mercoledì 7 settembre 2011

Sull'Orlo dell'Ignoto - Parte V

La nebbia si intrecciò velocemente durante le ultime ore della notte e venne letteralmente indossata dalla città, quasi che le facciate degli edifici volessero nascondersi dietro uno spesso strato di foschia per non farsi riconoscere troppo facilmente dagli abitanti. Si inoltrò per ciascun vicolo, infiltrandosi in ogni pertugio e occupando ogni fessura, e lentamente adombrò di umidità tutti i quartieri del centro così come aveva preventivamente fatto con quelli della periferia.
Dopo la cruda notte appena terminata, che aveva quasi finito di racimolare i propri rimasugli per allontanarsi senza fretta dal cielo, l’alba salutò il nuovo giorno con un freddo sole rossastro – sanguinolento, lo si sarebbe potuto definire, ma non era esattamente questo l’aggettivo più adatto, forse sarebbe stato meglio dire che appariva morente, sebbene in realtà stesse nascendo sulla linea dell’orizzonte per disperdere del tutto l’oscurità della notte stentatamente detronizzata.
Il bozzolo di densa caligine intessuto attorno alla città non impedì ai suoi residenti di risvegliarsi e di portarsi sonnacchiosamente presso i tavoli della colazione, la testa già affollata dai pensieri della nuova mattinata che si accavallavano e si assiepavano l’uno sull’altro. Il cielo, dietro la nebbia, non lasciava presagire alcun segnale di pioggia imminente; nonostante questo, la giornata non prometteva alcun miglioramento.
Un’ambulanza, scortata da un paio di auto della polizia, attraversò a sirene spiegate la strada che passava di fronte alla casa di Stefano e Valentina e all’incrocio svoltò a sinistra, procedendo sollecitamente in direzione del fiume. Valentina la udì come se provenisse da una realtà diversa, separata dalla sua, e non vi fece caso più di tanto: la sua mente era ancora impegnata a cercare affannosamente di interpretare la sensazione che l’aveva tenuta sveglia per quasi tutta la notte, bisbigliandole nell’orecchio che a suo marito era successo qualcosa di brutto e che era per questo motivo che, malgrado fosse l’alba, non era ancora rientrato.
L’ambulanza e le auto della polizia proseguirono rapidamente lungo la ragnatela di strade e viuzze, senza mai fermarsi e senza mai spegnere le sirene che squarciavano nettamente il manto di silenzio calato sulla città. Ben presto raggiunsero il fiume, poco più in basso del ponte che lo attraversava nel bel mezzo del quartiere ad est del centro abitato.
Lì, un tizio quella mattina aveva segnalato la presenza di ciò che sembrava un corpo incagliato nei rami più bassi degli alberi che crescevano lungo la riva. Quell’ambulanza fu la prima ad arrivare e senza troppa fatica riuscì a liberare dalle sterpaglie il cadavere di un uomo adulto con la testa sfondata – forse a causa di un colpo di pistola, o forse per via di una caduta; in ogni caso, di questo si sarebbe occupato il medico legale al quale sarebbe stato passato il caso.
Il corpo, una volta dichiarato ufficialmente deceduto, fu caricato con l’aiuto di una barella. Un poliziotto, prima di fare ritorno alla propria auto, estrasse dal cappotto imbevuto d’acqua di fiume un portafoglio con all’interno dei documenti d’identità ancora leggibili. L’uomo portava la fede all’anulare sinistro. Adesso che avevano il suo nome, sarebbe stato semplice rintracciare sua moglie e darle la notizia dell’accaduto. Il poliziotto, riponendo accuratamente il portafogli e i documenti del morto nelle apposite buste di plastica trasparente, pensò distrattamente alla propria di moglie, e a come avrebbe potuto reagire in caso fosse capitata a lui una cosa del genere.
C’era troppa gente che moriva al mondo ogni santo giorno, rifletté, e questo non sembrava affatto giusto. Avere a che fare con la morte lasciava sempre nel cuore un alone di acuta, insanabile malinconia che non se ne andava mai più.
Pochi minuti dopo il ritrovamento del cadavere nel fiume, Valentina udì squillare il telefono al piano terra e un inatteso lampo di consapevolezza, che si diramò nella sua mente come un fulmine in mezzo al cielo notturno, la infilzò alla stregua di un’unica, energica stilettata in pieno petto.
Si issò in piedi di scatto, proiettandosi verso le scale dopo aver fiondato le coperte sul pavimento della camera, e si lanciò in una corsa verso il telefono, sollevando la cornetta giusto in tempo prima che la persona all’altro capo della linea mettesse giù.
«Pronto?» quasi urlò con eccessiva veemenza, il respiro ansante e un’improvvisa fitta all’altezza del cuore che ne accelerò il battito all’impazzata – un fabbro che martellava il ferro rovente adagiato sull’incudine con sempre maggiore insistenza. Dall’altra parte udì una di quelle scariche di interferenze tipiche dei cellulari – o era piuttosto il rumore del traffico su una delle strade più frequentate dell’ora di punta?
«Valentina?» berciò la voce alterata di suo padre. La speranza che fosse Stefano a chiamarla sbiadì all’istante, finendo sepolta sotto i pesanti respiri di Roberto.
«Papà?» ribatté lei, meravigliata. Papà non telefonava mai al loro numero di casa, perché temeva che potesse rispondergli Stefano e, siccome voleva evitarlo a tutti i costi, preferiva sempre comporre il suo numero di cellulare e avere così la certezza che fosse lei a prendere la chiamata.
«Vorrei parlare con Stefano un momento, per favore…» tartagliò Roberto con fare un po’ impacciato – si intuiva chiaramente che si vergognava, considerò superficialmente Valentina. Ma che storia è mai questa?
«Non c’è…» rispose cautamente.
«Beh, digli che ho già fatto tutto quello che mi aveva chiesto di fare, come d’accordo» borbottò laconicamente Roberto, e detto questo riattaccò senza addurre ulteriori spiegazioni.
Valentina si sentiva confusa. Posò la cornetta del telefono e si volse in direzione dell’ingresso, dove il lavorio di una chiave che cercava disperatamente di infilarsi nella serratura attirò la sua attenzione, facendola sobbalzare per un momento. Indietreggiò, lievemente preoccupata, quando la porta si aprì di qualche centimetro svelando uno scorcio del volto stanco e pallido di Stefano, che appena la vide si distese istantaneamente in un largo e amorevole sorriso.
Valentina gli si gettò contro e lo abbracciò, facendolo barcollare e quasi cadere all’indietro sulla soglia d’entrata. Stefano rise, accogliendo volentieri la sua stretta e ricambiandola con affetto.
«Dov’eri finito?» sussurrò Valentina, lasciandosi andare finalmente alle lacrime. Stefano la strinse ancora più forte, carezzandole la schiena con tocco leggero e percependo la rassicurante sensazione del suo caldo pancione palpitante premuto contro di sé.
Le raccontò tutto quanto, a partire da quel giorno in cui aveva letto della morte del suo vecchio compagno di scuola tra i necrologi fino ad arrivare al licenziamento e all’istante in cui si era reso conto che nel loro conto in banca non rimaneva nemmeno un decimo del denaro necessario a pagare la prossima rata del mutuo. Lei lo ascoltò taciturna, annuendo ad ogni passaggio e sfiorandolo con un bacio di tanto in tanto, gli occhi che le si facevano sempre più lucidi a mano a mano che andava avanti e che cominciava a capire dove fosse stato quella notte e quali orribili pensieri gli avessero attraversato la mente dopo avere dato loro il suo ultimo addio ed essersi puntato la pistola alla tempia, l’indice premuto sul grilletto.
Le narrò di come all’ultimo secondo avesse chiaramente percepito la sua presenza, sentendola sveglia e in ansia per lui. Aveva spostato di un paio di centimetri la canna della pistola, sparando nel vuoto del precipizio e udendo il proiettile schioccare nell’acqua.
Non poteva togliersi la vita, aveva concluso in quel momento. Credendo di fare ciò che era meglio per lei e per il bambino, avrebbe finito soltanto per comportarsi egoisticamente, abbandonando ogni sofferenza per lasciare che fossero loro ad affogare nel dolore al posto suo. Aveva compreso di dover mettere da parte l’orgoglio per il loro bene, così aveva afferrato il cellulare, composto il numero di Roberto e atteso che suo suocero rispondesse.
Avevano parlato per almeno un’ora al telefono. Al termine di quella conversazione avevano convenuto che la cosa più saggia per entrambi fosse una riappacificazione, se non altro temporanea, che riportasse l’equilibrio nelle loro vite e in quelle di Valentina e del nascituro. Roberto aveva infine acconsentito ad offrire un lavoro a Stefano, anticipandogli il denaro necessario a saldare la rata successiva del mutuo della casa.
Sembrava incredibile, eppure tutto quanto, alla fine, si era risolto per il verso giusto. Era proprio vero che certe volte, nella vita, bastava svoltare a destra anziché proseguire diritti per svelare dinanzi a sé un mondo sconosciuto. Stefano l’aveva fatto di nuovo, e stavolta aveva scoperto che stare sull’orlo dell’ignoto non sempre significava condannarsi alla rovina.
Strinse a sé la sua amata con maggiore forza, promettendole che non si sarebbe mai più avvicinato al pensiero di abbandonare lei e la meravigliosa creatura che la vita aveva loro donato, affinché la crescessero assieme – il loro bambino, che ancora germogliava nel pancione di Valentina.
Rimasero così, incollati nella dolce penombra di quella nebbiosa alba di fine autunno, due sagome abbracciate che si stagliavano in controluce sulla soglia di una delle tante porte che davano accesso alle innumerevoli case del mondo – innumerevoli case, incalcolabili vite, sterminate storie, alcune più interessanti e altre meno, ma pur sempre storie di persone che avevano riso, pianto, sofferto, gioito, amato e odiato, storie di persone che avevano molto da raccontare e altrettanto da tenere celato negli angoli più inviolabili e polverosi delle proprie memorie, dove ogni sospiro prendeva vita e ogni singolo palpito del cuore occultava dentro di sé un significato intimo e profondo che nessuna parola umana sarebbe mai stata in grado di tradurre.

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