giovedì 26 aprile 2012

Il Blocco dello Scrittore - Parte 2

Quella notte, Debbie aveva seguitato a piangere ininterrottamente per delle ore. Dentro di sé Charlie continuava a sentirla, di sopra nella loro camera da letto, lontana. Avvertiva i suoi singhiozzi, percepiva l’umidità delle sue lacrime che impregnava l’aria. Stava seduto sul pavimento a gambe divaricate, in compagnia di quella dannatissima macchina da scrivere che non voleva saperne di sputare fuori una parola che fosse una. Si teneva la testa fra le mani perché gli girava un po’. Aveva iniziato a sentirsi veramente frastornato dopo il sesto… no, il settimo bicchiere di whisky che aveva mandato giù.
Non era bravo con i conti, ma il numero dei bicchieri se l’era tenuto in mente lo stesso. Tutto d’un tratto gli era parsa una cosa importante. Sette. Era un numero magico, simbolico, forse addirittura potente. Magari era per questo che gli girava la testa: non per il whisky, ma perché i bicchieri che aveva bevuto erano esattamente sette.
Aveva ridacchiato fra sé e sé, e la testa aveva preso a vorticargli attorno al collo come un uragano impazzito. Se l’era stretta ancora più forte tra le mani per fermarla, e in parte aveva funzionato. Ma adesso gli serviva un ottavo bicchiere per spezzare l’effetto, giusto? Una volta levato quell’incantesimo o maledizione che fosse, era certo che si sarebbe potuto rimettere a scrivere in tutta tranquillità.
Aveva già accuratamente spostato la scrivania nel corridoio appena fuori dalla porta dello studio, dopo che Debbie si era rifugiata in camera da letto tra le lacrime, e adesso nell’angolo dove un tempo si trovava la sua postazione di lavoro c’erano due bottiglie di whisky adagiate sul parquet. Si era alzato stancamente. Era andato a vuotarsi un bicchiere colmo fino all’orlo di liquore forte, era ritornato a sedersi davanti alla macchina da scrivere e aveva ingollato rapidamente tutto il liquido ambrato.
Sì, ora si sentiva meglio. Molto meglio.
Qualcuno aveva bussato timidamente alla porta non appena Charlie aveva posato il bicchiere vuoto sul pavimento accanto a sé. Non poteva essere Debbie, perché la sentiva piangere di sopra. Allora, doveva essere per forza…
«Papi?» aveva domandato una voce fievole e stentata. Sembrava inquieta, la piccola Erika. Forse spaventata. Quasi sicuramente preoccupata. Charlie aveva sbuffato sonoramente.
«Papi?» lo aveva chiamato di nuovo sua figlia, con la sua vocina da bambina di quattro anni ferma di fronte alla porta chiusa dello studio del padre, ansiosa per il silenzio del genitore e per il pianto ininterrotto della mamma.
«Che vuoi?» le aveva urlato contro Charlie, sospirando rassegnato. «Il papi sta lavorando, Erika! Sto cercando di scrivere un racconto, dannazione, lasciatemi in pace!»
Aveva udito un certo lavorio sulla maniglia, e la porta si era dischiusa adagio, facendo entrare nello studio un nuovo fascio di luce che aveva trafitto gli occhi e il cervello impolverati di Charlie, scindendo la nebbia che gli aleggiava dietro le palpebre e scalfendo i suoi pensieri bui.
«Che diamine, Erika, ti ho detto che sto lavorando!» aveva alzato la voce Charlie, tirandosi su da terra un po’ barcollante e raggiungendo la porta con fare malfermo. La piccola Erika lo aveva squadrato, sollevando il visetto tondo e gli occhi azzurri in un’espressione confusa, e il padre l’aveva spinta con forza verso il corridoio.
Era avvenuto tutto in un attimo, più o meno, ma nella testa di Charlie ogni fotogramma si era scolpito a fondo, dilatandosi, facendo assumere all’evento le sembianze della pellicola completa di un lungometraggio che non sarebbe mai e poi mai stato proiettato in una sala cinematografica degna di un nome tanto altisonante.
Erika aveva perso l’equilibrio ed era caduta all’indietro, protendendo le mani verso il papà in cerca di un appiglio che la potesse salvare. Era piombata a terra pesantemente e aveva battuto la testa sul pavimento. Le lacrime erano affiorate nei suoi occhi prima ancora che fosse del tutto distesa: non tanto perché era caduta e si era fatta male, quanto piuttosto perché era stato il suo papà a farle questo. Era scoppiata a piangere e Debbie era comparsa immediatamente sulle scale, terrorizzata. Aveva visto la bambina a terra, le si era lanciata addosso e l’aveva fatta rialzare, aveva scoccato un’occhiata d’odio al marito tra le lacrime e si era girata dall’altra parte, trascinando Erika verso la porta di casa.
La piccola si era voltata a guardare il papà per l’ultima volta, in cerca di uno sguardo di dispiacere che non aveva trovato. Gli occhi di Charlie erano semplicemente vacui, velati di foschia, e dopo che la porta si era chiusa Charlie era rimasto solo. Veramente solo, questa volta.
Quanto tempo era passato da tutto questo? Quattro, cinque settimane? E il blocco era ancora lì, pesante come un macigno sulla sua anima fragile. Un gigante di fianco ad un nano, se messo a confronto con l’emicrania che la sbronza della scorsa notte gli aveva scatenato. Era ubriaco anche quella notte in cui sua moglie e sua figlia se n’erano andate? Non ne era più tanto sicuro. Da allora, però, e di questo era certo, si era ubriacato ogni singola notte. E il sonno si era fatto sempre più tormentato, le percezioni più annebbiate, gli incubi più macabri e confusi.
Debbie ed Erika non si erano più fatte vedere né sentire da quando lo avevano abbandonato. Non un colpo di telefono, non un biglietto sotto la porta… Non erano neppure tornate a prendersi la roba da vestire. Probabilmente, era arrivato a concludere Charlie, si erano trasferite dalla madre di Debbie, che tanto lo detestava quando si erano sposati e che adesso, a maggior ragione, doveva odiarlo ancora di più. Ma scoprì che in fondo nemmeno questo gli importava. Perché loro se n’erano andate, forse per sempre, ma il blocco dello scrittore era rimasto con lui, a fargli compagnia, a torturarlo con la sua muta assenza di parole e la sua scricchiolante masticazione di idee.
Non era giusto. Il suo studio puzzava di whisky. Lui puzzava di whisky, e anche i fogli che giacevano inermi tra le sue gambe, le bozze, gli appunti e le prime stesure di alcuni capitoli dell’ultimo romanzo che aveva incominciato prima che il suo talento andasse in letargo. Non sapeva quando avesse versato whisky su quelle pagine, di preciso. Ciò che più contava era che parevano ancora leggibili, anche se non poteva dirlo con assoluta certezza perché era troppo buio per distinguere le lettere d’inchiostro su quell’informe superficie bianca.
Registrò soltanto superficialmente di non indossare i vestiti. Aveva dormito? Aveva sognato? Un altro incubo, magari, rifletté con una certa difficoltà. Un altro incubo di quelli che mi vengono quando non riesco a scrivere, quando non riesco a versare i miei stati d’animo sulla carta. Come accidenti posso fare a liberarmi degli incubi, se non mi è data la possibilità di scrivere? Io devo scrivere, maledizione! Devo farlo, se voglio riprendere a vivere e a dormire!
Non era mai stato bravo a convincere se stesso di qualcosa, così come non era mai stato bravo con i conti. E anche stavolta, come sempre, non funzionò. La molla non scattò in lui. La scintilla non si sprigionò nelle tenebre. Il vetro della lampadina continuò a luccicare debole e distante nell’oscurità della sua mente, freddo e spento.
La necessità di riprendersi era sempre più impellente, eppure non riusciva ad emergere da quel bozzolo di muffa stantia che lo avvolgeva. Vedeva la luce oltre il velo della superficie, allungava le mani per raggiungerla e invece di afferrarla sprofondava sempre più giù, nell’abisso del blocco dello scrittore, un pozzo nero e senza fine che precipitava la sua anima in uno stato di annullamento quasi totale. Mente sterile, anima fragile. Si frantumava come un calice di cristallo. Il tintinnio dello sgretolamento riecheggiava nella sua scatola cranica e nello studio che puzzava di whisky e di fumo. Era quasi assordante, pur essendo silenzioso. E forse era proprio il silenzio a fargli male ai timpani, perché rimbombava con assoluta crudeltà attorno a lui e, soprattutto, dentro di lui.
Si alzò e uscì dalle tenebre rancide del suo studio, coprendosi il viso con una mano e andando alla disperata ricerca di uno stereo. Lo trovò, prelevò dalla mensola del salotto un disco a casaccio e rientrò nel suo rifugio creativo. Inserì il disco, aumentò il volume al massimo e attese. Un imponente ruggito gli fece vibrare la pelle. Il grido di battaglia di una chitarra elettrica. Musica rock, sempre in grado di fugare ogni silenzio e di riempire ogni voragine. Ci voleva proprio, un po’ di musica rock che esorcizzasse il vuoto.
Debbie glielo aveva sempre detto. Glielo aveva sempre detto, che prima o poi avrebbe messo la famiglia in secondo piano e avrebbe innalzato la scrittura al di sopra di tutto il resto. Lo sapeva, Debbie, che scrivere per lui era la cosa più importante che ci fosse al mondo. Ma allo stesso tempo lo temeva, anche se già lo sapeva. Aveva paura che se ne accorgesse anche lui, che registrasse quest’arida verità e la tramutasse in realtà. Ma, alla fine, non era stato lui a farlo: era stato il suo diabolico blocco dello scrittore a mandare in malora tutto quanto, a distruggere il suo matrimonio e dilaniare i suoi pensieri, a renderlo un uomo dalla mente sterile e dall’anima fragile. Era tutta colpa del blocco dello scrittore. E adesso Charlie non poteva fare altro che assistere da solo ai tremendi effetti, incapace di scrivere e incapace di riprendersi in mano la sua vita.
Forse un po’ me lo sono anche meritato, ragionò tra sé e sé mentre riprendeva in mano i fogli macchiati di whisky che aveva posato accanto alla macchina da scrivere. Forse Debbie aveva ragione, forse lei sapeva fin dall’inizio che sarebbe stato inevitabile e lo aveva messo in conto da subito, da quando aveva pronunciato quel fatidico che ci ha incatenati l’uno all’altra per l’eternità.
Debbie sapeva che sarebbe finita così, lo sapeva dal giorno in cui si erano sposati. Anzi, forse lo sapeva ancora prima, perché già mentre convivevano gli aveva detto che non avrebbe acconsentito a diventare sua moglie se prima non le avesse promesso che la scrittura sarebbe stata sempre al secondo posto, dopo la famiglia. Lo sapeva, d’accordo. Ma allora perché l’aveva sposato? Perché gli aveva detto sì, se già dal principio era consapevole del fatto che il loro matrimonio si sarebbe presto esaurito in quella maniera atroce?
Perché mi amava. Anzi, perché mi ama. Ma adesso mi sono bruciato tutto quanto, ogni possibilità di perdono. Sono solo, sono ubriaco e non riesco a scrivere. Il mio matrimonio è finito e le persone che amo mi hanno abbandonato. Il blocco dello scrittore ha avuto la meglio su di me, ha ottenuto quello che cercava di conquistare ed è rimasto ancora qui per godersi lo spettacolo, per succhiarmi via le ultime energie che mi restano prima di crollare.
Scrivere era sempre stato indispensabile, per Charlie. Una necessità, una priorità assoluta, perché solo scrivendo era capace di tenere a bada i ricordi, gli incubi e le emozioni che ogni notte si trascinavano appresso un enorme vagone di sofferenza che lo poteva travolgere da un momento all’altro. Solo scrivendo poteva scaricare quei ricordi, quegli incubi e quelle emozioni che altrimenti lo avrebbero fatto morire dal dolore, e solo scrivendo era in grado di sentirsi in pace con se stesso. Scrivere lo aiutava a liberarsi di quelle ombre e di quelle presenze che gli oscuravano il futuro, di quelle voci che gli sussurravano che non esisteva domani per un uomo come lui. E adesso che non riesco più a scrivere, che domani ci può essere per me? Soltanto l’oblio.
Scrivere non era soltanto utile, per Charlie: era necessario, e se non si fosse svuotato al più presto di tutto il carico emotivo che lo opprimeva sarebbe sicuramente imploso e la sua mente si sarebbe rifiutata di continuare a lavorare, spegnendosi come un vecchio televisore a tubo catodico.
I suoi romanzi riscuotevano ancora un certo successo, anche se la loro eco si stava a poco a poco affievolendo. Non avevano mai raggiunto le vetrine delle più grandi librerie o le scrivanie dei più importanti editori, certo, ma se non altro gli avevano garantito un’esistenza tranquilla e serena. Fino ad ora. Ma adesso che non riusciva più a scrivere, che cosa avrebbe fatto? Non aveva mai venduto abbastanza copie da garantirsi lo stile di vita di un artista famoso, ma se non altro era riuscito a mantenersi in maniera tutto sommato decorosa. Avrebbe dovuto trovarsi un lavoro, adesso. E quando avesse iniziato a lavorare, dove lo avrebbe trovato il tempo per scrivere? Gli sarebbe rimasta soltanto la sera, ma probabilmente si sarebbe sentito troppo stanco per mettersi dietro la macchina da scrivere. E lo stesso valeva per i fine settimana, naturalmente.
Che fine avrebbe fatto l’immortalità letteraria che sognava fin da ragazzino? Avrebbe dovuto accantonarla e poi stracciarla, di sicuro.
Ma esiste davvero l’immortalità letteraria, oppure è soltanto una chimera? Non era la prima volta che si poneva questo punto interrogativo. Ma, in compenso, fu la prima volta in cui si diede una risposta. Una vera risposta, che lo lasciò perplesso e gli fece avvertire dentro di sé una sensazione di vuoto talmente incolmabile da fargli un male d’inferno.
L’immortalità letteraria assoluta, quella proclamata dai grandi poeti e inseguita dagli scrittori di tutti i tempi, non esisteva. Era soltanto un’invenzione, una bugia che i narratori sfoggiavano con se stessi per giustificare il loro bisogno di raccontare. Perché il loro nome, così dicevano, sarebbe vissuto in eterno, camminando sui secoli e sui millenni, richiamando ancora, dopo un’infinita serie di generazioni, le opere che avevano costruito, le storie che avevano narrato, le emozioni che avevano suscitato. Quelle opere che li avrebbero resi immortali.
Ma Charlie, nella sua mente, rovesciò tutto questo: presto o tardi, il tempo degli uomini si sarebbe consumato. Il genere umano sarebbe andato incontro ad un’inevitabile estinzione, e allora anche il suo nome, assieme a quello di tutti i grandi della storia, sarebbe scomparso. Il sole, entro cinque miliardi di anni, si sarebbe ingrossato fino ad inglobare il mondo, e allora nessuna cassaforte, nessuna bara, nessuna grotta e nessuno scrigno avrebbe preservato le pagine degli scrittori dalle fiamme. E lì sarebbe stata segnata la definitiva mortalità letteraria di ciascuno di loro. Lui stesso, dunque, non poteva aspirare all’immortalità. Nessuna parola sarebbe sopravvissuta per sempre. Il suo nome, prima o poi, sarebbe stato cancellato.
E allora che senso aveva sacrificare la vita, l’amore delle persone care e tutto il tempo che gli restava per scrivere?
Ha senso, perché se non scrivo non posso andare avanti. Non posso semplicemente vivere o dormire o respirare, se non butto fuori tutto quello che ho dentro. Se non scrivo, impazzisco.
Forse era proprio questo il sintomo finale del blocco dello scrittore, il suo apice: la pazzia. Se era vero, allora voleva dire che il blocco stava inesorabilmente avendo la meglio sulla volontà di Charlie. Era solo questione di qualche altro giorno, e se non fosse riuscito a rimettersi a scrivere sarebbe scivolato irreparabilmente nel baratro della follia. Una volta là dentro, nemmeno nuotando con tutte le sue forze sarebbe più riuscito a riemergere in superficie.
(No, Charlie, tu non diventerai pazzo…)
Charlie trasalì, ponendosi in ascolto mentre un brivido gli percorreva il corpo tamburellando dita gelide sulla sua pelle accapponata. Era uscita dallo stereo quella voce cupa e funerea, non è vero? Sì, non poteva che essere venuta da lì. Altrimenti, come avrebbe fatto una voce umana a sovrastare la musica? Aveva messo il volume al massimo, sicché non sarebbe riuscito a sentire neppure se stesso gridare al di sopra dei potenti accordi di chitarra elettrica.
(Tranquillo, Charlie. Non ti agitare. Io non vengo dallo stereo.)
Risposta più che soddisfacente, fornita da una voce che pareva in fondo in fondo plausibile. Ma non poteva essere vera, quella voce, perché restava il fatto che non si sarebbe potuta percepire così distintamente a causa della musica. Perciò, doveva essere uno scherzo, una frase registrata sulla traccia del disco dal gruppo che l’aveva composta. Ma non ricordava di averla mai sentita prima di allora. Inoltre, lo aveva chiamato proprio con il suo nome. Lo aveva chiamato Charlie!
Ecco la prova che sto diventando matto. Sento le voci, e questo è sicuramente un effetto causato dalle emozioni represse che non riesco a scaricare scrivendo. L’assedio del blocco dello scrittore sta dando i suoi frutti. Prima la famiglia, poi la ragione. Che cos’altro potrà portarmi via?
La risposta più ovvia era solamente una: la vita. Ma non credeva che sarebbe veramente morto per via del blocco. Certo, c’erano buone possibilità che cadesse in depressione. Anzi, quasi sicuramente era già depresso, ma ancora non lo voleva accettare.
(No che non sei depresso, Charlie. E non stai per morire. Mi prenderò cura io di te.)
Dannazione, da dove accidenti veniva quella voce? Charlie si rialzò in piedi, dirigendosi verso lo stereo a passi stentati e cercando la bottiglia di whisky che aveva aperto quella mattina. La individuò nell’angolo in cui stavano ancora ammassati tutti i fogli di carta stropicciati che aveva ammonticchiato nei vani tentativi di scrittura delle ultime settimane. La sollevò e controllò quanto liquore fosse rimasto. Ce n’era poco, ma se lo sarebbe fatto bastare. La dispensa era quasi vuota, di alcolici ne rimanevano due, forse tre bottiglie al massimo.
Un frastornante assolo di chitarra elettrica gli sconquassò la testa con fare perentorio. Charlie si portò il collo della bottiglia alla bocca e ricominciò a bere, facendosi scorrere giù per la gola quel fuoco liquido e oleoso che gli risvegliò per un attimo tutti i sensi, anestetizzando subito dopo ogni sentore d’ansia o di smarrimento.
Meglio, sì, così va meglio. Fece per cercare un pacchetto di sigarette nella tasca dei pantaloni, ma essendo nudo trovò soltanto il contatto con la pelle della propria coscia. Ridacchiò e si abbassò sulla macchina da scrivere, cercando a tentoni le sigarette sul pavimento. Dopo aver tastato un mozzicone e averlo scagliato lontano, contro la parete, ne localizzò una sfusa e per poco non scivolò sull’accendino dimenticato accanto ai fogli imbrattati di alcol. Si rimise in piedi barcollando leggermente e si appoggiò ad una parete per ristabilire un po’ di equilibrio. Accolse la sigaretta tra le labbra screpolate, la lasciò penzolare nel vuoto e la accese distrattamente, traendo la prima boccata con un mezzo sospiro di sollievo.
(Ecco, va meglio? Lo sai che fumare non ti fa per niente bene, Charlie? A tua moglie Debbie non piace che fumi. Ti rimprovera spesso questo tuo vizio.)
La voce era tornata. O non se n’era mai andata. Era difficile per Charlie, in quel momento, stabilire quale delle due alternative si avvicinasse maggiormente alla realtà. La brace della sua sigaretta ammiccava nelle tenebre, faceva l’occhiolino alla macchina da scrivere e si accendeva e si spegneva nello studio buio come le luci di stop di un’automobile. Le pupille di Charlie luccicavano di un bagliore sinistro ad ogni sprazzo di scintille rossastre, ma l’alcol che gli fluiva allegramente nel sangue rendeva il tutto decisamente meno inquietante dal suo punto di vista.
Scorse un’ombra muoversi di soppiatto davanti a lui. Sobbalzò e indietreggiò di un paio di passi, rendendosi conto solo dopo qualche secondo di avere le spalle premute contro la parete. Si fermò e sogguardò l’oscurità con crescente agitazione, alla ricerca dell’ombra più nera del buio che gli era appena passata davanti come se nulla fosse.
Fu in quel momento che un sussurro gli occupò il cranio in maniera violenta, spazzando via ogni altra percezione e sedendosi da padrone al centro del suo cervello. Era un’idea, finalmente. Un frammento d’idea, e per poco Charlie non esultò per l’emozione. L’idea tanto attesa era arrivata, l’ispirazione era tornata, il suo talento non si era dissolto nel nulla delle parole morte!
La musica era ancora altissima e sovrastava ogni altro rumore. Charlie finì in fretta di fumare la sua sigaretta e schiacciò il mozzicone nerastro sulla parete dietro di sé, lasciandovi una macchia di cenere che nemmeno Debbie sarebbe stata capace di fare andar via senza ritinteggiare l’intero studio da capo a piedi. Si riavvicinò alla macchina da scrivere e si accomodò di nuovo sul parquet sempre più ruvido e sempre più freddo, sollevando le dita sopra i tasti per mettersi a battere quelle quattro parole che improvvisamente lo avevano folgorato. Con le mani a mezz’aria, pronto ad imprimere sulla carta le lettere d’inchiostro che avrebbero sciolto le catene del blocco dello scrittore e lo avrebbero liberato, Charlie sgranò gli occhi e gridò, rialzandosi in piedi di scatto e facendosi prendere dal panico.
Terrore e orrore si mescolarono all’alcol che aveva ingerito, insinuandosi nelle sue vene e generando un cocktail aspro e micidiale che lo fece tremare.
(Che cosa c’è, Charlie? Qualcosa non va?)
Sì, maledizione, proprio così. C’è qualcosa che non va, qui dentro, e non è l’odore di alcol né tantomeno quello di tabacco. Si tratta di un altro odore che fa da sottofondo a tutti gli altri, un odore acre e penetrante, ferroso, che non mi piace…
E la sua macchina da scrivere gli disse esattamente che cos’era quell’odore. I tasti sembravano corrosi dalla ruggine. Sul foglio inserito nel carrello c’era un’unica parola, scritta in minuscolo, che campeggiava in alto a sinistra come un monito spettrale: sangue.
Non era ruggine, quella materia rossa e viscosa che colava sui tasti della sua macchina da scrivere. Era sangue. La sua macchina da scrivere era tutta sporca di sangue, e Charlie rendendosene conto inciampò sui propri piedi e cadde all’indietro, battendo la testa a terra, esattamente com’era successo alla sua piccola Erika l’ultima volta che l’aveva vista, quella sera in cui l’aveva spinta via e le aveva fatto male. Riportò gli occhi sul foglio di carta dietro la macchina da scrivere e lesse una nuova frase, stampigliata proprio sotto la parola sangue: ho fatto del male a Debbie ed Erika. Urlò, e l’aria gli uscì dai polmoni come una vampata di fuoco.
(Mi sembri agitato, Charlie. Forse è meglio se ti porto un po’ fuori.)
Fuori dove, accidenti? Fuori dove?
Fuori di testa, ecco dove. Quella voce non lo stava mandando fuori di testa, lo stava portando fuori di testa, e c’era una bella differenza della quale Charlie si rendeva conto piuttosto bene.
Era la voce del suo personale blocco dello scrittore, e Charlie lo sapeva. Allo stesso modo in cui Debbie sapeva da sempre che tra loro sarebbe finita in quel modo. Aveva perso sua moglie e sua figlia, perché non era stato abbastanza forte da reagire al blocco e da rispolverare l’ispirazione che dentro di lui appassiva. L’immortalità letteraria era una menzogna, e il suo immenso bisogno di scrivere non sarebbe mai più stato soddisfatto.
Era suo quel sangue sui tasti della macchina da scrivere? Probabile. Afferrò con dita tremanti una sigaretta dal pavimento e la accese, ma dopo due boccate gli cadde a terra e si spense nel buio. Allora andò in cerca in giro per lo studio di una bottiglia di whisky non del tutto vuota, e quando la scovò se la piantò in bocca, giù per la gola, e aspettò che tutto il liquido incendiario gli si fosse stabilizzato a dovere nelle budella fumanti.
Aveva un tremendo mal di stomaco e la testa gli girava come una trottola infuriata. La musica rock a tutto volume gli martellava i timpani col suo ritmo inebriante, inarrestabile. Se si fosse lasciato guidare dalla musica, magari sarebbe ritornato tutto quanto a posto. Oppure sarebbe crollato inerme in quello studio buio, lasciandosi morire.
(Come dici, Charlie? Il blocco dello scrittore?)
Ancora quella voce. Ma da dove veniva? Chi stava parlando, se nel suo studio c’era soltanto lui?
Due occhi si misero ad osservarlo dalla parete di fronte, attenti, indagatori, immobili. Lo scrutarono con incredibile pazienza, sondando il suo sguardo annacquato. Erano due tizzoni ardenti, due occhi insanguinati, le braci accese di due sigarette che emanavano fumo nelle tenebre. Si chiusero e si riaprirono, avvicinandosi quasi impercettibilmente.
Era la fine, e Charlie lo capiva. Solo che avrebbe voluto avere più tempo per cercare di porre rimedio agli errori commessi. Ma Debbie ed Erika se n’erano andate, e il suo talento si era consumato rapidamente, come le pastiglie dei freni di un’auto da corsa. Il suo nome si sarebbe estinto con il genere umano, e tanti saluti a quell’immortalità letteraria che sognava da ragazzo, una chimera fasulla, una bella ammaliatrice che lo aveva ingannato con un bacio, promettendogli di concedersi completamente ai suoi desideri, e poi lo aveva lasciato sul marciapiede, nudo e speranzoso, ancheggiando altrove.
(Non ti preoccupare, Charlie. Ti rimetterò in sesto, parola mia.)
Quando le due braci di sigaretta furono a pochi passi da lui un’enorme bocca si spalancò davanti ai suoi occhi tremolanti, la bocca di una bottiglia che lo circondò, lo superò e si richiuse sulla sua figura esile, inghiottendolo e divorandolo come una notte troppo densa sopraggiunta all’improvviso.
Charlie si sentì risucchiare da una strana sensazione di bruciore che gli si strofinò su tutta la pelle del corpo. La musica si spense, i giramenti di testa si interruppero, lo stomaco smise di pulsare. Soltanto un calice di cristallo, nel silenzio, si infranse contro le pareti della sua mente, sgretolandosi con un limpido tintinnio uniforme. E poi fu tutto buio, finalmente.

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