Navighiamo in questo mondo su di una nave dalle vele sbrindellate, un'imbarcazione lenta e pesante che fa fatica a sfruttare tutto il vento che le viene messo a disposizione. Non riusciamo a capire perché siamo qui. Che cosa ci facciamo in questo buco dell'universo, in questo puntino per nulla luminoso che ambiguamente amiamo e sfruttiamo, schiavizzando la natura e sottoponendola al nostro volere - e potere?
Partiamo da qui a riflettere, visto che non sappiamo con esattezza da dove siamo partiti a vivere, da quale punto preciso del cosmo abbiamo incominciato a navigare, da quale sorgente di luce siamo scaturiti come zampilli di un chiarore sempre più smorzato e sempre più tenue.
Per quale motivo ci troviamo qui? Una risposta a tale interrogativo è alquanto difficile da dare. Forse è addirittura impossibile formulare una risposta definitiva di fronte a questa domanda. In fin dei conti, per quanti millenni l'uomo ha provato a farlo invano? Di certo, però, possiamo dire con una certa dose di sicurezza che siamo qui per qualcosa. Lo diciamo, anzi. Abbastanza alla leggera, vorrei soggiungere. Lo sosteniamo con tanta convinzione da apparire noi stessi insicuri, lo urliamo così forte da sovrastare persino le nostre stesse voci.
E se la verità, in mezzo a questo fiume dirompente e interminabile di parole, fosse che noi non siamo qui per uno scopo? Impossibile, risponderanno in molti, alterandosi e sentendosi offesi nel profondo. Ma a parere mio bisogna mettere in conto anche questa eventualità, e se proprio non si desidera abbracciarla è necessario perlomeno ammettere, in linea del tutto teorica, che essa coesiste con le nostre stesse vite e dentro di esse.
Che cosa significa? Significa che dobbiamo considerare anche la possibilità di essere qui per un puro caso. La casualità, dopotutto, è la legge assoluta che regna nell'universo e governa l'accadere della realtà, dico bene? E allora perché non concederci di credere che anche noi, in fondo, siamo frutto di questa casualità?
Perché noi non possiamo essere qui per niente. Questa cosa non ha alcun senso, ai nostri occhi. Deve esserci un motivo, una causa che ci ha portati qui, in questo punticino per nulla luminoso dell'universo. E se non c'è, la soluzione è semplice: dobbiamo inventarcelo. Appare come nostro dovere confortare chi ne ha bisogno e sostenere, abbastanza alla leggera, che tutto ha un'origine e tutto tende verso un fine, che le nostre esistenze non sono vuote e in funzione di se stesse, che c'è un progetto, dietro ad ognuno di noi, e che questo progetto tutto abbraccia e tutto circonda e tutto compenetra e tutto motiva...
Ma apriamo gli occhi, per una volta. Una volta sola, non chiedo di più. Apriamo gli occhi e guardiamoci intorno. Mentre noi stiamo fermi, il mondo scorre attorno a noi. L'universo si espande, la vita continua. Moriamo e veniamo sostituiti da altre persone, scompariamo e il nostro posto viene subito occupato. In funzione di che cosa? Non lo sappiamo. Però ci conforta credere che serva a qualcosa. E se non sappiamo esattamente a cosa, beh, semplice: ce lo inventiamo. Perché in fondo è più facile convincere la gente a continuare a vivere, se si dà ad ognuno qualcosa in cui credere e per cui combattere.
Da dove ha origine la nostra moralità collettiva? Da noi stessi? Essa è forse presente e uguale in ciascuno di noi? No, non è così. Siamo frutto di noi stessi. Ognuno di noi è il risultato di una cultura, di un insieme di idee e di consuetudini, di un apparato complesso e macchinoso definito "società", di un organismo misterioso e impenetrabile chiamato "vita". E ognuno di noi consuma i suoi giorni come meglio crede, e che cosa pensa quando scopre di averli esauriti tutti quanti fino all'ultima goccia? Ora basta, dice, non ne ho più. Chiude gli occhi e se ne va per sempre, e così viene prontamente sostituito e la sua morte viene celebrata ma allo stesso tempo fatta passare sotto silenzio, cremata o sotterrata, non tanto perché è brutta da vedere, quanto piuttosto perché fa paura. Fa paura perché è buia, oscura, indistinta, sconosciuta, aliena. La morte è altro da noi. Ma ciascuno di noi è destinato ad andarla a trovare, quando ha consumato tutte le proprie ore ed esaurito tutti i propri respiri.
E poi che cosa resta? Nient'altro che polvere. Polvere originata dal caso, che casualmente diverrà qualcos'altro. E il peggiore nemico dell'uomo resta sempre e soltanto l'uomo, l'uomo come origine e conclusione del proprio io e del proprio percorso, nascita e morte delle proprie scelte, produttore e giustiziere delle proprie speranze, ostetrico e becchino di se stesso.
Che cosa resta, alla fine? Nient'altro che sogni. Sogni che sbiadiscono e poi sfumano, finché il vento non li porta via con sé. E dopo... Dopo calano le tenebre.
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