Quella notte, Debbie aveva seguitato a piangere ininterrottamente per
delle ore. Dentro di sé Charlie continuava a sentirla, di sopra nella loro
camera da letto, lontana. Avvertiva i suoi singhiozzi, percepiva l’umidità
delle sue lacrime che impregnava l’aria. Stava seduto sul pavimento a gambe
divaricate, in compagnia di quella dannatissima macchina da scrivere che non
voleva saperne di sputare fuori una parola che fosse una. Si teneva la testa
fra le mani perché gli girava un po’. Aveva iniziato a sentirsi veramente
frastornato dopo il sesto… no, il settimo
bicchiere di whisky che aveva mandato giù.
Non era bravo con i conti, ma il numero dei bicchieri se l’era tenuto in
mente lo stesso. Tutto d’un tratto gli era parsa una cosa importante. Sette. Era un numero magico, simbolico,
forse addirittura potente. Magari era per questo che gli girava la testa: non
per il whisky, ma perché i bicchieri che aveva bevuto erano esattamente sette.
Aveva ridacchiato fra sé e sé, e la testa aveva preso a vorticargli
attorno al collo come un uragano impazzito. Se l’era stretta ancora più forte
tra le mani per fermarla, e in parte aveva funzionato. Ma adesso gli serviva un
ottavo bicchiere per spezzare l’effetto, giusto? Una volta levato
quell’incantesimo o maledizione che fosse, era certo che si sarebbe potuto
rimettere a scrivere in tutta tranquillità.
Aveva già accuratamente spostato la scrivania nel corridoio appena fuori
dalla porta dello studio, dopo che Debbie si era rifugiata in camera da letto
tra le lacrime, e adesso nell’angolo dove un tempo si trovava la sua postazione
di lavoro c’erano due bottiglie di whisky adagiate sul parquet. Si era alzato
stancamente. Era andato a vuotarsi un bicchiere colmo fino all’orlo di liquore
forte, era ritornato a sedersi davanti alla macchina da scrivere e aveva
ingollato rapidamente tutto il liquido ambrato.
Sì, ora si sentiva meglio. Molto meglio.
Qualcuno aveva bussato timidamente alla porta non appena Charlie aveva
posato il bicchiere vuoto sul pavimento accanto a sé. Non poteva essere Debbie,
perché la sentiva piangere di sopra. Allora, doveva essere per forza…
«Papi?» aveva domandato una voce fievole e stentata. Sembrava inquieta,
la piccola Erika. Forse spaventata. Quasi sicuramente preoccupata. Charlie
aveva sbuffato sonoramente.
«Papi?» lo aveva chiamato di nuovo sua figlia, con la sua vocina da
bambina di quattro anni ferma di fronte alla porta chiusa dello studio del
padre, ansiosa per il silenzio del genitore e per il pianto ininterrotto della
mamma.
«Che vuoi?» le aveva urlato contro Charlie, sospirando rassegnato. «Il
papi sta lavorando, Erika! Sto cercando di scrivere un racconto, dannazione,
lasciatemi in pace!»
Aveva udito un certo lavorio sulla maniglia, e la porta si era dischiusa
adagio, facendo entrare nello studio un nuovo fascio di luce che aveva trafitto
gli occhi e il cervello impolverati di Charlie, scindendo la nebbia che gli
aleggiava dietro le palpebre e scalfendo i suoi pensieri bui.
«Che diamine, Erika, ti ho detto che sto lavorando!» aveva alzato la voce
Charlie, tirandosi su da terra un po’ barcollante e raggiungendo la porta con
fare malfermo. La piccola Erika lo aveva squadrato, sollevando il visetto tondo
e gli occhi azzurri in un’espressione confusa, e il padre l’aveva spinta con forza
verso il corridoio.
Era avvenuto tutto in un attimo, più o meno, ma nella testa di Charlie
ogni fotogramma si era scolpito a fondo, dilatandosi, facendo assumere
all’evento le sembianze della pellicola completa di un lungometraggio che non
sarebbe mai e poi mai stato proiettato in una sala cinematografica degna di un
nome tanto altisonante.
Erika aveva perso l’equilibrio ed era caduta all’indietro, protendendo le
mani verso il papà in cerca di un appiglio che la potesse salvare. Era piombata
a terra pesantemente e aveva battuto la testa sul pavimento. Le lacrime erano
affiorate nei suoi occhi prima ancora che fosse del tutto distesa: non tanto
perché era caduta e si era fatta male, quanto piuttosto perché era stato il suo papà a farle questo. Era
scoppiata a piangere e Debbie era comparsa immediatamente sulle scale,
terrorizzata. Aveva visto la bambina a terra, le si era lanciata addosso e
l’aveva fatta rialzare, aveva scoccato un’occhiata d’odio al marito tra le
lacrime e si era girata dall’altra parte, trascinando Erika verso la porta di
casa.
La piccola si era voltata a guardare il papà per l’ultima volta, in cerca
di uno sguardo di dispiacere che non aveva trovato. Gli occhi di Charlie erano
semplicemente vacui, velati di foschia, e dopo che la porta si era chiusa
Charlie era rimasto solo. Veramente solo,
questa volta.
Quanto tempo era passato da tutto questo? Quattro, cinque settimane? E il
blocco era ancora lì, pesante come un macigno sulla sua anima fragile. Un
gigante di fianco ad un nano, se messo a confronto con l’emicrania che la
sbronza della scorsa notte gli aveva scatenato. Era ubriaco anche quella notte
in cui sua moglie e sua figlia se n’erano andate? Non ne era più tanto sicuro.
Da allora, però, e di questo era certo, si era ubriacato ogni singola notte. E
il sonno si era fatto sempre più tormentato, le percezioni più annebbiate, gli
incubi più macabri e confusi.
Debbie ed Erika non si erano più fatte vedere né sentire da quando lo
avevano abbandonato. Non un colpo di telefono, non un biglietto sotto la porta…
Non erano neppure tornate a prendersi la roba da vestire. Probabilmente, era
arrivato a concludere Charlie, si erano trasferite dalla madre di Debbie, che
tanto lo detestava quando si erano sposati e che adesso, a maggior ragione,
doveva odiarlo ancora di più. Ma scoprì che in fondo nemmeno questo gli
importava. Perché loro se n’erano andate, forse per sempre, ma il blocco dello
scrittore era rimasto con lui, a fargli compagnia, a torturarlo con la sua muta
assenza di parole e la sua scricchiolante masticazione di idee.
Non era giusto. Il suo studio puzzava di whisky. Lui puzzava di whisky, e anche i fogli che giacevano inermi tra le
sue gambe, le bozze, gli appunti e le prime stesure di alcuni capitoli
dell’ultimo romanzo che aveva incominciato prima che il suo talento andasse in
letargo. Non sapeva quando avesse versato whisky su quelle pagine, di preciso.
Ciò che più contava era che parevano ancora leggibili, anche se non poteva
dirlo con assoluta certezza perché era troppo buio per distinguere le lettere
d’inchiostro su quell’informe superficie bianca.
Registrò soltanto superficialmente di non indossare i vestiti. Aveva
dormito? Aveva sognato? Un altro incubo,
magari, rifletté con una certa difficoltà. Un altro incubo di quelli che mi vengono quando non riesco a scrivere,
quando non riesco a versare i miei stati d’animo sulla carta. Come accidenti posso fare a liberarmi degli
incubi, se non mi è data la possibilità di scrivere? Io devo scrivere, maledizione! Devo farlo, se
voglio riprendere a vivere e a dormire!
Non era mai stato bravo a convincere se stesso di qualcosa, così come non
era mai stato bravo con i conti. E anche stavolta, come sempre, non funzionò.
La molla non scattò in lui. La scintilla non si sprigionò nelle tenebre. Il
vetro della lampadina continuò a luccicare debole e distante nell’oscurità
della sua mente, freddo e spento.
La necessità di riprendersi era sempre più impellente, eppure non
riusciva ad emergere da quel bozzolo di muffa stantia che lo avvolgeva. Vedeva
la luce oltre il velo della superficie, allungava le mani per raggiungerla e
invece di afferrarla sprofondava sempre più giù, nell’abisso del blocco dello
scrittore, un pozzo nero e senza fine che precipitava la sua anima in uno stato
di annullamento quasi totale. Mente sterile, anima fragile. Si frantumava come
un calice di cristallo. Il tintinnio dello sgretolamento riecheggiava nella sua
scatola cranica e nello studio che puzzava di whisky e di fumo. Era quasi
assordante, pur essendo silenzioso. E forse era proprio il silenzio a fargli
male ai timpani, perché rimbombava con assoluta crudeltà attorno a lui e,
soprattutto, dentro di lui.
Si alzò e uscì dalle tenebre rancide del suo studio, coprendosi il viso
con una mano e andando alla disperata ricerca di uno stereo. Lo trovò, prelevò
dalla mensola del salotto un disco a casaccio e rientrò nel suo rifugio
creativo. Inserì il disco, aumentò il volume al massimo e attese. Un imponente
ruggito gli fece vibrare la pelle. Il grido di battaglia di una chitarra
elettrica. Musica rock, sempre in grado di fugare ogni silenzio e di riempire
ogni voragine. Ci voleva proprio, un po’ di musica rock che esorcizzasse il
vuoto.
Debbie glielo aveva sempre detto. Glielo aveva sempre detto, che prima o
poi avrebbe messo la famiglia in secondo piano e avrebbe innalzato la scrittura
al di sopra di tutto il resto. Lo sapeva, Debbie, che scrivere per lui era la
cosa più importante che ci fosse al mondo. Ma allo stesso tempo lo temeva,
anche se già lo sapeva. Aveva paura che se ne accorgesse anche lui, che
registrasse quest’arida verità e la tramutasse in realtà. Ma, alla fine, non
era stato lui a farlo: era stato il suo diabolico blocco dello scrittore a
mandare in malora tutto quanto, a distruggere il suo matrimonio e dilaniare i
suoi pensieri, a renderlo un uomo dalla mente sterile e dall’anima fragile. Era
tutta colpa del blocco dello scrittore. E adesso Charlie non poteva fare altro
che assistere da solo ai tremendi effetti, incapace di scrivere e incapace di
riprendersi in mano la sua vita.
Forse un po’ me lo sono anche
meritato, ragionò tra sé e sé mentre riprendeva in mano i fogli macchiati
di whisky che aveva posato accanto alla macchina da scrivere. Forse Debbie aveva ragione, forse lei sapeva
fin dall’inizio che sarebbe stato inevitabile e lo aveva messo in conto da subito,
da quando aveva pronunciato quel fatidico sì che ci ha incatenati l’uno all’altra per l’eternità.
Debbie sapeva che sarebbe finita così, lo sapeva dal giorno in cui si
erano sposati. Anzi, forse lo sapeva ancora prima, perché già mentre
convivevano gli aveva detto che non avrebbe acconsentito a diventare sua moglie
se prima non le avesse promesso che la scrittura sarebbe stata sempre al secondo
posto, dopo la famiglia. Lo sapeva, d’accordo. Ma allora perché l’aveva
sposato? Perché gli aveva detto sì, se già dal principio era consapevole del
fatto che il loro matrimonio si sarebbe presto esaurito in quella maniera
atroce?
Perché mi amava. Anzi, perché mi ama. Ma adesso mi sono bruciato tutto quanto,
ogni possibilità di perdono. Sono
solo, sono ubriaco e non riesco a scrivere. Il mio matrimonio è finito e le persone che amo mi hanno abbandonato.
Il blocco dello scrittore ha avuto la
meglio su di me, ha ottenuto quello che cercava di conquistare ed è rimasto
ancora qui per godersi lo spettacolo, per succhiarmi via le ultime energie che
mi restano prima di crollare.
Scrivere era sempre stato indispensabile, per Charlie. Una necessità, una
priorità assoluta, perché solo scrivendo era capace di tenere a bada i ricordi,
gli incubi e le emozioni che ogni notte si trascinavano appresso un enorme
vagone di sofferenza che lo poteva travolgere da un momento all’altro. Solo
scrivendo poteva scaricare quei ricordi, quegli incubi e quelle emozioni che
altrimenti lo avrebbero fatto morire dal dolore, e solo scrivendo era in grado
di sentirsi in pace con se stesso. Scrivere lo aiutava a liberarsi di quelle
ombre e di quelle presenze che gli oscuravano il futuro, di quelle voci che gli
sussurravano che non esisteva domani per un uomo come lui. E adesso che non riesco più a scrivere, che domani ci può essere per
me? Soltanto l’oblio.
Scrivere non era soltanto utile, per Charlie: era necessario, e se non si
fosse svuotato al più presto di tutto il carico emotivo che lo opprimeva
sarebbe sicuramente imploso e la sua mente si sarebbe rifiutata di continuare a
lavorare, spegnendosi come un vecchio televisore a tubo catodico.
I suoi romanzi riscuotevano ancora un certo successo, anche se la loro
eco si stava a poco a poco affievolendo. Non avevano mai raggiunto le vetrine
delle più grandi librerie o le scrivanie dei più importanti editori, certo, ma
se non altro gli avevano garantito un’esistenza tranquilla e serena. Fino ad
ora. Ma adesso che non riusciva più a scrivere, che cosa avrebbe fatto? Non
aveva mai venduto abbastanza copie da garantirsi lo stile di vita di un artista
famoso, ma se non altro era riuscito a mantenersi in maniera tutto sommato
decorosa. Avrebbe dovuto trovarsi un lavoro, adesso. E quando avesse iniziato a
lavorare, dove lo avrebbe trovato il tempo per scrivere? Gli sarebbe rimasta soltanto
la sera, ma probabilmente si sarebbe sentito troppo stanco per mettersi dietro
la macchina da scrivere. E lo stesso valeva per i fine settimana, naturalmente.
Che fine avrebbe fatto l’immortalità letteraria che sognava fin da
ragazzino? Avrebbe dovuto accantonarla e poi stracciarla, di sicuro.
Ma esiste davvero l’immortalità
letteraria, oppure è soltanto una chimera? Non era la prima volta che si
poneva questo punto interrogativo. Ma, in compenso, fu la prima volta in cui si
diede una risposta. Una vera risposta,
che lo lasciò perplesso e gli fece avvertire dentro di sé una sensazione di
vuoto talmente incolmabile da fargli un male d’inferno.
L’immortalità letteraria assoluta, quella proclamata dai grandi poeti e
inseguita dagli scrittori di tutti i tempi, non esisteva. Era soltanto
un’invenzione, una bugia che i narratori sfoggiavano con se stessi per
giustificare il loro bisogno di raccontare. Perché il loro nome, così dicevano,
sarebbe vissuto in eterno, camminando sui secoli e sui millenni, richiamando
ancora, dopo un’infinita serie di generazioni, le opere che avevano costruito,
le storie che avevano narrato, le emozioni che avevano suscitato. Quelle opere
che li avrebbero resi immortali.
Ma Charlie, nella sua mente, rovesciò tutto questo: presto o tardi, il
tempo degli uomini si sarebbe consumato. Il genere umano sarebbe andato
incontro ad un’inevitabile estinzione, e allora anche il suo nome, assieme a
quello di tutti i grandi della storia, sarebbe scomparso. Il sole, entro cinque
miliardi di anni, si sarebbe ingrossato fino ad inglobare il mondo, e allora
nessuna cassaforte, nessuna bara, nessuna grotta e nessuno scrigno avrebbe
preservato le pagine degli scrittori dalle fiamme. E lì sarebbe stata segnata
la definitiva mortalità letteraria di ciascuno di loro. Lui stesso, dunque, non
poteva aspirare all’immortalità. Nessuna parola sarebbe sopravvissuta per
sempre. Il suo nome, prima o poi, sarebbe stato cancellato.
E allora che senso aveva sacrificare la vita, l’amore delle persone care
e tutto il tempo che gli restava per scrivere?
Ha senso, perché se non scrivo non
posso andare avanti. Non posso
semplicemente vivere o dormire o respirare, se non butto fuori tutto quello che
ho dentro. Se non scrivo, impazzisco.
Forse era proprio questo il sintomo finale del blocco dello scrittore, il
suo apice: la pazzia. Se era vero, allora voleva dire che il blocco stava
inesorabilmente avendo la meglio sulla volontà di Charlie. Era solo questione
di qualche altro giorno, e se non fosse riuscito a rimettersi a scrivere
sarebbe scivolato irreparabilmente nel baratro della follia. Una volta là
dentro, nemmeno nuotando con tutte le sue forze sarebbe più riuscito a
riemergere in superficie.
(No, Charlie, tu non diventerai
pazzo…)
Charlie trasalì, ponendosi in ascolto mentre un brivido gli percorreva il
corpo tamburellando dita gelide sulla sua pelle accapponata. Era uscita dallo
stereo quella voce cupa e funerea, non è vero? Sì, non poteva che essere venuta
da lì. Altrimenti, come avrebbe fatto una voce umana a sovrastare la musica?
Aveva messo il volume al massimo, sicché non sarebbe riuscito a sentire neppure
se stesso gridare al di sopra dei potenti accordi di chitarra elettrica.
(Tranquillo, Charlie. Non ti agitare. Io non vengo dallo stereo.)
Risposta più che soddisfacente, fornita da una voce che pareva in fondo
in fondo plausibile. Ma non poteva essere vera, quella voce, perché restava il
fatto che non si sarebbe potuta percepire così distintamente a causa della
musica. Perciò, doveva essere uno scherzo, una frase registrata sulla traccia
del disco dal gruppo che l’aveva composta. Ma non ricordava di averla mai
sentita prima di allora. Inoltre, lo aveva chiamato proprio con il suo nome. Lo
aveva chiamato Charlie!
Ecco la prova che sto diventando
matto. Sento le voci, e questo è
sicuramente un effetto causato dalle emozioni represse che non riesco a
scaricare scrivendo. L’assedio del
blocco dello scrittore sta dando i suoi frutti. Prima la famiglia, poi la ragione. Che cos’altro potrà portarmi via?
La risposta più ovvia era solamente una: la vita. Ma non credeva che
sarebbe veramente morto per via del blocco. Certo, c’erano buone possibilità
che cadesse in depressione. Anzi, quasi sicuramente era già depresso, ma ancora
non lo voleva accettare.
(No che non sei depresso, Charlie.
E non stai per morire. Mi prenderò cura io di te.)
Dannazione, da dove accidenti veniva quella voce? Charlie si rialzò in
piedi, dirigendosi verso lo stereo a passi stentati e cercando la bottiglia di
whisky che aveva aperto quella mattina. La individuò nell’angolo in cui stavano
ancora ammassati tutti i fogli di carta stropicciati che aveva ammonticchiato
nei vani tentativi di scrittura delle ultime settimane. La sollevò e controllò
quanto liquore fosse rimasto. Ce n’era poco, ma se lo sarebbe fatto bastare. La
dispensa era quasi vuota, di alcolici ne rimanevano due, forse tre bottiglie al
massimo.
Un frastornante assolo di chitarra elettrica gli sconquassò la testa con
fare perentorio. Charlie si portò il collo della bottiglia alla bocca e
ricominciò a bere, facendosi scorrere giù per la gola quel fuoco liquido e
oleoso che gli risvegliò per un attimo tutti i sensi, anestetizzando subito
dopo ogni sentore d’ansia o di smarrimento.
Meglio, sì, così va meglio.
Fece per cercare un pacchetto di sigarette nella tasca dei pantaloni, ma
essendo nudo trovò soltanto il contatto con la pelle della propria coscia.
Ridacchiò e si abbassò sulla macchina da scrivere, cercando a tentoni le
sigarette sul pavimento. Dopo aver tastato un mozzicone e averlo scagliato
lontano, contro la parete, ne localizzò una sfusa e per poco non scivolò
sull’accendino dimenticato accanto ai fogli imbrattati di alcol. Si rimise in
piedi barcollando leggermente e si appoggiò ad una parete per ristabilire un
po’ di equilibrio. Accolse la sigaretta tra le labbra screpolate, la lasciò
penzolare nel vuoto e la accese distrattamente, traendo la prima boccata con un
mezzo sospiro di sollievo.
(Ecco, va meglio? Lo sai che fumare
non ti fa per niente bene, Charlie? A tua moglie Debbie non piace che fumi.
Ti rimprovera spesso questo tuo vizio.)
La voce era tornata. O non se n’era mai andata. Era difficile per
Charlie, in quel momento, stabilire quale delle due alternative si avvicinasse
maggiormente alla realtà. La brace della sua sigaretta ammiccava nelle tenebre,
faceva l’occhiolino alla macchina da scrivere e si accendeva e si spegneva
nello studio buio come le luci di stop di un’automobile. Le pupille di Charlie
luccicavano di un bagliore sinistro ad ogni sprazzo di scintille rossastre, ma
l’alcol che gli fluiva allegramente nel sangue rendeva il tutto decisamente
meno inquietante dal suo punto di vista.
Scorse un’ombra muoversi di soppiatto davanti a lui. Sobbalzò e
indietreggiò di un paio di passi, rendendosi conto solo dopo qualche secondo di
avere le spalle premute contro la parete. Si fermò e sogguardò l’oscurità con
crescente agitazione, alla ricerca dell’ombra più nera del buio che gli era
appena passata davanti come se nulla fosse.
Fu in quel momento che un sussurro gli occupò il cranio in maniera
violenta, spazzando via ogni altra percezione e sedendosi da padrone al centro
del suo cervello. Era un’idea, finalmente. Un frammento d’idea, e per poco Charlie
non esultò per l’emozione. L’idea tanto attesa era arrivata, l’ispirazione era
tornata, il suo talento non si era dissolto nel nulla delle parole morte!
La musica era ancora altissima e sovrastava ogni altro rumore. Charlie
finì in fretta di fumare la sua sigaretta e schiacciò il mozzicone nerastro
sulla parete dietro di sé, lasciandovi una macchia di cenere che nemmeno Debbie
sarebbe stata capace di fare andar via senza ritinteggiare l’intero studio da
capo a piedi. Si riavvicinò alla macchina da scrivere e si accomodò di nuovo
sul parquet sempre più ruvido e sempre più freddo, sollevando le dita sopra i
tasti per mettersi a battere quelle quattro parole che improvvisamente lo
avevano folgorato. Con le mani a mezz’aria, pronto ad imprimere sulla carta le
lettere d’inchiostro che avrebbero sciolto le catene del blocco dello scrittore
e lo avrebbero liberato, Charlie sgranò gli occhi e gridò, rialzandosi in piedi
di scatto e facendosi prendere dal panico.
Terrore e orrore si mescolarono all’alcol che aveva ingerito,
insinuandosi nelle sue vene e generando un cocktail aspro e micidiale che lo
fece tremare.
(Che cosa c’è, Charlie? Qualcosa
non va?)
Sì, maledizione, proprio così. C’è qualcosa che non va, qui dentro, e non è
l’odore di alcol né tantomeno quello di tabacco. Si tratta di un altro odore che fa da sottofondo a tutti gli altri, un
odore acre e penetrante, ferroso, che non mi piace…
E la sua macchina da scrivere gli disse esattamente che cos’era
quell’odore. I tasti sembravano corrosi dalla ruggine. Sul foglio inserito nel
carrello c’era un’unica parola, scritta in minuscolo, che campeggiava in alto a
sinistra come un monito spettrale: sangue.
Non era ruggine, quella materia rossa e viscosa che colava sui tasti
della sua macchina da scrivere. Era sangue. La sua macchina da scrivere era
tutta sporca di sangue, e Charlie rendendosene conto inciampò sui propri piedi
e cadde all’indietro, battendo la testa a terra, esattamente com’era successo
alla sua piccola Erika l’ultima volta che l’aveva vista, quella sera in cui
l’aveva spinta via e le aveva fatto male. Riportò gli occhi sul foglio di carta
dietro la macchina da scrivere e lesse una nuova frase, stampigliata proprio
sotto la parola sangue: ho fatto del male a Debbie ed Erika.
Urlò, e l’aria gli uscì dai polmoni come una vampata di fuoco.
(Mi sembri agitato, Charlie. Forse è meglio se ti porto un po’ fuori.)
Fuori dove, accidenti? Fuori dove?
Fuori di testa, ecco dove. Quella voce non lo stava mandando fuori di
testa, lo stava portando fuori di
testa, e c’era una bella differenza della quale Charlie si rendeva conto
piuttosto bene.
Era la voce del suo personale blocco dello scrittore, e Charlie lo
sapeva. Allo stesso modo in cui Debbie sapeva da sempre che tra loro sarebbe
finita in quel modo. Aveva perso sua moglie e sua figlia, perché non era stato
abbastanza forte da reagire al blocco e da rispolverare l’ispirazione che
dentro di lui appassiva. L’immortalità letteraria era una menzogna, e il suo
immenso bisogno di scrivere non sarebbe mai più stato soddisfatto.
Era suo quel sangue sui tasti della macchina da scrivere? Probabile.
Afferrò con dita tremanti una sigaretta dal pavimento e la accese, ma dopo due
boccate gli cadde a terra e si spense nel buio. Allora andò in cerca in giro
per lo studio di una bottiglia di whisky non del tutto vuota, e quando la scovò
se la piantò in bocca, giù per la gola, e aspettò che tutto il liquido
incendiario gli si fosse stabilizzato a dovere nelle budella fumanti.
Aveva un tremendo mal di stomaco e la testa gli girava come una trottola
infuriata. La musica rock a tutto volume gli martellava i timpani col suo ritmo
inebriante, inarrestabile. Se si fosse lasciato guidare dalla musica, magari
sarebbe ritornato tutto quanto a posto. Oppure sarebbe crollato inerme in
quello studio buio, lasciandosi morire.
(Come dici, Charlie? Il blocco
dello scrittore?)
Ancora quella voce. Ma da dove veniva? Chi stava parlando, se nel suo
studio c’era soltanto lui?
Due occhi si misero ad osservarlo dalla parete di fronte, attenti,
indagatori, immobili. Lo scrutarono con incredibile pazienza, sondando il suo
sguardo annacquato. Erano due tizzoni ardenti, due occhi insanguinati, le braci
accese di due sigarette che emanavano fumo nelle tenebre. Si chiusero e si
riaprirono, avvicinandosi quasi impercettibilmente.
Era la fine, e Charlie lo capiva. Solo che avrebbe voluto avere più tempo
per cercare di porre rimedio agli errori commessi. Ma Debbie ed Erika se
n’erano andate, e il suo talento si era consumato rapidamente, come le
pastiglie dei freni di un’auto da corsa. Il suo nome si sarebbe estinto con il
genere umano, e tanti saluti a quell’immortalità letteraria che sognava da
ragazzo, una chimera fasulla, una bella ammaliatrice che lo aveva ingannato con
un bacio, promettendogli di concedersi completamente ai suoi desideri, e poi lo
aveva lasciato sul marciapiede, nudo e speranzoso, ancheggiando altrove.
(Non ti preoccupare, Charlie. Ti rimetterò in sesto, parola mia.)
Quando le due braci di sigaretta furono a pochi passi da lui un’enorme
bocca si spalancò davanti ai suoi occhi tremolanti, la bocca di una bottiglia
che lo circondò, lo superò e si richiuse sulla sua figura esile, inghiottendolo
e divorandolo come una notte troppo densa sopraggiunta all’improvviso.
Charlie si sentì risucchiare da una strana sensazione di bruciore che gli
si strofinò su tutta la pelle del corpo. La musica si spense, i giramenti di
testa si interruppero, lo stomaco smise di pulsare. Soltanto un calice di
cristallo, nel silenzio, si infranse contro le pareti della sua mente,
sgretolandosi con un limpido tintinnio uniforme. E poi fu tutto buio,
finalmente.
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