venerdì 16 dicembre 2011

L'Unità malvissuta o la mal coscienza del popolo italiano - Parte II

Ultimato questo rapido excursus storico, spostiamo la nostra attenzione sull’enorme divario geografico e ambientale della nostra penisola, ad un primo sguardo completamente irrilevante, ma in verità assai influente poiché la realtà paesaggistica nella quale viviamo condiziona il nostro modo di essere e di rapportarci con il mondo, nonché la nostra impostazione di pensiero (il linguaggio stesso fa da esempio a quanto appena affermato: nelle regioni più fredde del mondo ci sono molti vocaboli che sostituiscono i nostri “neve” e “ghiaccio”, così come nelle aree aride e desertiche la parola “sabbia” può essere tradotta in svariati modi).
Un’analisi di questo tipo ci fa osservare la presenza di un dislivello insormontabile tra Nord e Sud: il primo, infatti, ospita catene montuose dai picchi innevati, con alcune pianure incassate tra i colli, paesaggi tipicamente continentali e un clima umido durante tutto l’anno e decisamente freddo nel periodo invernale; il secondo, invece, è caratterizzato da ampi bassopiani coltivati frammisti a monti più bassi, territori brulli e aridi distanti dal mare e fasce rigogliose e verdeggianti lungo le coste, con un clima in prevalenza mediterraneo, mite durante la maggior parte del ciclo stagionale. Anche l’alimentazione, di conseguenza, segue l’ambiente preso in considerazione, e l’aria stessa che si respira ha un sapore e un odore diversi da Settentrione a Meridione, fattore in apparenza trascurabile che, però, contribuisce a differenziare ulteriormente i due poli d’Italia.
In mezzo a tutti questi motivi di difformità, non si può non trattare del fenomeno al quale maggiormente viene imputata la discrepanza economica tra Nord e Sud. Si tratta di una presenza rimasta costante per buona parte della storia del Mezzogiorno, ancora oggi fortemente avversata e tuttavia irremovibile, della quale ultimamente si sta parlando molto: la mafia. Purtroppo questo morbo che appesta la nostra penisola, questo tumore rimasto finora inoperabile (e, si spera, non ancora giunto in fase terminale), malgrado gli sforzi impiegati per la sua eliminazione si è talmente legato alla realtà italiana da essere diventato, all’estero, una caratteristica propria dello stereotipo del cittadino italiano, sia che esso venga dal Nord sia che provenga dal Sud (negli altri paesi, infatti, non si opera questo genere di distinzioni: gli Italiani sono comunemente associati alla mafia, da qualunque regione essi provengano; siamo soltanto noi a circoscrivere la mafia nel Mezzogiorno, quando corruzione e criminalità organizzata coesistono un po’ dovunque, seppure a livelli dissonanti).
Parlare della mafia in Italia, oggi, pare quasi essere il modo migliore per riuscire a sconfiggerla. Certo, per combatterla c’è bisogno di denunciarne l’esistenza, ma non è sufficiente dar fiato alla bocca per arrivare a debellarla. La mafia è un sassolino in fondo allo stivale d’Italia: così come quando ci troviamo un sassolino nella scarpa non possiamo continuare a camminare come se nulla fosse, ma dobbiamo fermarci e rimuoverlo, allo stesso modo l’Italia dovrebbe fermarsi a riflettere, invece di proseguire a testa bassa lungo la direzione intrapresa, e infilare due dita all’interno dello Stivale per afferrare questo sasso, levarlo e scagliarlo lontano, dove non possa più nuocere. Come per liberarsi delle erbacce non è sufficiente strapparle dal terreno, ma bisogna sradicarle completamente, così la mafia dovrebbe essere estirpata dal suolo italiano con un’azione decisa e perentoria, priva di qualunque accenno d’esitazione.
Nemmeno la mafia, in ogni caso, può essere definita come prima e naturale causa del fatto che questa Unità d’Italia sia così malvissuta. Innanzitutto perché la mafia c’è sempre stata, da molto prima dell’affermazione dell’Italia come Stato unitario sotto una sola bandiera, e in secondo luogo perché la percezione dell’Italia come nazione fortemente divisa, convinzione che molti condividono ancora oggigiorno, non deriva dall’esistenza o meno della mafia: il Nord infatti indica il Sud come culla della criminalità organizzata, criticandolo duramente per questo, e allo stesso tempo si lamenta di doverlo trascinare come un peso morto, asserendo di essere esso stesso la fonte della maggior parte del denaro presente nelle casse dello Stato, adoperato non solo per le spese pubbliche dell’Italia settentrionale, ma per quelle dell’intera penisola. Questo atteggiamento di accusa, però, giustificato o meno dai fatti, non sta alla base dell’insofferenza di una fetta per nulla esigua della popolazione italiana nei confronti dell’Unità affermatasi un secolo e mezzo fa. Le ragioni, perciò, vanno ricercate ancora una volta altrove.
Dove si trova allora la verità? Sembra quasi di essere perduti in mezzo al bosco, in una ricerca incessante e infruttuosa. C’è chi dice che l’anniversario dell’Unità d’Italia non dovrebbe essere festeggiato, perché è proprio a causa dell’Unità che il Nord non ha potuto svilupparsi pienamente al pari delle altre potenze mondiali, dovendo trascinarsi dietro un Sud improduttivo e sempre più bisognoso di aiuti economici per non crollare su se stesso. Dall’altra parte, invece, c’è chi afferma con tutta tranquillità che questa ricorrenza va assolutamente tenuta in considerazione e festeggiata come si deve: non saremmo qui, se non ci fosse stata l’Unità d’Italia, e dovremmo tutti capire l’importanza di tale commemorazione storica.
Perché queste posizioni contrapposte? Per quale assurdo motivo parlando dell’Unità d’Italia il popolo italiano dovrebbe dividersi nelle opinioni? Eppure questa è la realtà, questo è il concretizzarsi dell’aggettivo malvissuta, riferito alla nostra Unità nazionale e all’opera dei padri fondatori della nostra Italia, quella che noi oggi conosciamo e nella quale, malgrado le critiche e le manifestazioni di insoddisfazione, viviamo.
Lo spirito patriottico italiano, tuttavia, scorre nelle nostre vene come scorreva un tempo in quelle dei grandi intellettuali e uomini di pensiero della nostra tradizione. L’intera riflessione italiana, fin dai suoi primordi, ha sempre dimostrato un profondo desiderio di unità, di indipendenza dalle potenze straniere, di coesione della penisola.
Già nel periodo del Rinascimento Dante, Petrarca e Boccaccio si spostarono nel corso della loro vita in tutta Italia, consentendo alle loro menti di partorire quelle prime opere auree che identificano tuttora il nostro comune senso di appartenenza.
Cosimo de’ Medici e Lorenzo il Magnifico si posero in prima linea per cercare di far capire al popolo italiano come l’unica soluzione per impedire alle potenze straniere di continuare ad intervenire sulla penisola, frammentandola e danneggiandola sempre più, fosse raggiungere un accordo tra gli stati italiani che garantisse un’unità politica più forte e capace di resistere alle prepotenze estere, e allo stesso modo Niccolò Machiavelli, padre delle scienze politiche moderne, anche se mantenne le distanze dal vero e proprio concetto di “Unità d’Italia”, espresse il proprio desiderio di vedere un’Italia libera dall’influenza straniera, politicamente indipendente e, perciò, accentrata.
L’affermazione di una lingua nazionale, ad ogni modo, rappresentò un ottimo punto di partenza sul quale costruire l’unificazione di un’Italia scissa in dialetti e parlate vernacolari. Questa base d’inizio fu dovuta a numerosi letterati e intellettuali della nostra storia, in particolare a Dante Alighieri, che avviò il dibattito con il suo De vulgari eloquentia, e a Pietro Bembo, che nel 1525 con le sue Prose della volgar lingua propose l’adozione della lingua fiorentina trecentesca, in special modo quella di Petrarca per quanto concerneva la poesia e quella di Boccaccio per ciò che riguardava la prosa. Una nota di merito non può mancare per l’opera di Leonardo Salviati e dell’Accademia della Crusca, che nel 1612 produsse il Vocabolario degli Accademici della Crusca, autorità massima in fatto di lingua fino all’Ottocento. Infine, non si può non accennare almeno frettolosamente ad Alessandro Manzoni, che con I promessi sposi fissò nero su bianco l’opera linguistica di riferimento della nostra tradizione letteraria. Tutti questi autori contribuirono in qualche modo all’Unità d’Italia, dando vita alla lingua che oggi parliamo e che, di fatto, rappresenta una delle caratteristiche che ci contraddistinguono in quanto Stato unitario imperniato su di un’unica identità nazionale.
C’è da dire, in ogni caso, che l’unificazione della penisola italiana fu un processo lento e difficoltoso che richiese infiniti sforzi e persino ora può apparire inconcluso. Gli stessi abitanti dello Stivale osteggiarono, in alcuni frangenti, l’uniformazione, come ci riportano i casi di brigantaggio, prevalenti nel Mezzogiorno, che nei primi anni sessanta dell’Ottocento si opposero alle leggi speciali e alle forze armate nazionali.
L’Unità d’Italia fu addirittura definita «una forzatura storica», come riportato a pagina 29 del Cavour di Luciano Cafagna, edizione “Il Mulino”, del 1999. Lo stesso Cavour scrisse, nella lettera del marzo 1861: «Il mio compito è più complesso e faticoso che in passato. Fare l’Italia, fondere assieme gli elementi che la compongono, accordare Nord e Sud, tutto questo presenta le stesse difficoltà di una guerra con l’Austria e la lotta con Roma». Da queste parole emerge con chiarezza quanto fosse arduo anche solo concepire, in quel periodo, un’unificazione di popoli talmente divisi dal punto di vista storico, linguistico, politico, geografico, culturale e spesso anche religioso, missione all’apparenza impossibile che in fin dei conti, se apriamo bene gli occhi e ci guardiamo attorno, ancora oggi stiamo provando a portare a termine.

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