giovedì 15 dicembre 2011

L'Unità malvissuta o la mal coscienza del popolo italiano - Parte I

Maturare una riflessione capace di dipingere in maniera esauriente e compiuta il travagliato quadro delle opinioni che il popolo italiano si è costruito (o è stato indotto a produrre) attorno all’annunciato evento del centocinquantesimo anniversario dell’Unità d’Italia sarebbe un po’ come cercare di acchiappare un nugolo di polvere da un vecchio scaffale con un retino per le farfalle: del tutto inutile, in altre parole, uno sforzo vano e dagli effetti inconsistenti.
Ebbene sì. Al di là delle architettate muraglie ideologiche, delle macchinose strumentalizzazioni politiche e delle fatiscenti ostentazioni di insoddisfazione, il popolo italiano appare al riguardo suddiviso in varie e mutevoli “fasce di reazione”, così come si potrebbero definire quelle differenti posizioni che hanno dato respiro, negli ultimi periodi, ad una cornucopia di accuse e controaccuse, di indici puntati e mani sollevate, di ampollosi discorsi sull’importanza della celebrazione di questa ricorrenza e pletorici monologhi sul perché tale commemorazione non debba essere festeggiata.
Sembra che lo Stivale e in particolar modo la sua storia, con i tempi che corrono, tendano ad essere fatti scivolare in secondo piano addirittura dalle persone che vi abitano, da coloro che si definiscono fieri Italiani pur rinnegando l’importanza di un passato che è stato frutto del lavoro e della fatica di migliaia di uomini che hanno speso la propria vita al servizio di una patria che oggi noi non potremmo altrimenti chiamare, con sommessi mormorii affettuosi, “casa”.
Ma perché queste repliche tanto divergenti? Com’è possibile che a distanza di un secolo e mezzo la nostra Italia si faccia sentire ai propri abitanti ancora così profondamente scissa, dilaniata persino dalla contrapposizione di pareri che ironicamente gravitano attorno all’idea della rievocazione o meno della sua stessa raggiunta Unità, come stanno a testimoniare le polemiche sui festeggiamenti relativi al 17 marzo 2011 che hanno letteralmente bombardato i nostri pensieri traboccando copiosamente da televisori, radio e giornali negli ultimi mesi? La risposta a questi interrogativi non sarà facile da riesumare, e per riuscirci bisognerà scavare nelle viscere della nostra storia, per capire come, a distanza di centocinquant’anni, l’Unità d’Italia non sia esattamente un’Unità malvissuta, bensì in realtà un’Unità non ancora pienamente percepita.
Per ricomporre questo tormentato puzzle, tuttora incompleto di fronte ai nostri sguardi increduli e ammutoliti, occorre risalire alle origini facendo incastrare perfettamente un tassello dietro l’altro, fino a dare una fisionomia a quell’amorfa realtà che giace sotto i nostri occhi e poter forse, con un pizzico di sforzo in più, rimetterne a fuoco i contorni e completarne – perlomeno in via teorica – gli spazi rimasti vacanti, comprendendo quali siano le migliori strade da seguire per poter riconciliare realtà che sono rimaste inavvertitamente separate per secoli e millenni.
La storia dell’Italia appare divisa fin dai suoi prodromi, quando i primi insediamenti umani, risalenti probabilmente al Paleolitico, si stanziarono in separate fasce della penisola e intrapresero una crescita locale più o meno isolata. All’avvento della civiltà ellenica, e successivamente alla fondazione delle colonie del Sud che presero il nome di “Magna Grecia”, la sperequazione si acuì notevolmente tra gli abitanti settentrionali e quelli meridionali, poiché i primi si evolsero seguendo le linee di sviluppo delle grandi popolazioni del centro Europa, mentre i secondi furono trasformati in una branca pulsante del poderoso organismo greco antico.
Le origini del vasto e potente popolo romano si inseriscono perfettamente in questa situazione, incastonandosi come una gemma all’interno di un ricco e fertile monile d’oro. L’epoca degli antichi Romani corrispose ad un lungo periodo di prosperità per l’Italia, la cui popolazione era di certo ripartita in classi, ma perlomeno compatta e mossa da ideali comuni. La penisola godeva di importanti privilegi, come ad esempio l’essere dispensata dalla tassazione diretta che Roma imponeva invece al resto delle province. Le prime strutture pubbliche italiane nacquero in quest’epoca: si tracciarono le strade, si bonificarono alcuni territori altrimenti ostili, si crearono gli acquedotti per alimentare le principali città. La parentesi romana, dunque, come espresso ne L’identità italiana di Ernesto Galli della Loggia, edizione “Il Mulino”, 1998, a pagina 36, «[…] valse a imprimere sull’Italia un tratto oggettivo di esperienza unitaria […]» che fece da “antenato”, per così dire, all’unificazione che sarebbe avvenuta un millennio e mezzo più tardi.
La caduta dell’impero portò alle conseguenti ondate barbariche, a partire dagli Ostrogoti, che riuscirono a mantenere per qualche tempo una parvenza di unità nella penisola. Anche sotto i Bizantini, intervenuti con la guerra gotica di Giustiniano I, l’Italia non fu del tutto frammentata, fino a quando non sopraggiunsero i Longobardi, il cui arrivo ruppe definitivamente la già delicata stabilità. Quest’ultima popolazione tentò di rendere il più omogeneo possibile il regno appena conquistato, ma l’intromissione dei Franchi, chiamati a gran voce dal papa, impedì loro di portare a compimento tale proposito.
Nei secoli seguenti l’Italia fu spartita tra plurime popolazioni di origini varie che si insediarono in diverse regioni e iniettarono più o meno ovunque la propria cultura, a dosi differenti, dando luogo ad una separata crescita (basti pensare all’influenza araba, a tratti presente nel Sud, decisamente assente nel Nord).
Fu soltanto nel pieno Medioevo, tuttavia, che le disparità tra l’Italia settentrionale e il Mezzogiorno si fecero più nette, prendendo due vie totalmente distinte, sebbene affiancate.
Il Nord vide l’avvicendarsi di innumerevoli potenze straniere nei propri territori. Il Sud, invece, rimase perlopiù sottomesso agli Spagnoli. A partire dall’XI secolo, mentre nel Settentrione stavano maturando le epoche dei Comuni e delle Signorie, il Meridione restava assoggettato ad una persistente e durevole condizione di arretratezza, dove l’economia e la società, ancora di stampo nitidamente feudale, erano manipolate dai baroni latifondisti, proprietari terrieri che controllavano il resto della popolazione in una sorta di relazione di taglio mafioso (situazione che, tra l’altro, rappresentava gli esordi della mafia moderna), derivato senza alcun dubbio da quel rapporto di clientela che all’età dei Romani si instaurava tra i patrizi e la plebe, in base al quale i ricchi offrivano protezione e sostentamento ai poveri in cambio della loro fiducia e dei loro servigi (ed, eventualmente, del loro voto in caso decidessero di intraprendere il cursus honorum).
La supremazia dei latifondisti al Sud, quindi, impedì nelle regioni sotto il loro controllo quell’industrializzazione che nei secoli successivi interessò invece il Nord; il Mezzogiorno seguitò in questo modo a sfruttare un’economia estensiva che alla lunga non fu più in grado di competere con lo sviluppo imprenditoriale dell’Italia settentrionale, il che segnò l’avvento dell’inevitabile sproporzione che ancora oggi contraddistingue il nostro Paese.
Risulta curioso notare come lo stato di disparità economica tra Nord e Sud, presente ai giorni nostri come un problema apparentemente insoluto e insolubile, abbia fondamenta così profonde, talmente ben piantate nel suolo da far pensare che abbatterlo sia cosa impossibile.
Da questo fuggevole compendio emerge anche un altro fattore che a lungo ostacolò la formazione di un regno unitario: il papato, il quale temendo la nascita di una nuova potenza in territorio italico che potesse competere con lo Stato della Chiesa e privarlo della sua autonomia si impegnò strenuamente per far sì che l’Italia non si ricomponesse come compagine potenzialmente avversa al Vaticano.
Parlare di quello che avvenne in seguito, a questo punto, risulta inutile: la storia più recente è fin troppo nota, e percorrerne nuovamente i rami, giungendo fino a snocciolarne le foglie più distanti, si dimostrerebbe vano, ripetitivo e quanto mai noioso. Le vicende di Garibaldi e dei Mille sono famose quanto le favole per bambini, così come le narrazioni delle ultime vicende che portarono all’unificazione del Regno d’Italia il 17 marzo 1861, dalla Restaurazione ai moti carbonari, alle guerre di indipendenza, tutte avventure dense di nomi e di azioni di grandi uomini impresse nell’immaginario collettivo della nostra società tanto quanto le pubblicità della Coca-Cola. Sorvolare su di esse per andare a cogliere direttamente i frutti di tali eventi e dei corollari che vi ruotano attorno, perciò, non è da considerarsi quale volontà di tacere fatti fondamentali, bensì come desiderio di tralasciare nozioni basilari per continuare a dipanare, centimetro dopo centimetro, l’aggrovigliata matassa di pensieri che questa riflessione richiede.

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