richiesto a qualunque altro paziente.
D’un tratto, Charlie strinse con forza i braccioli della sedia e inarcò
la schiena, brontolando una serie di parole sconnesse. La sigaretta ancora
accesa, fumata per metà, gli cadde dalla bocca e rimbalzò sul pavimento pulito
della stanza, lasciandovi una macchia di cenere nerastra. Craig si affrettò a
posargli le mani sulle spalle per tenerlo giù e tranquillizzarlo.
«Che cosa c’è, Charlie? Qualcosa non va?»
«Che cosa gli sta succedendo?» s’incupì Debbie, avvicinandosi al marito
per rassicurarlo con la propria presenza ma bloccandosi a pochi passi da lui,
indecisa se avanzare o meno.
«Non lo so» riconobbe Craig con fare dubbioso.
Charlie intanto continuava a muoversi, come se fosse stato immobilizzato
da due energumeni che intendessero legarlo e fargli del male. Sembrava un
cavallo imbizzarrito, e quest’immagine piacque davvero poco a sua moglie
Debbie.
«Mi sembri agitato, Charlie. Forse è meglio se ti porto un po’ fuori»
disse Craig. «Aiutami a spostarlo su quella sedia a rotelle» aggiunse poi
rivolgendosi a Debbie, che prontamente si riscosse dallo stato di torpore nel
quale era piombata. Avvicinarono la sedia a rotelle e fecero alzare Charlie con
estrema calma, evitando di compiere movimenti bruschi per non renderlo
maggiormente irrequieto. Completato il trasferimento, Craig si pose dietro la
sedia a rotelle e incominciò a spingerla verso il corridoio, oltrepassando la
soglia della stanza e spostandosi in direzione della porta a vetri che si affacciava
sull’immenso parco della clinica.
Debbie lo seguiva senza fretta, imitando la sua andatura blanda e
rilassata, tenendo la piccola e silenziosa Erika per mano.
«No… Fermo… Il. Il blocco. Il blocco dello scrittore!» esclamò Charlie,
rizzandosi nuovamente sulla schiena e ricadendo subito dopo sulla sua sedia a
rotelle.
«Come dici, Charlie? Il blocco dello scrittore?» ripeté il dottore
assumendo un tono di voce pacato e mellifluo, sforzandosi di mostrarsi sereno.
«Sì. È proprio da lì che è cominciato tutto quanto. Dal blocco dello
scrittore…» mormorò Debbie con sottile amarezza, tentando di non farsi vedere
troppo sconsolata dalla figlia che si guardava attorno senza aprire bocca.
«Capisco» annotò Craig continuando ad avanzare. La sedia a rotelle superò
la porta a vetri spalancata e il gruppetto uscì all’aria aperta, in una
gradevole mattinata di primavera che prometteva cielo sereno, temperature miti
e colori sgargianti.
«Io ed Erika andiamo, se per te fa lo stesso» annunciò Debbie dopo che si
furono inoltrati lungo il vialetto che serpeggiava in mezzo al parco. La quiete
era assoluta, in quel brandello di paradiso strappato ai fiumi di cemento e asfalto
della città, e tutto sommato Debbie era felice di poter lasciare suo marito
nelle mani di Craig. Era sicura che sarebbe stato bene, lì, e che avrebbero
fatto di tutto per metterlo a suo agio.
«Andate pure, nessun problema. Possiamo continuare la passeggiata anche
da soli» acconsentì il dottore scoccando un’ultima occhiata fugace al bel corpo
di Debbie e alle sue curve attraenti, sorridendo a lei e alla figlia.
«Grazie di tutto, Craig…»
«Figurati, per me è un piacere» replicò il dottore con il suo vasto
sorriso composto. Poi, tornando a scrutare il volto assente del suo nuovo
paziente, soggiunse: «Non ti preoccupare, Charlie. Ti rimetterò in sesto,
parola mia.»
Debbie si avvicinò al viso di suo marito e gli posò un bacio sulla
fronte. Sembrava spaventato. I suoi occhi erano distanti, velati dal terrore.
Chissà che cosa stava vivendo. Chissà cosa vedeva, cosa sentiva, cosa provava.
Lei, francamente, non osava neppure immaginarlo.
Craig osservò Debbie ed Erika allontanarsi per mano, varcare la soglia
della grande porta a vetri che si affacciava sul parco e scomparire all’interno
del corridoio della clinica. Ritornò a dedicarsi alla sedia a rotelle sulla
quale il suo paziente stava immobile, in uno stato di semicoscienza che avrebbe
fatto rabbrividire chiunque, e prese a camminare tranquillamente lungo il
vialetto che si snodava tra gli alberi e il verde, fischiettando un motivetto
che aveva in testa da quando si era svegliato quella mattina.
Svoltò alla prima curva e Charlie si agitò di nuovo, protendendosi di
lato e rischiando di cadere a terra. Craig intervenne fulmineo, affiancandosi
al paziente e bloccandolo prima che finisse sul vialetto lastricato e sbattesse
la testa. «Fermo lì, Charlie. Buono. Su, rimettiti a sedere. Magari più tardi
ti posso concedere un’altra sigaretta, prima di rientrare. E questo? Cos’è questo,
Charlie?»
Un foglietto di carta ripiegato gli era scivolato fuori dalla tasca della
giacca mentre si allungava nel tentativo di scendere dalla sedia a rotelle. Il
dottore si chinò a raccoglierlo e lo aprì con una certa curiosità, aggrottando
la fronte e inarcando le sopracciglia.
Il foglio di carta era completamente bianco. Solo in alto a sinistra
c’erano due righe scritte a macchina, e l’inchiostro pareva leggermente
sbiadito. Sulla prima c’era un’unica parola, distesa come un monito spettrale: sangue. Sulla seconda, invece, era
riportata una specie di ammissione di colpa: ho fatto del male a Debbie ed Erika. Più in basso, infine, tre
pallini rossi scintillavano opachi sotto la luce del sole. Sembravano tre
macchioline di sangue rappreso, e Craig decise che non voleva sapere di che
cosa si trattasse esattamente.
Appallottolò il foglio di carta senza pensarci troppo e lo lanciò in
aria, in direzione di un cestino della spazzatura accanto ad una panchina. La
carta stropicciata rimbalzò sul bordo del cesto e ricadde sull’erba, così Craig
fu costretto ad avvicinarsi per raccoglierla da terra e fare definitivamente
centro. Poi tornò da Charlie e riprese a spingere la sedia a rotelle come se niente
fosse, continuando a fischiettare sereno.
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